Insegnamenti paterni
Severus si massaggiò con vigore le tempie, mentre
controllava Lupin mescolare quello che sarebbe dovuto essere un
calderone di Pozione Antilupo. Dall’aspetto che aveva assunto
quella brodaglia, capì che non sarebbe stata buona neppure come
antipulci.
“Cosa è questa… roba?” domandò, a
quello che faticava a concepire come un collega. Era solo un…
un…
“Sono un incapace, hai ragione, Severus,” lo anticipò il lupo mannaro.
La mente di Severus era inespugnabile, neppure il Signore Oscuro era mai riuscito a violarla, ma Lupin… lui riusciva a capire, e senza apparentemente dover usare la magia.
Stare in sua compagnia era come essere costantemente appeso a testa in
giù nel mezzo di una folla di mocciosi urlanti, tutti pronti a
ridere di quello che nascondeva nelle mutande.
Lo faceva sentire nudo, i suoi pensieri violati e derisi da quel suo
stupido sorriso che nessuna scortesia era in grado di spegnere.
“Sarei tentato di somministrarti per sbaglio questa roba, al
prossimo Plenilunio, Lupin. Il tuo vecchio amico recentemente evaso da
Azkaban, avrebbe di sicuro trovato un’idea come questa
divertente.”
Lo vide stringere i denti in un’espressioni di profondo disagio.
Severus non era stupito del suo fastidio, sapeva benissimo che stava
complottando per fare accedere Black al castello, senza successo.
“Ma io ho una coscienza, Lupin,” lo mortificò con
una lezione di moralità che dubitava fosse in grado di recepire.
Lupin si allentò la cravatta. “Non so che altro dirti, se
non grazie. Per te non varrà nulla, ma non ho altro,” si
guardò il petto, aggrottando la fronte. “A meno
che… posso ricambiare insegnandoti io, qualcosa. Sicuramente ti
riveleresti un allievo migliore di me.”
Severus si concesse un verso di scherno. “E cosa potresti mai insegnarmi, tu?”
“La cravatta,” indicò il suo collo. “Vedo che tu non la porti.”
“Non dovresti portarla neanche tu. È ridicola sui tuoi
stracci,” lo attaccò, prima che potesse proseguire. Sapeva
dove voleva arrivare: gli uomini portavano le cravatte, Mocciosus i vestiti muffiti della nonna di Paciock.
Vestiti da donna, come quelli che era stato costretto ad indossare durante la sua deplorevole infanzia.
Suo padre godeva nello scegliere i più ambigui che trovava tra
quelli che gli venivano offerti dalla parrocchia del loro quartiere, si
riempiva gli occhi del suo imbarazzo.
L’umiliazione di Severus lo ripagava della vergogna che un figlio sbagliato come lui gli faceva provare.
“Io la porto sempre,” lo ignorò Lupin.
“È un ricordo. Come annodarla è l’ultima cosa
che mi ha insegnato mio padre, facendomi indossare una della sue. Mi
arrivava alle ginocchia.”
Lupin sorrise del ricordo, ma Severus non lo notò, troppo
turbato nel sentirlo pronunciare la parola “padre”. Quanto
era riuscito a indovinare dei suoi pensieri?
“È morto per la fatica di insegnare qualcosa a un incapace
come te?” sibilò, per difendersi dal suo intuito da mostro.
“No,” Lupin abbassò appena lo sguardo. “Non
è morto. Sono diventato un lupo mannaro. Da quel momento
non…” si strinse nelle spalle. “Le cose sono
cambiate.”
Severus si concesse di rilassarsi un poco, era evidente che malgrado la
sua messa in scena, anche Lupin temeva uno scambio di confidenze.
“Tuo padre non ti ha insegnato come annodare le cravatte?” tentò nuovamente.
Non l’aveva mai fatto, ovviamente, ma avrebbe volentieri venduto
lui a un circo come fenomeno da baraccone per comprarsene una per
sé, pensò con odio. Un odio che riversò su chi
insisteva nel provocarlo: “Mio padre mi ha insegnato che i
fenomeni da baraccone dovrebbero stare in gabbie da circo, non dietro a
una cattedra.”
Remus lo guardò con tristezza. “Tu non pensi davvero
questo di me. Lo so,” gli voltò la schiena, dirigendosi
verso l’uscita, e concluse, poco prima di imboccare il corridoio.
“Dovresti smetterla di pensarlo anche di te.”
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