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Abissi di tenebra
Elisa Menetti si svegliò di soprassalto. Con un balzo fu seduta sul letto, il
cuore in gola e l’inspiegabile desiderio di fuggire. Si tappò la bocca con una
mano per reprimere il grido improvviso che già le si era disegnato sulle labbra,
ed il viso le si contrasse in un’espressione di puro terrore.
Restò così, immobile, per quasi un minuto, dopodiché, rendendosi conto di quanto
la situazione sarebbe potuta apparire buffa, si ricompose. Inspirò profondamente
per qualche volta e cercò di riportare i battiti del suo cuore ad una frequenza
ordinaria.
Calmato l’improvviso attacco di panico voltò la testa, in cerca di ciò che
avesse causato il suo brusco risveglio. Una banale cameretta si parò davanti al
suo sguardo. Mobili di legno placcato, scrivania di plastica ingombra di libri,
riviste e scartoffie macchiate di cibo, una vasta collezione di peluches
polverosi e alcuni poster di cantanti famosi sulla parete. Una stanza qualunque
di una comune adolescente.
Nell’ ambiente regnava un cupo silenzio e vi aleggiava il tipico odore di sonno
di quando le finestre non vengono aperte per arieggiare. Dalle veneziane sopra
la scrivania filtrava l’ultimo languido raggio di sole, spezzettato dalle foglie
dell’ulivo nel giardinetto. Dopo aver attraversato tutta la camera, esso andava
a posarsi proprio sull’alluminio della lampada spenta, creando un singolare
gioco di luci e riflessi.
Dal
punto in cui Elisa si trovava poteva scorgere in controluce i granelli di
polvere che volteggiavano nell’aria impegnati nella loro eterna danza priva di
logica. Erano così minuscoli che nessuno si accorgeva di loro. Nessuno osservava
il singolo granello, seguiva le sue capriole, le sue spirali, la sua danza
anarchica. Nessuno si curava di dove andasse a posarsi, per poi risollevarsi al
minimo spostamento d’aria. Nessuno cercava una logica in quel vagare senza
sosta, in quell’esistenza priva di significato. Che poteva rappresentare un
granello di polvere? Nulla. Ma non il nulla. Il nulla che non è il nulla.
L’esistenza che è così insignificante da non essere quasi un’esistenza.
L’esistere che sarebbe uguale al non esistere, che non muterebbe il corso degli
eventi. E infine l’uniformità e la razionalità in una danza che ne sembrava
priva, ma dove infondo tutti i granelli di polvere compivano il loro dovere,
quello di danzare eternamente, seguendo, con profondo raziocinio il percorso
degli altri, intersecandolo, urtandolo, deviandolo. Certo, perché la vera
in-uniformità sarebbe stata quella del granello di polvere che si fosse stancato
di correre dietro agli altri e avesse deciso di fermarsi sospeso per aria,
fisso, contrastando la corrente degli altri miliardi di compagni. Ma cosa
avrebbe potuto significare un granello di polvere che si fosse fermato sospeso
per aria? Chi avrebbe mai seguito il pazzo nichilista che avesse fatto di testa
sua? Chi si sarebbe mai accorto di quell’insignificante nullità che dal suo
baratro di inconsistente irrilevanza alzava la sua supplica di redenzione? E chi
avrebbe mai potuto aiutarlo a superare gli invalicabili limiti che l’esistenza
gli aveva imposto?
Elisa sbattè le palpebre. Incantata dal luccichio del riflesso era piombata in
una sorta di stato catalitico. Le succedeva spesso di recente. Era in quei
momenti di sonno ad occhi aperti che la sua fantasia partiva a briglia sciolta
per inoltrarsi nei più impensabili ragionamenti.
Svogliatamente Elisa appoggiò le mani sul copriletto rosso, lanciando una fugace
occhiata al libro di greco che giaceva vicino al cuscino. Ora ricordava, si era
assopita mentre ripassava per il tema in classe del giorno successivo, distesa
sul letto e, a giudicare da un certo torcicollo, il libro doveva aver svolto
l’inadatta funzione di guanciale. Ma erano appena le due del pomeriggio quando
aveva cominciato a studiare ed ora, stando a ciò che segnalava la sveglia
fosforescente posata sul comodino erano le sei passate. Possibile che nessuno
l’avesse svegliata? Possibile che il telefono non avesse squillato nemmeno una
volta, che il suo cane non fosse mai entrato per darle una leccata o che sua
sorella non fosse passata nemmeno di sfuggita per romperle un po’ le scatole?
