Perché un terzo capitolo della
saga? Già perché…Bè, principalmente per due ragioni. La prima è che con il
secondo capitolo (Il tempo che cambia), purtroppo, non ho fatto un lavoro eccelso.
Sì, lo so, a molti è piaciuto e in se non era male, ma mi era davvero sfuggito
di mano in più occasioni (motivo per cui andava spesso a rilento). La seconda
ragione è che, un tempo, Senza Tregua era una serie seguita da parecchie
persone, che col tempo sono andate scemando, anche per la qualità della
fanfiction stessa. Quello che mi ripropongo con questo terzo capitolo è di
“risvegliare” il tono della serie e di darne una conclusione che ho lasciato
volutamente in sospeso alla fine di Il tempo che cambia. Che altro dire? Spero
che il mio lavoro non vada a perdersi e non sia invano. Con queste premesse vi
auguro buona lettura!
Prologo
La stanza era
illuminata da una luce spettrale. Non era la luce della luna. Quella sera le
nubi invernali non permettevano alla luce di filtrare attraverso di esse. E la
finestra piangeva lacrime di pioggia. Un lampo crepò le nuvole, timidamente.
Poi un tuono in lontananza reclamò la sua paternità.
La luce brillò
più intensa, per un attimo. Risplendendo in tutta la stanza. Era una figura ad
essere illuminata. Una figura dall’aspetto umano, ma in qualche modo corrotta.
Aveva, in sé, un’aura di malvagità che anche il più imbranato fra i maghi
avrebbe potuto percepire.
“Insegnami ciò
che sai”
La figura si voltò verso uno degli angoli più bui della
stanza. La voce lo aveva svegliato da un torpore che durava da ormai troppi
anni. Non sapeva chi fosse, ma non gli importò.
“Perché?” chiese
rivolto all’angolo scuro. Le nubi si illuminarono di nuovo, dorate da un altro
lampo fugace. I vetri tremarono per il tuono che ne seguì, molto forte e molto
vicino.
“Per vendetta”
Capitolo 1
La Bella e la Bestia
“No one knows what its like
To be the bad man, to be the sad man
Behind blue eyes…”
Behind
Blue Eyes, Limp Bizkit
1.
Il professor Edward Dune chiuse l’ultima finestra aperta
sul monitor del personal computer. Febbrilmente tamburellò le dita sulla
scrivania. Neanche si era seduto, la fioca luce della lampada da scrivania
illuminava a malapena la tastiera davanti a lui. Dalla finestra filtrava il
basso pallore di un lampione danneggiato. Lampeggiava insicuro in mezzo al
vicolo.
“Andiamo…sbrigati…”
sussurrò più a stesso che al macchinario elettronico. Il ronzio si attutì d’un
tratto e il lettore cd espulse il supporto.
Il professor
Edward Dune recuperò il cd-rom e se lo infilò nella tasca interna del gilet di
twill. Estrasse un vecchio accendino a benzina e lo passo un paio di volte
sulla superficie del computer. Quello prese a fumare e in un attimo fu avvolto
dalle fiamme. Gettò il resto della latta di benzina sulla scrivania.
Istantaneamente prese fuoco.
Recuperò la
giacca sulla sedia e uscì velocemente dall’appartamento. La serratura forzata
tremò quando chiuse la porta. Un’ultima occhiata e una sistemata al pomello che
pendeva storto. Poco male.
Percorse le
scale, più illuminate, con la febbrile sensazione di sentire un eco minaccioso
in corrispondenza di ogni suo passo. Si voltò un paio di volte a controllare,
ma non vide nulla. O nessuno.
Si immerse nella
notte londinese calpestando la pioggia che aveva inzuppato tutta la città per
l’intero pomeriggio. Nonostante fosse ormai estate, un fresco venticello
sbarazzino si faceva sentire. Si alzò il collo della giacca per proteggersi da
quella brezza. Sfilò i guanti e se li infilò in tasca.
Attraversò la
strada e un taxi si fermò per lasciarlo passare. Lui ringraziò con un gesto
della mano. Superò una pozzanghera e prese a camminare lungo il vialetto. Gli
alberi rigogliosi cantavano e ronzavano dei rumori dell’estate. Il professor
Edward Dune ripensò a tutto quello che aveva fatto quel pomeriggio. A quello
che aveva visto e sentito. Si tastò il volto. Lo zigomo destro gli faceva ancor
un gran male.
Sbuffò,
infreddolito dentro, e cominciò ad attraversare il parco, sua ultima meta. A
quell’ora tarda non ci sarebbe dovuta essere troppa gente. O almeno era quello
che sperava il professor Edward Dune.
Tastò ancora la
tasca dove aveva infilato il cd-rom. Da quel disco dipendeva tutta la sua vita.
Tutto quello che per lui contava nella vita.
