Ehm, salve..!
Non so come e nemmeno perché è nata questa
storia, so solo che una persona a me molto cara non faceva altro che ripetermi
di scrivere una Ryden, non una ONE, ma una LONG. Così dopo
un po’ mi sono decisa. La trama è nata quasi per caso, mentre ero a
lezione all’università e il professore parlava della reinvenzione del
teatro nel 500.
Spero vi piaccia.
Ah sì, bel lo sapete Brendon Urie e Ryan
Ross sono di mia proprietà e nemmeno tutti gli altri personaggi citati lo sono
(Sigh..). Ovviamente niente di tutto questo è scritto
a scopo di lucro.
Capitolo
uno
Brendon pov
Quando
qualcosa irrimediabilmente finisce, si spera sempre che per quanto il tempo
serva a dimenticare non lo farà mai con troppo dolore.
Quel
qualcosa però era talmente forte, talmente intenso che aveva la capacità,
giorno dopo giorno, di rafforzare quei ricordi e lasciando che essi si
imprimessero sulla mia pelle come un tatuaggio indelebile. E così, dentro di
me, nasceva la più folle speranza di poter rivivere ogni singolo istante di
quei ricordi, anche quelli più inopportuni e insignificanti.
Sapevo
che stavo prendendo la situazione troppo a cuore, ma non potevo fare altro.
Faticavo anche a dormire la notte, accavallando pensieri su pensieri e desideri
su desideri.
Per
quanto fossi professionalmente appagato della mia situazione, non potevo
fingere o lasciarmi alle spalle quel costante senso di nostalgia e rabbia.
Ne
avevo accennato solo a Spencer, che lo sentivo rigirarsi nella cuccetta sotto
la mia, ma lui non ribatteva mai, standosene zitto.
Ma
il fatto che ci mancasse ciò che ci aveva reso la vita migliore era un dato di
fatto e non provavamo nemmeno a negarne l’evidenza.
Almeno,
non con gli altri.
A
volte ci perdevamo in malinconici sospiri che manco riuscivamo a trattenere.
Non
che i due, come dire, sostituti, non fosse grandiosi, anzi lo erano eccome, ma
quella alchimia, quella armonia e complicità erano del tutto scomparse.
Il
tuor era iniziato da meno di tre giorni e già avevo la più disperata voglia di
andarmene, solo che le insistenti e, ahimè, convincenti moine di Pete mi
avevano fatto promettere di resistere almeno due settimane.
Con
il risultato di trovarmi vicino a una serie di crisi depressive, dove a nessuno
importava del mio stato morale e venivo solamente usato per la mia bella voce,
che aggiungerei modestamente, insostituibile.
Scacciai
le coperte ruvide con le gambe, fino a farle cadere a terra, mentre sbuffavo
preso da una sfilza di vampate di calore.
Non
ci resistevo più in quel posto.
Fra
il russare di Dallon, i monologhi solitari di Ian nella notte e il fetente
odore dei piedi di Spencer, avevo veramente raggiunto un limite.
Strisciai
silenziosamente fuori dalla cuccetta, per rifugiarmi nel cucinotto, dove con
una smorfia tolsi la molletta che avevo strategicamente agganciato al naso.
Avrei
potuto insegnare ad un corso di sopravvivenza, tante erano le mie conoscenze
nel campo. “come sopravvivere, quando i tuoi compagni di viaggio
presentano differenti e fastidiose patologie fisiche.”
Aprii
il frigo per versare in una tazza, un po’ di latte che venne
successivamente riscaldato nel microonde. Mi sedetti
sul piccolo divanetto di pelle nera, appoggiando la tazza bollente sul tavolino
e cercai di pensare a qualcosa di altamente positivo per non ricadere in
depressione, che giorno dopo giorno si stava trasformando in una gigantesca
crisi isterica.
Avevo
l’impressione che quelle due settimane promesse davanti agli occhi
sfarfallanti di Pete sarebbero state molto dure, considerata la mia voglia di
scappare urlante a gambe levate.