In
ogni caso, si disse, occorreva rimediare al tempo perduto, mettendosi a studiare
di impegno. Si alzò in piedi barcollano un pochino, infilò le ciabatte sui piedi
scalzi e senza tante cerimonie estrasse quaderni e appunti della cartella che
lanciò su una sedia. Poi si sedette alla scrivania spazzando giù con una manata
parecchie stratificazioni di fogli di ogni genere, afferrò una matita e, di
buona lena, iniziò a schematizzare alcune pagine di complicata teoria. Aveva
sintetizzato mezza pagina, quando il ritmo di scrittura cominciò a diminuire e
la grafia a farsi più sgraziata e storta. In meno di mezzo minuto si ritrovò a
disegnare figurine contorte sul margine della pagina, mentre la sua mente
intorpidita viaggiava chissà in che paese remoto.
Fu
in quel momento che improvvisamente si udì un suono.
Il
cuore della ragazza saltò dieci battiti, mentre la sua bocca si aprì in un muto
grido di spavento. I capelli le si rizzarono, gli occhi le si spalancarono, le
unghie le affondarono nella carne e la mano le scivolò dalla matita la quale
disegnò una lunga linea verticale nel mezzo del foglio.
–Ma
che cazzo è?- si chiese la ragazza guardandosi attorno.
Era
sicurissima di avere sentito qualcosa, durato anche solo una frazione di
secondo. Sembrava quasi un sibilo, un sussurro recondito, un mormorio celato.
Eppure non pareva appartenere ad una voce umana, era più metallico e più
trascendente… quasi cangiante.
Elisa si voltò verso la porta e per la seconda volta rischiò di restare vittima
di un infarto fulminante. Un altro nanosecondo, un'altra percezione sfuggevole.
La porta della stanza era socchiusa. Non ricordava di averla lasciata così. La
luce dell’ingresso disegnava una lunga lama giallastra sul pavimento.
Improvvisamente, senza preavviso, il disegno di luce scomparve, offuscato da
qualcosa. Un attimo. Un guizzo di stoffa. La lama riapparve.
Il
volto di Elisa era di cera. Non una singola emozione vi traspariva. Sbattè due
volte le ciglia e contrasse gli occhi scrutando nel buio.
Lentamente un sorriso si dipinse beffardo sulle sue labbra.
–Ma che cazzata!- sussurrò a se stessa –Veramente Elisa, sei proprio scema! Ti
fai suggestionare da tutte quelle stronzate di film che ti fanno vedere
l’Arianna e la Fra! Che boiata! Ma chi credi che ci sia, il coniglio istigatore
di Donnie Darko?- e così dicendo si rimise al lavoro.
Scartabellò ancora per qualche minuto, poi si bloccò di scatto. C’era qualcosa,
se lo sentiva. C’era qualcosa che non riusciva ad afferrare completamente, c’era
un’impressione sfuggevole nel suo subconscio, c’era una situazione irrisolta di
cui non riusciva a venire a capo.
Sentiva come un ronzio nella testa e una strana agitazione le si dibatteva tra
le viscere. C’era qualcosa… qualcosa…
Con
uno scatto deciso allontanò la sedia dal tavolo, si alzò, attraversò la stanza e
spalancò la porta. Il corridoio era deserto. Infondo la porta bianca riluceva
nella semioscurità.
Accese la luce con un gesto scocciato, come a dimostrare a sé stessa che lo
faceva tanto per perdere tempo. Fece tre passi, con i piedi scalzi sul parquet
ed entrò del bagno. Lo specchio restituì l’immagine di una quindicenne dalla
faccia stravolta dal sonno. Capelli lunghi castano scuro, lisciati
artificialmente, naso fine, labbra sottili sopra un apparecchio odontoiatrico,
occhi scuri, cerchiati da profonde occhiaie, ampia fronte, belle guanciotte,
sopracciglia molto curate e colorito cadaverico.
La
ragazza sbuffò alla vista delle borse sotto gli occhi, si legò i capelli con un
elastico e si rinfrescò la faccia con un getto di acqua ghiacciata. Poi con
scarso entusiasmo si avviò verso la cucina e il soggiorno, accendendo tutte le
luci, quasi per preventiva scaramanzia.
-Lilly, dove sei stupido cane?- gridò, ma non ottenne nessun abbaio in risposta.
Probabilmente quello stupido ammasso di pulci si era rintanato in qualche buco e
non riconosceva neanche il proprio nome quando lo si chiamava. Ma perché era
dovuto capitar proprio a lei il cane ritardato? Tutto gracile, scheletrico,
riccio e biancastro, un incrocio tra una pecora grottesca e un grosso topo,
dotato dell’intelligenza di un criceto. Un essere completamente inutile, capace
soltanto di dormire, mangiare e saltare addosso agli ospiti con le sue zampacce
schifose.
La
ragazza spalancò la porta della cucina di malagrazia, aprì quasi
sistematicamente il frigorifero e ne scrutò l’interno. Estrasse uno yogurt con
pezzi di frutta interi ed un cucchiaino dal cassetto, quindi si mise a mangiarlo
con noncuranza, canticchiano una canzone che le passava per la testa in quel
momento.