Raggiunse la
panchina alla seconda curva del sentiero ad est, come preventivato. I sentieri
erano sgomberi in entrambe le direzioni. Da un
lato era coperto da un cespuglio, mentre dall’altro il campo visivo era
libero fino all’uscita del parco.
Si guardò
intorno sperando di vedere spuntare qualcuno. Cominciò a marciare insofferente
avanti e indietro, di fronte alla panchina. Un dubbio gli attraversò la mente,
trasportato dall’ennesima folata di vento fresco. E se avesse mentito? Se la
avesse uccisa e basta?
Che dannato
stupido! Lui stava facendo il suo gioco, stava facendo il lavoro sporco senza
avere reali sicurezze. Non avrebbe dovuto portare le informazioni con se. Si
accese una sigaretta facendo scintillare il vecchio zippo.
Tirò una boccata
e si guardò ancora intorno. Niente. Nessuno da nessuna parte. Tranne quel
rumore da dietro il cespuglio.
Si sfilò la
sigaretta di bocca e mise una mano all’altezza del petto, proprio sopra la
tasca del gilet. Il cespuglio tremò ancora. E un cane dal pelo nero vi spuntò,
come sputato fuori dalla notte.
Il professor
Edward Dune emise un lamento spaventato e sobbalzò all’indietro. La sigaretta
gli cadde a terra.
“Buck? Ehi bello
dove sei?” un uomo sulla cinquantina spuntò dal sentiero coperto dal cespuglio.
Appena il cane sentì il richiamo si voltò verso il padrone e trotterellò in
mezzo alle sue gambe. L’uomo lo accarezzò e gli allacciò la catena al collo.
“Non devi andare
in giro da solo di sera, rischi di perderti” lo sgridò puntandogli il dito sul
naso. Il cane si lamentò, senza ascoltarlo troppo e cacciò uno sbadiglio.
“Zuccone…” lo
apostrofò ancora l’uomo prima di rimettersi in piedi ed avvicinarsi al
professor Edward Dune.
“Salve, Buck l’ha
spaventata?” chiese. Il professor Edward Dune si strinse la mano al petto di
nuovo e fece un mezzo passo all’indietro. Che fosse uno di loro?
“No…cioè, avevo
visto muovere…” fece un cenno al cespuglio “Credevo fosse qualcuno”
“Ah, sa a Buck
piace dare la caccia ai topi. Se ne annidano molti nei parchi in città”
ridacchiò l’uomo mentre Buck se ne stava seduto accanto a lui, ancora legato al
guinzaglio. Forse fu solo un impressione, ma al professor Edward Dune parve che
quel cane lo guardasse di nascosto, senza farsi notare. Sudò,
impercettibilmente.
“Si sente bene?”
chiese l’uomo avvicinandosi di un altro paio di passi. Passi che al professor
Edward Dune parvero troppi. Ma non si mosse. Era pronto a reagire, ma avrebbe
aspettato ancora.
“Sì, certo…perché
me lo chiede?” rispose nervosamente il professor Edward Dune.
“Non ha una
bella cera…” lo osservò l’uomo, appoggiandogli una mano sulla spalla “Sicuro di
stare bene?”
“Come? Sì,
certo….stavo” ma fu interrotto da un trillo proveniente dai suoi pantaloni. Il
telefonino del professor Edward Dune prese a zigare sempre più forte.
“La lascio alla
sua chiamata” lo salutò l’uomo. Fece un cenno al cane che prese a trotterellare
al suo fianco e superò il professore, continuando per il sentiero.
Il professor Edward
Dune li seguì con lo sguardo finché non sparirono oltre la curva. Il telefono
continuava a squillare facendo eco in tutto il parco.
Come se si fosse
risvegliato di colpo, estrasse il cellulare e lesse il nome sul display.
Sara. Sara lo
chiamava. Era viva! Premette un tasto e si portò il telefonino all’orecchio.
“Sara, amore
mio!” disse tutto d’un fiato facendo scomparire quella sensazione di pesantezza
che aveva al petto. Ma la risposta si fece attendere qualche secondo di troppo.
“Professor Dune
ha le informazioni?” parlò una voce femminile.
Era quella voce!
Quella voce femminile, ma autoritaria. Dolce ed incredibilmente spietata. Il
professor Edward Dune l’avrebbe riconosciuta fra mille. La voce che aveva
sentito quella mattina, prima che Sara sparisse.
“Dov’è?”
“Ha le
informazioni?”
“Dove cazzo è?”
urlò Edward Dune al telefono. La voce al di là dell’apparecchio si fece muta
per qualche secondo.
“Ha le
informazioni? La avverto, se non mi risponde metto giù”
Edward Dune
sospirò sconfitto “Le ho con me” si tastò la tasca interna come per assicurarsi
che il cd-rom fosse ancora lì. Sentì il profilo circolare con la punta delle
dita.