Così
cominciai a pensare a possibili modi per fuggire e raggiungere senza troppi
problemi la California. In
primis volevo raggiungere quei due traditori, seguaci di quell’
hippie senza inibizioni di John Lennon e chiedere, educatamente, una
spiegazione a quello che sentivo con un abbandono. La mia mente astuta pensava
a un possibile piano per chiedere chiarimenti e risposte a quelle domande che
mi si arrovellavano nel cervello con trottole impazzite. Inoltre pensavo anche
di simulare una di quelle scenate madri, come quelle che si vedevano nelle
telenovele spagnole.
Ryan-Teddy-Boy-Ross e
Jon-gaurda-come-sono-dimagrito-ora-che-sono-uscito-dai–Panic-Walker ci
dovevano molte spiegazioni.
Era
un diritto sapere perché aveva lasciato così all’improvviso un progetto
che ci rendeva così fieri, no?
“Credo
che i Panic siano al capolinea, io e Jon lasciamo la band”
Frase
detta di punto in bianco, durante le ultime prove a Las Vegas, dove Spencer era
scoppiato a ridere all’improvviso e altrettanto aveva smesso dopo un’occhiata non proprio divertita di Ryan.
Il
mio solido e inespressivo commento, aveva chiuso ancora di più il mio rapporto
che con Ryan andava irrigidendosi sempre di più.
Non
ricordo quando ho iniziato a provare per lui un sentimento differente sia
dall’amicizia che dal sentirsi semplicemente fratelli.
Davvero
per me è difficile ricordare un tempo preciso.
Ma
probabilmente se avessi tenuto per me quell’amore forse lui sarebbe
ancora qui a scrivere testi strani e a ridere di me per ogni cosa.
Mi
piacerebbe sapere come si può tornare indietro nel tempo e cancellare una
dichiarazione d’amore che ha irrimediabilmente rovinato tutto.
Quindi
la colpa dovrebbe essere solo mia?
Sono
stato io a farlo scappare, a fargli desiderare un’altra vita?
Ora
l’unica risposta certa era che, se continuavo a sbattere la testa sul
tavolo, mi sarei presto ritrovato con un trauma cranico e il restante dei miei
due neuroni morti.
Finii
in fretta il resto del latte per poi barcollare verso la mia cuccetta,
stringendo al naso la molletta rossa da bucato che mi ero procurato da casa.
Mi
voltai verso Ian, che occupava quella che era la mia cuccetta, visto che io mi
ero appropriato di quella di Ryan. Il ragazzo stava parlottando, gli occhi
chiusi e con le braccia protese verso l’alto. Mi concessi una risata,
prima di recuperare le mie coperte e salire con agilità sulla cuccetta. Le
lenzuola erano quelle rosse a fiorellini colorati che avevo regalato a Ryan per
il suo compleanno, prendendolo in giro per il suo nuovo look.
Non
le aveva volute.
Anche
se io preferivo pensare che se ne era solo dimenticato
e che prima o poi sarebbe tornato a prenderle.
Ryan pov
Jon
teneva il conto delle mie avventure su un piccolo quaderno con l’immagine
svolazzante di Spiderman, e tutte le volte segnava il giorno e il nome con una
penna fucsia.
Non
per vantarmi, ma le pagine erano quasi tutte piene di nomi femminili.
“Questa settimana è l’ottava. Voglio proprio
chiederti come hai fatto.” Mi disse Jon, accarezzando Hobo sotto le
orecchie.
“Segreto
professionale.” Feci misterioso, arcuando le sopracciglia.
Jon
non insistette nemmeno un po’, tornando ad occuparsi interamente di Hobo
e alla scatola di biscotti che stava finendo.
I
miei preferiti, aggiungerei.
Ci
rimasi male, pensavo ci tenesse a sapere della mia intensa vita per colmare la
sua, che era radicolarmente monotona.
Lui
è la sua vita perfetta, con la stessa donna da anni e quei loro ridicoli
nomignoli che si affibbiavano tutte le volte che ne avevano l’occasione.
Ovvero
sempre.