Fuori aveva iniziato a piovere. Le gocce cadevano sporadiche sul davanzale della
finestra, schizzando il vetro. Ormai il sole era tramontato e la prima oscurità
era calata. I fari delle macchine sulla strada la interrompevano ad intervalli
quasi ossessivi, ma che, in un certo senso le tenevano compagnia. Le
testimoniavano che in quella casa non era proprio sola…
Si
alzò nuovamente per lavare il cucchiaino. Con disinteresse poggiò la mano sul
rubinetto dell’acqua e lo aperse.
Ma
da esso non uscì l’aspettato getto d’acqua fresca.
Al
contrario esso emise un sordo gorgoglio, proveniente da qualche punto
imprecisato nelle tubature. Poi senza preavviso uno sbocco di acqua marrone
eruttò con un sonoro flato, per poi interrompersi nuovamente compensato da
continui e sempre più sonori brontolii e risucchi.
Elisa non avrebbe potuto avere un’espressione più disgustata. Al solo pensiero
che in quello stesso lavandino venisse lavata la verdura le veniva mal di
stomaco. Non che fosse una maniaca degli ambienti asettici, ma l’acqua putrida
dal lavandino della cucina non era compresa tra le sue più elementari norme
igieniche.
Sbuffando abbandonò il cucchiaino sul bancone e, spalancando la porta a vetri,
si spostò in salotto. Afferrò il cordles e compose il numero del ristorante
della madre. Numerosi bip consecutivi le testimoniarono che la linea era
occupata. Provò con a il cellulare del padre e accadde lo stesso. Tentò con
altri numeri, tutti quelli che le passavano per la testa, ma niente, sempre lo
stesso risultato.
Probabilmente era un problema della linea telefonica, o forse, per una singolare
coincidenza tutti stavano utilizzando il telefono proprio in quel momento.
Allo stesso tempo, però, un fatale sospetto cominciò ad infiltrarsi nella mente
già allarmata della ragazza come un gas letale.
Era
come se tutti si fossero volatilizzati, senza lasciare traccia, a parte la voce
atona della segreteria telefonica. Era come se in quel momento ella si trovasse
in un limbo, sola, isolata dal mondo…
Elisa si buttò su divano ed afferrò un cuscino.
–Ma
che cavolo succede?- si chiese per l’ennesima volta, ora leggermente
preoccupata. Ed ancora quella sensazione di peso sulla nuca, quel sesto senso
inconscio, quell’impressione che qualcuno ci osservi.
Il
silenzio statico della casa le pulsava sugli orecchi.
L’unico movimento era la luce dei fari delle macchine che sfrecciavano lungo
Viale Dante Alighieri.
Non
si udiva nemmeno il ticchettio di un orologio. Avvicinò il suo all’orecchio e si
accorse che si era fermato.
Ad
un certo punto quell’assenza di suoni divenne insostenibile. La ragazza raccolse
tutte le sue forze e si alzò, corse fino allo stereo e lo regolò sul massimo
volume. L’apparecchio cominciò a sparare musica a tutto spiano ed Elisa si sentì
un po’ rinfrancata. Si stravaccò sul divano e restò in questa posizione per un
lasso di tempo che non riuscì a determinare.
Poi
ad un certo punto, si udirono tre colpi alla porta.
Questa volta il cuore di Elisa le finì proprio in gola.
–Sei tu Eleonora? Ma perché non ti porti mai le chiavi?-
Nulla.
-Chi è?-
Silenzio.
La
ragazza si alzò lentamente e spense lo stereo. Fece qualche passo e d’un tratto
avvertì l’acqua gelida in una pozzanghera sotto i suoi piedi nudi.
Inarcando le sopracciglia, arrivò davanti alla porta d’ingresso.
-Chi è?- chiese nuovamente.
Nessuna risposta.
-Chi cazzo sei brutto coglione con stè stronzate di scherzi?
Niente.
Si
accostò all’uscio e spiò dal buco della serratura. Non vide altro che buio. La
sua tranquillità vacillò notevolmente. Si appoggiò con la schiena alla porta e
prese a respirare velocemente.
–Cos’è? Cos’è?- gemette.
Improvvisamente il suono dello stereo le giunse alle orecchie. Ma non era la
solita musica che aveva ascoltato prima. Era come se qualcuno avesse cancellato
le modulazioni alte, mentre si avvertivano solo i toni gravi, con lente
pulsazioni ritmiche, ossessive.
Fu
in quel momento che Elisa notò che dalla finestra non giungevano più i fari
delle macchine. Una sensazione di freddo gelido le investì le membra. Percepì il
suono di un liquido che gocciola e scorse il riflesso della grande pozzanghera
sul pavimento.
La
luce delle lampade cominciò ad accendersi e spegnersi ad intervalli irregolari.
Elisa si sentì soffocare.
Si
staccò dalla porta, ma inciampò e cadde.
Vista da vicino alla luce discontinua della lampada, la pozzanghera appariva
color amaranto.
Elisa avvertì nuovamente il fruscio di vesti alle sue spalle.
Si
voltò.
Fine
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