“Bene” disse la
voce, e dopo di ciò interruppe la comunicazione.
“Pronto? Pronto?
Maledizione!” pigiò un altro tasto e sbatté il telefono nella tasca della
giacca. Il professor Edward Dune si girò di scatto deciso più che mai ad
andarsene da lì. Non aveva sicurezze, si era fidato e lo avevano solo preso in
giro. E soprattutto non sapeva come stesse Sara.
“Si calmi,
professore” parlò di nuovo quella voce di donna tremendamente sensuale e
letale. Il professor Edward Dune si voltò verso la panchina. Vide di nuovo
quella donna seduta a gambe incrociate e coi gomiti appoggiati allo schienale.
Lo osservava, divertita, o almeno così pareva. Sorrideva, sotto il rossetto
scarlatto, in pieno contrasto con la sua carnagione chiara. Qualche ruga le
contornava gli occhi, ma non dimostrava di certo l’età che aveva.
Una gran bella
donna, avvolta da un aderente e sensuale abito nero che faceva risaltare ogni
sua curva. Soltanto le spalle erano scoperte. Una piccola mantellina le cadeva
sulla schiena e i lembi erano annodati ai polsi tramite dei delicati lacci,
sempre in velluto nero. I capelli le danzavano perfettamente lisci e neri fra
le scapole.
“Voglio vederla”
disse il professore, senza muoversi. La donna smise di sorridere e parlò.
“Ed io voglio le
informazioni. Me le dia, e io le dirò dov’è la sua ragazza, professore” sibilò
sottile. Si alzò in piedi ed ancheggiò verso la sua vittima. Si sfiorava i
fianchi con le unghie laccate di rosso.
“Perché vi
interessa il lavoro di mio zio?” chiese il professor Edward Dune, facendo un
passo indietro. La donna alzò gli occhi al cielo e sospirò.
“E a lei perché
interessa? Mi dia quel codice e facciamola finita”
“Io non ho mai
detto che mi zio lavorasse ad un codice”
La donna
trattenne il respiro per un attimo. Poi sorrise di nuovo e fece ciondolare la
testa, ad occhi appena socchiusi.
“Ma bravo, complimenti.
Ho bisogno del codice che suo zio ha decodificato”
“Perché?”
insistette il professore. Lei strinse le dita della mano destra, visibilmente
seccata.
“Non è affar
suo, professore” sillabo al limite della sopportazione “Me lo dia e basta” alzò
troppo la voce e il professor Edward Dune tornò a ragionare con lucidità,
almeno per un attimo.
“Chi mi dice che
Sara stia bene? Non darò un bel niente senza vedere prima Sara” la letale donna
fece scivolare una mano dietro i fianchi e la estrasse istantaneamente.
Stringeva stretta fra le dita una lucida stecca di legno scuro.
“Ora conterò
fino a tre, dopodiché che Sara sia viva o morta non le importerà più” alzò il
legno in direzione del professor Dune.
“Uno…”
Il professor
Edward Dune si guardò intorno, ma purtroppo non sembrava ci fosse nessuno nelle
vicinanze. Neanche quel signore di poco prima.
“Due…”
Se l’avesse
ascoltata sarebbe rimasto in vita, ma di Sara non avrebbe avuto notizie certe.
Era su un baratro e non vedeva nessuna uscita. Chiuse gli occhi pregando quel
Dio che non aveva mai ascoltato.
“E tr…”
“Buonasera
Bellatrix” il conto alla rovescia della letale donna si interruppe ad un attimo
dalla fine. Il professor Edward Dune riaprì gli occhi e vide davanti a se
quell’uomo che poco prima lo aveva salutato. Quell’uomo che portava a spasso il
cane. Gli dava le spalle e se ne stava a braccia intrecciate, dietro la
schiena.
Bellatrix
Lestrange abbassò la bacchetta e sorrise rassegnata.
“Remus, credevo
fossi in giro ad ululare alla luna” lo prese in giro lei. Remus non si
scompose, si limito a sorridere, sotto quel suo pizzetto curato.
“Ebbene no,
stanotte è appena crescente, purtroppo. Purtroppo per te, naturalmente”
Il professor
Edward Dune non capiva nulla del dialogo fra i due. Lentamente prese a muoversi
all’indietro, facendo strisciare i piedi sulla sabbia del sentiero.
“Non si muova
professore. Qui intorno è pieno di gentaglia…” lo ammonì Lupin. Il professor
Edward Dune alzò gli occhi per guardare meglio attorno a se. Fra le pieghe
delle ombre di alberi e lampioni, notò un paio di sagome a cui prima non aveva
badato. Erano di forma umana, non c’era dubbio, ed erano straordinariamente
mimetizzate con l’ambiente. Se non glielo avesse fatto notare quello strano
individuo, probabilmente non lo avrebbe viste.