“Tra
poco dovremmo cambiare stato e cercare altre bionde svampite da farti scopare,
Ross. Quella della California si stanno esaurendo.” Esclamò, con
cattiveria, mentre mi apprestavo a togliergli Hobo dalle braccia e fargli una
linguaccia.
“ Credo che tu ti stia solo auto convincendo del fatto che
non sai gay, che non sei innamorato di Brendon perché non puoi innamorarti di
un uomo se è addirittura moro. “ lo sentii
sproloquiare, mentre mi chiudevo in camera mia.
Brendon.
Perché
doveva sempre tirare fuori il suo nome?
Non
poteva parlare di Pete per esempio?
Lì
si che avrei avuto qualcosa da ridire!
Ora
era in ballo per me una nuova vita, una vita diversa, fuori dai Panic, fuori
dalla Decay e lontano da lui.
Mi
ero ripromesso di odiarlo e di pensare a lui come la causa di tutto il mio
male.
Se
solo fosse rimasto in silenzio quel giorno, invece di cominciare a inventare
cazzate su un amore che probabilmente quella sua testa aveva inventato e che io
certamente non condividevo.
Amare
Brendon?
Tsk.
No,
assolutamente.
Escluso
nel modo più assoluto.
Poi,
vogliano iniziare ad elencare tutti i possibili fallimenti di una mia presunta
storia con Brendon?
Sarebbero
davvero infiniti.
Una
volta mi ero permesso di fare una lista che comprendeva come minimo una
cinquantina di punti negativi ed altrettanti punti in sospeso che comunque non
avevano la benché minima importanza, visto quanto ero deciso
a lasciarmi tutto alle spalle.
Nessuno
sapeva però, che ci avevo pensato davvero a una storia con lui.
Molti,
e Brendon stesso, sostenevano che ero solo un omofobo alquanto confuso.
E
a Jon piaceva giocarci sopra. Sapevo che aspettava con ansia il momento
fatidico dove io sarei scoppiato e avrei urlato al mondo intero la verità.
Mi
avvicinai al letto lentamente, un po’ infastidito. Bunny, o una roba del
genere, non se ne era ancora andata e poltriva della grossa sotto le coperte
del mio letto, dove era visibile solo una massa scompigliata di capelli ricci.
Sbuffai e tornai sui miei passi, raggiungendo Jon in salotto che aveva preso a
rotolarsi a terra insieme a Hobo.
Presi
la sciarpa e mi infilai la giacca, aggiustandomi una ciocca di capelli davanti
allo specchio.
“Io
esco, di a Cindy che un parente è stato male e sono
scappato in ospedale. Decidi tu la gravità dell’incidente.” Spiegai,
lisciando le pieghe della sciarpa con cura.
“Uhm,
che ne dici dell’anziana zia caduta dalle scale e con un femore
rotto?” propose.
“L’hai
già utilizzata la settimana scorsa, manchi di
inventiva.” Ribattei.
Lui
alzò gli occhi al soffitto, cercando di trattenere la miriade di insulti che
aveva voglia di lanciarmi addosso. “ Ryan, non è la
stessa ragazza. Non credo cambi qualcosa e poi è Bunny, Cindy è stata la
preda di ieri.” Aggiunse, controllando il
quaderno.
“Beh,
fai come ti pare. Adios Amigo.”
Detto
questo, coccolai per un attimo Hobo, poi uscii di casa, sospirando.
Jon
a volte mi inquietava.
Tutto
quel suo insistere, quelle sue pressioni psicologiche stavano avendo su di me
un brutto effetto.
Decisi
di rifugiarmi da Nick, il mio tastierista, lui si che avrebbe avuto
comprensione e pietà per i miei pensieri.
Brendon pov
Se
c’era una cosa che non sopportavo era la relazione felicemente e
spensieratamente gay di Gabe e William.
Odiavo
quando si succhiavano la faccia davanti a tutti prima di un concerto ed era
come se stessero urlando: “ Ehi gente, noi siamo schifosamente gay e
siamo schifosamente felici!”
Grazie,
bei amici.
Anche
Pete aveva ammesso che, portarli in tuor con noi non giovava alla mai salute
morale come in realtà avrebbe dovuto.
Ero
assolutamente e irrimediabilmente sconsolato.
“Su, su Bdon, vedrai che tutto si aggiusterà. Non si
naviga nella merda per sempre.” Mi disse Pete un giorno, assumendo
un’aria da uomo vissuto, sorseggiando Red Bull. Fu come una visione
mistica e quasi gli credetti. Ma più i giorni
passavano, più sentivo di sprofondare in un buco nero.
Poi
fu Gabe ad aprirmi gli occhi.
Una
sera, arrivati alla sesta giornata di tour, quando Saporta non era avvinghiato
a Bill, mi si avvicinò e posando una mano sulla spalla mi sorrise, mettendosi
ad osservare la striscia ambrata dell’orizzonte di quella ignota città
della Virginia.
“Dovresti
darci un taglio.” Mi disse, annuendo alle sue stesse parole.
“Come
scusa?”
“Sì,
un taglio…” muovendo la mano destra in una chiara riproduzione di
una forbice. “questa storia del depresso sta stufando,
sul serio, Brendon. Io lo dico per il tuo bene.”
“Oh,
mi dispiace che il mio dolore vi rechi fastidio, la prossima volta mi
assicurerò di farlo in silenzio!” sbottai, sarcastico.
Nonostante
tutto Saporta rise, sistemandosi a lato la visiera del suo capellino a stampa
colorata. “Senti, da amico voglio darti un consiglio.” Aggiunse
poi, avvicinandosi di più a me, fino ad avere il suo sguardo all’altezza
del mio. “Rifatti una vita. Lascia il passato
dov’è e creati un futuro degno di questo nome. Non vivere con il pensiero
fisso di Ross addosso. Così finirai per logorarti e hai tanta gioia da dare e
tanto carattere per essere il migliore dei musicisti.”
Lo disse con un sorriso stampato sulle labbra e con una sincerità che quasi mi
lasciò a bocca aperta.
Non
sapevo nemmeno che dire, tanto era lo stupore.
Le
sue parole mi avevano colpito, centrato in mezzo alla fronte, come una freccia
lanciata da un tiratore dalla mira difettosa.
Gabe
aveva ragione.
Non
c’era nemmeno modo di ribattere o provare a trovare altre ragioni
differenti dalle sue.
Io mi stavo logorando.
Lo
stavo facendo per una persona che mi considerava alla pari di una mosca da
spiaccicare su un muro, o un panino al burro d’arachidi andato a male.
Mi
ritrovai a sorridere, gli occhi pieni di forza nuova.
Gabe era rimasto zitto, fissando con crescente orgoglio le espressioni del mio
viso cambiare e riprendere quell’armonia che avevo deciso di recuperare
prima di tirare la catenella dello sciacquone.
“Gabby,
grazie!” urlai, facendo voltare non poche persone verso di noi.
“Non troverò ma il modo per sdebitarmi!” e gli abbracciai il busto,
baciandolo su entrambe le guance.
“Potresti
iniziare smettendola di chiamarmi Gabby!” provò a dirmi, ma io nemmeno lo
sentii, impegnato com’ero a correre verso la mia band che cazzeggiava
fuori dal tuor bus.
“Fanciulle, tutte riunite per favore! Soundcheck
straordinario! Muovere quelle vostre chiappette flaccide
verso il palco, forza!” ordinai, sollevando Ian di peso e coinvolgendolo
in un abbraccio con giravolta.
Quando
lo mollai, cascò a terra, ma non mi importò più di tanto e cominciai a marciare
verso il palco, dove Pete mi osservava orgoglioso e con gli occhi scuri lucidi
di commozione.
“Fate
largo ragazzi, Brendon Boyd Urie è tornato.”
Quello
che metteva assolutamente il chiaro il mio essere omosessuale era la mia
attrazione fisica verso gli uomini.
O
verso donne molto mascoline.
Non
trans, ma donne. Sia chiaro.