“A proposito di
gentaglia, se tu sei qui ci deve essere anche il mio pulcioso cugino”
“Ciao Bella,
sempre lieto…” Sirius Black spuntò dalle spalle di Bellatrix. Annodata al
braccio destro aveva una catena molto simile a quella usata per i guinzagli dei
cani. Bellatrix si voltò per guardarlo in faccia.
“Sarò lieta di
sbattervi ad Azkaban per il resto dei vostri giorni. Siete fra i più ricercati
in Inghilterra, lo sapete?”
Sirius le
sorrise “Illusa”
“Sbruffone” lo
rimbeccò lei.
“Sei sempre la
mia dolce cugina” decretò Sirius. Dopodiché fece oscillare la catena, la fece
vorticare velocemente attorno al braccio e ne lanciò un’estremità verso il
cespuglio. La catena si artigliò stretta attorno a qualcosa. Si sentì un
lamento, poi Sirius la recuperò con uno strattone. Trascinato dalla catena
spuntò un individuo intabarrato che ruzzolò poco decorosamente a terra, ai
piedi dello stesso Sirius.
“Dilettanti”
dichiarò Sirius, aprendo le ostilità. Un paio di tizi nascosti fra le ombre
scattarono insieme addosso a Sirius. Agitarono entrambi le bacchette
pronunciando una veloce formula magica.
“Stupeficium!”
l’aria si increspò, ma i due incantesimi centrarono in pieno il suolo. Con
sorpresa videro Sirius in volo sopra di loro. Concluse il balzo sulla testa di
uno dei due, gli strappò la bacchetta di mano e la puntò contro l’altro.
“Tremula!”
un fiocco di luce rossa colpì la spalla dell’altro mago avvolto dal mantello.
Ed improvvisamente si accorse di non poter più coordinare i movimenti. Le
braccia gli tremavano, come anche le gambe e il collo, facendo ballonzolare la
testa in ogni direzione. Tentò invano di reggersi in piedi, ma crollò,
vibrante, al suolo.
Bellatrix,
intanto, non era stata di certo ferma a guardare. Con passo deciso camminò
verso Lupin, che non accennava a muoversi dalla sua posizione. Anzi rideva.
Bellatrix alzò
la bacchetta verso la sua testa e la perforò con un incantesimo di fuoco. Le
fiamme crepitarono come pazze e fecero tremare l’immagine di Lupin.
“Un illusione…” alzò
la voce e si guardò intorno “Remus Lupin sei patetico” sogghignò e puntò la
bacchetta verso il professor Edward. Quello si strinse le mani sulla tasca del
gilet. E Bellatrix non poté fare a meno di notarlo. Sorrise soddisfatta.
Agitò la verga
magica e il professore si ritrovò sospeso a mezz’aria, incapace di muoversi.
Bellatrix gli strappò la tasca del gilet. Avvertì la forma del disco fra le sue
dita.
“No!” gridò
inutilmente il professore, ma Bellatrix lo ignorò e strinse nella mano il
sottile dischetto di legno. Di legno?
“Sarà patetico”
parlò Lupin, in piedi sulla panchina lì accanto “Ma è dannatamente funzionale”
si rigirava fra le dita un sottile disco lucido e brillante come l’argento.
“Tu, mago da
quattro soldi…” Bellatrix si voltò versò Lupin e sbatté a terra il ridicolo
disco di legno. Il professor Edward cadde al suolo, libero dall’incantesimo.
La sensuale e
letale maga camminò rapida, ma una scarica di fulmini interruppe il suo fiero
percorso, lasciando una chiazza nera e bruciata davanti ai suoi piedi.
Sirius affiancò
l’amico. Aveva ancora le mani coperte da piccoli fulmini lungo tutto il dorso.
“Non fare la
cattiva, fai giocare tutti con il gingillo del professore” la canzonò Sirius,
come se fossero ancora bambini. Bellatrix fece oscillare la bacchetta.
“Voi non avete
idea…” disse, chiuse gli occhi e formulò un incantesimo che anche Lupin fece
fatica ad identificare. Gli occhi le si fecero neri e opalescenti per un
attimo. Dopodiché le ombre intorno presero a tremare.
“E’ un
evocazione” disse piano Lupin estraendo, finalmente, la bacchetta.
“Bene, mentre tu
fai ricerche io la pesto, ok?” con un balzo Sirius saltò vicino a Bellatrix, ma
lei terminò l’incantesimo un attimo prima e scivolò lontano con un fluido
movimento di gambe.
“Ormai è tardi,
cugino…” sorrise lasciva. Sirius la guardò in cagnesco e stiracchiò i muscoli
del collo.