In
quelle due settimane di tuor Pete mi fece conoscere la peggio specie di
omosessuali arrapati di tutta la Virginia. Non che non mi dispiaceva, ma quei
uomini o erano troppo bassi, o eccessivamente muscolosi, o aveva gli occhi
troppo chiari e i capelli troppo scuri.
Ora,
per riuscire a mandare avanti una trama logica ed esclusivamente dedicata alle mie lodi verso l’amore homo, dovrei iniziare a
raccontarvi dell’incontro che mi cambiò la vita, dovrei parlarvi di
quella persona che mi fece capire davvero cos’era l’amore e
puttanate simili.
Beh,
la realtà è che non accadde nulla del genere. Certo, ci fu un’incontro,
ma non riuscì mai a sostituire quell’amore quasi ossessivo che provavo
nei confronti di Ryan.
Era
un lontano parente di Pete, venuto dall’Australia, per una vacanza che si
era presto tramutata in lavori forzati sotto le direttive del grande capo
Wentz.
Non
l’avevo mai visto, o semplicemente non ci avevo mai fatto caso, anche se
Pete mi ripeteva che veniva sempre ad assistere ai Soundcheck.
Mi
accorsi della sua esistenza solo quando gli finii addosso. Andavo veramente di
corsa quella mattina, mi ero preso la libertà di fare un’ora in più di
jogging, riuscendo ad arrivare in ritardo all’appuntamento con Spence e
gli altri nei pressi del palco.
Lui
stava trasportando, con fatica, dell’attrezzatura pesante che gli
toglieva praticamente tutta la visuale. Io non ci feci caso e continuai a
camminare nella sua direzione con la musica sparata nelle orecchie e il viso
rivolto verso Spence, che già stava seduto comodamente dietro la sua batteria.
Poi ci fu un boato enorme e il mio corpo che finiva a terra su quello morbido
di un ragazzetto biondo con grandissimi occhi smeraldi, mentre, quella che
riconobbi come la tastiera di una delle chitarre di Ian, finirmi sulla testa.
Sentii
urla, imprecazioni e persino una risata, poco prima di perdermi in quei occhi
così assurdamente grandi.
Dovevo
avere una di quelle espressioni da pesce fuor d’acqua perché il ragazzo
mi rise in faccia prima di dirmi che il mio braccio gli stava procurando
qualche difficoltà a respirare. Mi alzai immediatamente, rischiando di ricadere
all’indietro per il capogiro improvviso.
Lui
si mise a sedere, massaggiandosi la testa che aveva sbattuto sul pavimento.
Pete
arrivò di corsa, avvicinandosi al ragazzo con
apprensione.
“El,
tutto bene?! Cazzo ho pensato che ti
avesse ucciso!” esclamò aiutando il biondo ad alzarsi.
“Anche
io sto bene, Pete, non preoccuparti.” Borbottai infastidito, controllando
il ginocchio sbucciato che stava perdendo sangue.
“Credo
che ti verrà un bel bernoccolo, man.” Continuò Pete, ignorando le mie,
palesi, richieste d’attenzione, mentre si alzava in punta di piedi per
controllare la nuca del ragazzo.
“Tutto bene cugino. Non sento
dolore!” disse con poca convinzione, facendo una brutta smorfia dolorante
e cominciando a raccogliere gli strumenti che nell’impatto erano caduti a
terra.
“Molla
l’attrezzatura e vai da Zack.” Insistette Pete. “fatti dare un’occhiata
da lui e vedi se ha qualcosa per il mal di testa.” Aggiunse un sorriso,
mentre il cugino camminava a passo lento verso Zack.
“
Per quanto riguarda te, nel bus c’è la cassettina del pronto soccorso,
prendi dei cerotti e cambiati.”
Ordinò,
girando i tacchi e salutando alcuni tecnici del suono che stavano trafficando
lì vicino.
“E
chi raccoglie questa roba?!” urlai, indicando
con la mano la confusione a terra.
Pete
si fermò e regalandomi un largo sorriso sadico disse: “Ovviamente tu,
Bdon.” E poi sparì, saltellando.