Remus Lupin non
era un uomo d’azione. Con l’età, poi, la sua già scarsa attitudine al
combattimento era andata, via via, scemando. Eppure, quel basso ruggito che
sentì alle sue spalle lo fece pentire di non essersi tenuto nemmeno un po’ in
allenamento.
Lupin si voltò e
vide un enorme bocca di ombra e notte spalancarsi e cercare di inghiottirlo.
Con un poco elegante saltello scese dalla panchina ed evitò il morso del
mostro.
“Sirius!” urlò
“Un serpente d’ombra!”
Sirius si voltò
e vide l’enorme biscione scivolare sopra la panchina e avvicinarsi a loro due.
La massa del serpente era costituita per intero da ombre e buio, sembrava quasi
non avere un vero corpo, soltanto una bozza di ciò che sarebbe potuto essere
nella realtà. Un incubo dalla forma vaga.
“Ok come si
affronta questa bestiaccia?” chiese Sirius scartando i movimenti del grosso
rettile, preceduto dall’amico.
“Come si
affronta? Che vuoi che ne sappia di come si affronta!”
“Sei stato
professore di difesa contro le arti oscure ad Hogwarts e non sai come si
affronta questo coso?!”
“Ehi, io
insegnavo a dei ragazzi, mica a dei soldati!”
Un guizzo del
serpente li sorprese e li costrinse a gettarsi alle estremità opposte. Remus
rotolò vicino al professore babbano, che ancora non si era mosso da dove era
caduto. Fortunatamente per Lupin, il grosso rettile preferì continuare a dare
la caccia a Sirius.
Lupin aiutò il
professor Dune ad alzarsi e quello, a metà fra lo sconvolto e l’incredulo, gli
strappò di mano il disco d’argento.
“Questo è mio!”
“No, quello è
mio” replicò sicura Bellatrix agitando la bacchetta verso la mano del
professore. Quella si contorse e con un urlo il professor Dune lasciò la presa
sull’oggetto che schizzò nella sua direzione.
“Incendio!”
il disco brillante scintillò per un momento, poi le fiamme crepitanti lo
circondarono rendendolo incandescente. Nella mani di Bellatrix giunse solo un
mucchio di cenere fumosa.
La maga si voltò
verso Lupin che ancora aveva la bacchetta tesa a mezz’aria.
“Hai commesso la
tua ultima impudenza, Remus Lupin” stridette Bellatrix inviperita “Non hai la
minima idea di quello che hai appena distrutto” gli puntò contro la bacchetta
con una voglia di morte dipinta sul volto. Una voglia che subito mutò in un
sorriso sadico.
“Ma credo che vi
lascerò alle cure del mio rettile, addio Remus” gli fece l’occhiolino e con un
guizzo della bacchetta si smaterializzò.
“Remus, che cazzo!” Lupin si voltò di scatto,
e con lui il professore. Il serpente d’ombra sferrò un attacco, ma Sirius lo
evitò con un balzò. Atterrò oltre i due, plastico e senza sbavature.
“Corra
professore!” lo spintonò Lupin. Ma il terrore di quella creatura, incredibile e
inconcepibile per la mente del professor Dune, gli annebbiò i sensi. E i
riflessi. Troppo tardi si mosse scattando di lato. La bocca del mostro lo
inghiottì a partire dal braccio destro.
Il professore
Dune tentò di gridare, invano. Sentì una pungente sensazione di freddo penetrargli
la carne dell’arto, fino alla spalla. Doveva liberarsi. Cercò di fare perno sul
muso del mostro, ma scoprì solo in quel momento di non poterlo nemmeno toccare.
Gli passò attraverso, come se fosse fatto di nulla.
In quel momento
il professore vide la fine. Il mostro aprì di nuovo la bocca e affondò di nuovo
i denti, questa volta inghiottendo tutto il busto dell’uomo, che ormai agitava
le gambe a mezz’aria, impotente.
“Sirius! Hai una
bacchetta?” strillò Lupin sollevandosi dalla polvere in cui si era gettato.
Sirius fece un fluido movimento di mano e impugnò la bacchetta che aveva
sottratto poco prima al tirapiedi di Bellatrix.
“Appena lancerò
l’incantesimo, scatena il miglior Patronus che tu conosca!” Sirius annuì con un
movimento rapido e si concentrò ad occhi chiusi. Si isolò, da solo con la sua
mente e i suoi pensieri. Il pensiero migliore, il pensiero che lo rendeva la
persona più felice. Mary Jane. Mary Jane e i suoi baci, le sue carezze. L’amore
che gli dava e quello che riceveva. Gli scappò un sorriso, poi sentì la formula
di Remus.
“Penta Lumus!”
pronunciò le parole con estrema lentezza. Sirius aprì gli occhi e puntò la
bacchetta al centro delle cinque luci che presero a vorticare come pazze
attorno al mostro.