Arrivai
sul bus zoppicante e la ferita che bruciava, segno che si stava già infettando.
Andai a recuperare la cassetta del pronto soccorso, rintanata sotto il letto di
Ian assieme a qualche giornalino porno. Mi sedetti sulla mia cuccetta,
imbevendo un batuffolo di cotone con del disinfettante, prima di scartare il
cerotto con l’immagine di Kermit la rana e applicarlo delicatamente sulla
ferita. Mi accorsi di non essere solo quando la porta del bagno si aprì e ne
uscì il cugino di Pete, fischiettante.
“Oh,
scusa amico, ma quel Zack mi ha mandato qui.”
Disse subito, portando le mani avanti. Io non ribattei e scossi le spalle,
chiedendo con un tonfo la cassetta di metallo. “ Ti fa male?”
chiese, sedendosi di fronte a me.
“No
è tutto apposto.” Borbottai, stendendomi poi sulle lenzuola stropicciate
della cuccetta. Ricalcai con un dito i contorni dorati della federa, mentre il
ragazzo continuava a fissarmi.
“Sei
Brendon Urie, giusto?” chiese, sorridendo e mostrandomi una fila perfetta
di denti bianchi. “ammetto di essere un tuo fan!” aggiunse,
incatenando quei occhi smeraldini ai miei.
Mi
sollevai sui gomiti, più interessato alla sua conoscenza dopo la sua ultima
frase.
“Davvero? Il tuo nome?”
chiesi, guardando per intero la sua figura slanciata.
“Ariel
Wilson.” Disse, estendendo ancora di più quel sorriso perfetto. Allungò
la mano verso di me e io la strinsi.
Lui
la trattenne più del dovuto accarezzandone il dorso con un sorriso malizioso
stampato sulle labbra.
“Ariel?”
esclamai, mentre i miei occhi si illuminavano e la mia mente tornava a vecchi
ricordi di bambino, quando, in mezzo alle mie sorelle, guardavamo la
“Sirenetta” tutte le domeniche pomeriggio. “come la Sirenetta!”
Ariel, perse un attimo il sorriso. “No,
Ariel come Ariel. Può sembrare strano ma è anche un nome maschile.” Ribattè infastidito, scostando la mano dalla mia per
passarsela fra i capelli color miele.
“Okay,
scusa.” Mormorai io, tornando a buttare la testa sul letto.
Lo
guardai di traverso e vidi che aveva recuperato in fretta il sorriso, scendendo
dal letto su cui era seduto con un piccolo salto.
“Direi
che è meglio che vada, il lavoro mi chiama.” Annunciò, avvicinando
pericolosamente il viso al mio, soffiandomi quelle parole dritte in faccia. Il
suo profumo mi arrivò sinuosamente alle narici e questo bastò ad eccitarmi.
Ariel si morse le labbra sottili prima di far scorgere i suoi occhi sulle mie.
Sapevo
che ci stava provando, era palese, ma non avrei assolutamente preso io
l’iniziativa. Volevo provocarlo e così allargai di poco le gambe,
piegando le ginocchia.
Alzai
il sopraciglio in un gesto di sfida, che lui accolse allontanandosi da me,
continuando a tenere quel sorrisetto su quelle labbra che avrei volentieri
morso.
“Ci
vediamo in giro, Brendon.”
Poi
uscì dal bus, lasciandomi addosso la voglia di
intraprendere quella sfida che, a quanto avevo capito, aveva le stesse regole
di guardie e ladri.
Ryan pov
Nick
mi dava quel senso di pace che Jon e gli altri non riuscivano a darmi.
Lui
era sempre calmo, pacato in ogni cosa che faceva e sembrava che avesse tutto il
tempo del mondo per arrivare a una meta.
Mi
piaceva perché era così, spontaneo.
Okay,
forse un po’ aiutato dalla quantità industriale di marijuana che teneva
nel comò in salotto, ma per me era un tipo a posto.
Mi
fece accomodare nel suo salotto interamente bianco e mi sedetti sul suo divano
bianco, mentre prendeva dal tavolino, sempre bianco, una caraffa colma di the
freddo per riempire un bicchiere per poi porgermelo con un sorriso.
“Mi
fa piacere questa tua visita.” Mi soffiò, sorridendo. Presi un lungo
sorso di the, prima di voltarmi a ricambiare quel sorriso gentile.
“Avevo
bisogno di un amico, Nick. Jon mi sta esasperando con la storia di Brendon e
delle bionde che mi scopo!”
Il
mio amico annuì comprensivo, posandomi una mano sulla coscia, premendo
lievemente. Era bello che volesse consolarmi.
Avevo
bisogno di un amico come lui per riuscire a schiarirmi le idee e parlare delle
mie preoccupazioni.
“Perché non me ne parli? Sono sicuro che dopo ti
sentirai meglio.” La sua voce carezzevole mi diede ancora più voglia di
confidarmi con lui.
“Jon
sostiene che io sia innamorato di Brendon.” Iniziai, prendendo un altro
sorso di quello che, piuttosto che the, pareva un infuso di erbe strane.
“ io non so cosa provo. E non so cosa pensare.”
“Innanzitutto
devi chiederti se è vero.” Iniziò Nick, carezzando lievemente con le dita
le pieghe del mio pantalone. “se è vero che lo ami.”
“Non
lo so, Nick, è così strano!” sbottai, passandomi la mano fra i capelli,
scompigliandoli tutti. Lui prese a sistemarli, abbandonando la mia coscia per
inserire le sue lunghe dita fra i miei capelli castani.
Io
mi sentivo strano, avevo la testa che girava pesantemente, anche se in modo
piacevole e prima ancora di riuscire ad arrivare a una risposta sensata al mio
malessere interiore, stavo succhiando voracemente le labbra di Nick.
Era
dannatamente piacevole farlo.
La
sua lingua calda sulla mia, mi donava una passione nuova e così intensa che
dovetti aggrapparmi alle sue spalle per non scivolare giù, sulla morbida
moquette color panna. Nick approfittò della cosa, stringendomi i fianchi con le
braccia e spingendomi con forza sdraiato sul divano.
Me
lo ritrovai a cavalcioni, intendo a sbottonare i
bottoni della mia camicia.
Avevo
sempre pensato a Nick come l’essere più calmo e pacato a questo mondo.
Mi
sbagliavo.
Era
una furia.
“Nick?
Nick?!” tentai di chiamarlo, mentre mi lasciava
una scia piacevole di baci lungo il collo, solleticandomi il petto scoperto con
la barba sottile. “cosa hai messo dentro quel the?!”
Lo
sentii mugugnare qualcosa su foglie verdi e giurai di aver sentito parlare di
Valeriana, ma quando le sue mani si infilarono prepotentemente, oltre
l’elastico dei miei boxer, smisi di pensare a qualsiasi cosa che non
fosse quel suo corpo magro e caldo e quei suoi abbracci e baci possessivi.
Mi
risvegliai qualche ora dopo, la sensazione di star intraprendendo la fase del
post sbornia. Mugugnai qualcosa di insensato prima di aprire gli occhi e
osservare la stanza di un bianco quasi accecante.
Pensai
di essere morto.
Ma
quando qualcuno al mio fianco si mosse, mi tornò alla mente tutto.
Ogni
più piccolo dettaglio.
E
in quel momento, in quel preciso momento, desiderai di essere morto sul serio.
Nick
sospirò beatamente, avvicinando di più il suo viso verso di me, per sfiorarlo
nell’incavo del mio collo.
Era
strano il fatto che non ricordassi assolutamente il modo in cui eravamo finiti
a rotolarsi sul quel divano, ma che, nonostante tutto, il sesso con Nick era
ancora vivido nella mia mente.
Arrivai
alla conclusione, superato un primo momento di panico totale, che
quell’esperienza non aveva suscitato in me quel disgusto che credo di
provare.
Mi
era piaciuto, troppo forse, ma questa informazione non avevo intenzione di
rivelarla a nessuno.