“Expecto
Patronum!” la scia d’argento schizzò come un fulmine. Correva veloce, con
le sue zampe pelose. Il grosso cane argentato si schiantò a bocca spalancata
contro il serpente d’ombra e assieme a lui le cinque luci esplosero in una
danza, fino ad avvolgerlo completamente. Con un muto grido il mostro si
dissolse e con lui anche l’abbacinante bagliore che lo aveva distrutto.
Il corpo del
professore crollò al suolo, fra la polvere del sentiero. La pelle era
raggrinzita dove era stato morso, ed anche vagamente bluastra. Gli occhi erano
ribaltati all’indietro e non dava molti segni di vita.
Sirius raggiunse
l’amico, e lo aiutò a sorreggersi. Doveva essersi stirato una caviglia con
l’ultimo salto che aveva fatto.
“Come…?” chiese
Sirius senza finire la frase.
“Mi è venuto in
mente come rimandarlo a casa…” si giustificò placidamente Lupin. Con un ultimo
sforzo si rimise in piedi e si pulì dalla faccia un segno di terra con il dorso
della mano.
“Adesso ti è
venuto in mente?!” gridò “Pensavi di farmi fare ancora un po’ di jogging? …ma
pensa te…”
“Sempre dietro a
lamentarti” lo ammonì scherzosamente Lupin, per poi farsi più serio
“Piuttosto…” fece un cenno al cadavere del professore.
“Credo che
avremo qualche problema per la nostra indagine”
2.
L’accendino
scintillò una volta, senza risultati. Con la seconda scintilla, finalmente, la
fiamma si accese e la sigaretta brillò. Il fumo avvolse la sottile stecca di
tabacco e carta, sbuffata fuori dalla bocca del giovane ragazzo.
I capelli
lunghi, ma corti ai lati del capo, cadevano scompigliati sul guanciale. Teneva
un braccio dietro la testa e si gustava la monotonia di quel soffitto,
alternato ogni tanto ad un’aspirata di insalubre tabacco.
Lo scroscio di
una doccia gli faceva di sottofondo e il sole del mattino gli baciava la pelle
del petto e delle braccia, scolpiti da ore in palestra, probabilmente. Soltanto
un lenzuolo, fin troppo pesante per quella stagione, lo copriva dal resto del
mondo. Quello, e una moltitudine di indumenti, sparsi alla rinfusa sul
giaciglio, sul pavimento e uno anche sul paralume della abat-jour. Sorrise nel
vedere quel calzino penzolare.
Lo scroscio si
interruppe, sostituito da un motivetto canticchiato a labbra serrate. Chiunque
stesse cantando quella canzoncina era sicuramente di buon umore. Ed era
sicuramente una ragazza. La stessa ragazza che entrò nella camera dove il
ragazzo tirava l’ultimo fiato alla sigaretta.
La ragazza smise
di canticchiare quando lo vide e con un balzo saltò sul letto, atterrando con
le ginocchia. L’accappatoio celeste le avvolgeva il corpo snello mostrandone
soltanto una bassa scollatura e le deliziose caviglie.
“Buongiorno
dormiglione” lo salutò lei facendo scivolare le labbra su quelle di lui
“Dormito bene?”
“Dormito poco”
sorrise lui “Ma in quanto a bene…bè, sì, quello sì”
Lei si abbassò di
nuovo a baciarlo e gli carezzo il petto con la mano. Lui le strinse la mano
dolcemente e la allontanò da se.
“Perché…?”
chiese lei attonita. Il ragazzo le sorrise sulle labbra.
“Non sono di
pietra…rischi di eccitarmi ancora, sai?”
Lei sorrise
perfida. Abbassò la mano fino a sfiorare il lenzuolo mentre con le labbra
accarezzava il collo e le spalle del ragazzo.
“Davvero?”
rispose ironica, appiccicata al suo collo. Lui tremò un momento, ad occhi
chiusi. Poi allungò una mano e lentamente le sciolse il nodo che teneva chiuso
l’accappatoio. Subito lei strinse i lembi di spugna e cercò di allontanarsi.
“No…dai,
lasciami fare…” il ragazzo alzò lo sguardo e si appoggiò coi gomiti al cuscino
sformato.
“Che ti
succede?” le chiese, senza lasciare la mano che stringeva. Le baciò una spalla
che si era inavvertitamente scoperta e ad occhi chiusi prese a salire verso il
collo sottile. Adorava la sua pelle chiara, sapeva come di buono.
“Io…senti, sono
ancora molto imbarazzata, e allora…”
“Imbarazzata?”
lui si sollevò di scatto dalle sue coccole e la guardò negli occhi “Tua madre
se ne è andata per un paio di giorni, c’è un ragazzo nudo nel tuo letto, tu sei
praticamente svestita…adesso ti imbarazzi?” Lei gli sorrise e scostò lo
sguardo, ma la mano di lui la ricondusse a guardarlo negli occhi.