In
quel momento dovevo solo fare una cosa, una cosa saggia: sparire, scappare,
evadere, dileguarmi, fuggire, filare, nascondermi, eclissarmi, scomparire dalla
faccia della terra e dal cazzo di Nick.
“Ehi,
tutto bene?” la voce di Nick mi fece sussultare così forte che emisi
anche un singhiozzo e il cuore prese a palpitare. “posso giurare di
averti sentito pensare da qui…” mormorò ancora, allungandosi per
posarmi le labbra dietro all’orecchio e mordere lievemente.
Aveva
il corpo caldo e per quanto avevo giurato di mentire, sul fatto che mi era
piaciuto da matti, non potevo non ammettere quanto era deliziosa la sua
vicinanza.
“Come
ci siamo finiti qui?” chiesi invece, girandomi su un fianco per guardarlo
meglio e questo fece si che la sua gamba si attorcigliasse al mio fianco,
mentre le sue dita mi carezzavano il bacino.
“Non
c’è risposta a tutto, Ry.” Mi rispose, guardandomi intensamente
negli occhi. “ però, penso che l’attrazione fra noi due fosse già,
come dire, arrivata a un livello incontenibile…” continuò,
lasciando scorrere lascivamente una mano lungo il petto. “poi ovviamente
ho dovuto darti una spinta, per farti cedere.”
Mi
illuminai improvvisamente, girando lo sguardo verso il mio bicchiere di
“the” posato malamente sul tavolino.
“Mi
hai drogato?” strillai, alzandomi sui gomiti. “ ma sei fuori di
testa, White?!”
“Era
solo Valeriana!” si giustificò, anche se, ovviamente, non credetti a una
sola parola. Alzai un sopracciglio, cercando di fare una buona pressione sui
suoi nervi. “Okay, forse anche un po’ d’erba, ma non fa
male!” esclamò poi, assumendo un’aria da cucciolo abbandonato.
“non l’ho fatto con cattiveria…”
Sospirai,
passandomi una mano fra i capelli. “Oramai, quel che fatto è fatto.”
Dissi, cercando di sorridergli. Il suo sguardo dispiaciuto mi colpiva al petto
peggio di una lancia. “Non sono arrabbiato.” Aggiunsi,
accarezzandogli lievemente la guancia rossa.
Okay,
era una bugia.
Ero
inferocito peggio di una iena, ma non volevo prendermela con lui.
Infondo
mi aveva aiutato a capire molte cose, forse troppo per
essere assimilate in una volta sola, ma avevo del materiale su cui lavorare.
Dovevo
mettere in chiaro le cose almeno con me stesso.
Poi
il mio pensiero, forse troppo in ritardo, volò verso Brendon.
Mi
sentii un po’ in colpa.
Era
come se l’avessi tradito.
“Non
sei arrabbiato?!” chiese, le labbra spalancate.
Io negai e mi allungai verso di lui per congiungere le sue labbra con le mie.
Ora che non ero sotto nessun effetto di “tisana speciale” , tutto, assumeva un significato diverso.
Volevo
baciarle quelle labbra. Non provai altro che desiderio.
Arrivai
a casa strisciando, il fondoschiena in pezzi e i sensi
appagati. Jon era ancora a casa mia e guardava la televisione con Hobo.
Cominciavo
a pensare che Jon amasse più la mia cagnolina che la sua fidanzata.
Lo
salutai svogliatamente, mentre lui ghignava nella mia direzione.
Avevo
un po’ fame così lasciai Jon in salotto e sgusciai in cucina, per
prepararmi un panino al burro d’arachidi. Il libretto del, cosiddetto, conteggio stava in bella vista sul tavolo,
così presi sfogliarlo, mentre mordevo la mia cena. Contai per un po’ i
nomi, poi finii all’ultima pagina, dove, sotto la data di quel giorno
troneggiava un nome, scritto a caratteri quasi cubitali: Nick White.
Sbiancai.
“JON!”
Fine primo capitolo.
Se siete arrivati fino a qua un commentino me lo lasciate? Grazie^^
Grè.