“Dimmi cos’hai”
la spronò. La ragazza sospirò e si accasciò, stesa sul petto del suo ragazzo.
Incrociò le dita con le sue in un gioco tanto infantile quanto dolce. Lui
attese, consapevole che presto avrebbe parlato. Era fatta così, le ci voleva un
po’ di tempo per poterci pensare su, ma avrebbe detto cosa la turbava.
“Senti, come…”
tossicchiò e prese un respiro, breve ma intenso “Come mi hai…cioè,…come è
andata?”
“Come è andata?”
“Sì, come è
andata?” Il ragazzo sbatté gli occhi perplesso.
“Intendi il
sesso?”
“Per Merlino…sì!
Cos’altro? L’esame di trasfigurazione?” replicò seccata. Lui trattenne a stento
un risolino. Non bisognava mai ridere in certe occasioni. Questa era una di
quelle.
“Direi bene,
cioè…a te è piaciuto?” chiese di rimando lui, mantenendosi astutamente sul
vago.
“Certo!” rispose
subito la ragazza, con fin troppa irruenza. Se ne accorse e subito si corresse
“Voglio dire, sì, perché non avrebbe dovuto? Se escludiamo soltanto la parte
iniziale…”
“Parte
iniziale?” tremò la voce di lui “In…in che senso?”
“Intendo la
prima volta” rettificò subito lei, sentendo il tremolio nella sua voce “Essendo
la prima volta…bè, un po’ di fastidio ha dato”
“Molto?”
“Giusto un po’?
A te ha dato fastidio?”
“No…oddio, no.
Anzi è stato…fantastico” tentò di dire lui.
“Davvero? Allora
sono stata…diciamo “brava”?”
“Brava?” ripeté
incredulo lui “Tesoro mio, a letto sei una bomba!”
La ragazza si
voltò di scatto e lui dovette interrompere, con molto disappunto, la sensuale
catena di morsetti che le stava dando alla base del collo.
“Davvero?”
chiese lei con un sorriso mezzo stampato in faccia.
“Cosa?”
“La cosa della
bomba…davvero non sono una schiappa?”
“Bè, non che la
mia esperienza sia enorme…però, ragazzi, non me la scorderò tanto facilmente!” la
baciò mentre ancora lei sorrideva alle sue parole. Lei gli passò una mano fra i
capelli, scompigliandoli oltre il possibile. Sciolse il bacio e lo buttò di
peso sul materasso. In un attimo gli fu sopra.
“Mi piace quando
sei così dolce” gli disse, poi si chinò a baciarlo ancora “E mi piace quando
sei una bestia!” gli sorrise leccandogli sensualmente il labbro inferiore.
Glielo morse, leggermente, scaricando un brivido lungo alla schiena al
deliziato torturato.
“Bestia?” chiese
con una punta di orgoglio virile nella voce.
“Se io sono una
bomba…” si giustificò la ragazza. Poi si buttò in un bacio a capofitto su di
lui, che rispose con altrettanto vigore, quasi non avessero mai più potuto
sfiorarsi dopo quell’ultimo gesto.
Le allentò
lentamente l’accappatoio e la avvolse con il lenzuolo abbondante, annodato per
tutto il letto. Lui ridacchio scostando le labbra dalle sue.
“Che c’è?”
chiese lei, col sorriso sulla bocca.
“Niente” la
baciò di nuovo “Proprio niente” e la baciò ancora.
3.
“Vin, si
gentile, apri tu la porta” Ginny reggeva due imponenti buste cariche di verdure
uova e altre leccornie.
“Ok, ok” un
ragazzino, forse un po’ troppo basso per la sua età, la anticipò e infilò le
chiavi nella toppa. Portava i capelli corti, rossi come il fuoco. Il largo giubbotto
gli ballava sul fisico magrolino.
“Prego madame”
fece un mezzo inchino e aprì la porta. Ginny rise.
“Grazie messere”
entrò in casa e appoggiò le buste sul ripiano all’ingresso. Vincent prese
subito una delle due buste e la portò in cucina.
“Eve è in casa?”
“Credo di sì”
rispose lui dalla cucina “Ieri sera ha detto che non usciva”
“Eve?” chiamò a
gran voce Ginny, passando vicino alle scale. Ma non ottenne risposta. Vincent
intanto portò l’altra busta in cucina.
“Mamma, forse è
uscita stamattina”
“Va a vedere se
è ancora a letto. Dille di svegliarsi che pranziamo” Vincent annuì col capo e
fece i gradini due a due. Si tolse la giacca e la gettò sul letto di camera
sua, passandoci davanti.
“Sveglia!” gridò
aprendo di scatto la porta della sua camera.
“Ma non si
bussa!” strillò Eve coprendosi alla ben e meglio con l’accappatoio celeste.
“Scusa,
scusa…dormivi ancora?” indagò Vin dando un’occhiata in giro per la camera.
C’era una gran confusione e Eve sembrava stranamente imbarazzata. Stranamente
perché Vincent non aveva mai visto sua sorella imbarazzarsi per così poco.
Stava nascondendo qualcosa. Qualcosa oltre se stessa. Guardò meglio per la
stanza intanto che Eve alzava le coperte. E lo vide.
“C’è Tom?”
“Eh? Perchè? Come fai a
dirlo?” scattò con troppa irruenza Eve. Poi vide dove era puntato lo sguardo di
suo fratello. Il cappello da baseball. Quello era di Tom. Gettò via la maschera
e ne indossò subito un'altra.
“Sì, certo è…è
giù che ripara la mia bici”
“La tua bici non
è rotta”
“Sì la ruota è
bucata” urlò Eve, a voce stranamente alta. Vin alzò un sopracciglio. Non gliela
contava giusta.
“D’accordo,
vestiti che è pronto fra poco” la lasciò sola e scattò giù per le scale.
Eve aspettò un attimo
per essere sicura che si fosse allontanato. Con passi felpati recuperò la
camicia a scacchi blu e i jeans e si avvicinò alla finestra.
Tre metri più in
basso Tom era accucciato in un angolo, coperto dalla siepe troppo alta. In
mutande e con soltanto le scarpe addosso.
“Ehi, tieni” gli
gettò la sua roba e Tom la prese al volo.
“Fai finta di
riparare la bici”
“La bici? Perché
la bici?” chiese Tom infilandosi i jeans che non ricordava così stretti.
“Tu fallo è
basta, è una copertura”
“Ma su tu lo
dicessi e basta?”
“Sì certo.
Mamma, io e Tom stiamo insieme. Ah, stanotte abbiamo fatto sesso. Geniale…”
commentò sarcastica. Tom si infilò la camicia e scattò verso il garage di casa
Malfoy.
“Buca una
gomma!” gli urlò ancora Eve, a bassa voce. Tom annuì con la testa e come un
gatto raggiunse la siepe. La saltò facendosi perno su di essa, graffiandosi le
mani. Rotolò davanti alla porta di ingresso e si rimise in piedi proprio
davanti al garage. Sollevò la porta di alluminio e nello stesso istante la
porta di ingresso si aprì.
“Tom!”
“Ginny!” rispose
lui girandosi di scatto e dissimulando il fiatone.
“Non ti ho visto
prima, sei qui da molto?” Ginny infilò il sacco della spazzatura nella
pattumiera davanti casa. Tom sospirò vago.
“No, non molto,
Eve aveva la bici rotta, così…”
“Sei sempre
gentile con Eve. Ti ha offerto almeno qualcosa?”
Ginny non poteva
rendersi conto di quanto la domanda, carica di doppi sensi, avesse messo in una
paresi da imbarazzo il povero Tom.
“Ehm…sì, sì sì,
sono apposto, grazie! Ora…la bici…sai…”si infilò nel garage salutando Ginny con
un gesto della mano forse un po’ troppo meccanico. Sperò di cuore che non
avesse scoperto o sospettato di nulla.
Prese la bici
della ragazza e si piegò per dissimulare la ruota bucata.
“Non sforzarti”
la voce di Vin alle sue spalle lo fece rialzare di scatto sull’attenti. Si
voltò, di nuovo.
“Ehilà, come va?
Tutto bene?”
“Alla grande,
tu?”
Tom bofonchiò
qualcosa cercando disperatamente di staccare la gomma dalla camera d’aria.
“Bei pantaloni”
“Grazie…” rispose
Tom senza staccare gli occhi da quella dannata ruota anteriore.
“Hai sentito
Chris ultimamente?”
“No è…è in giro
con suo padre…non ho ben capito…”
“Ah, già…già
già…Senti…”
“Cosa?” Tom
ormai non sapeva più cosa inventarsi per toglierselo di torno. Quegli occhi
azzurri lo scrutavano come se volesse leggergli nella mente.
“Non dovresti
fare così con Eve”
“Cioè?”
“Voglio dire”
precisò Vin “Fare tutto quello che dice…che ci ricavi?”
Eh, che ci
ricavo…credo sia abbastanza quel che ricavo!
“Ma tanto a me fa
piacere, siamo amici e…e niente, basta così”
“Mi fa piacere,
anche se si vede che tu sbavi per lei”
“Io non sbavo!”
replicò secco Tom dimenticandosi d’un tratto della bici e della ruota.
“Eddai, un po’
sì!”
“Senti, che ci
posso fare? Tua sorella mi piace, ok?”
“La ami?”
“Cos…?” la
domanda lo colse di sorpresa. Si grattò la testa con indifferenza.
“Fatti i fatti
tuoi, nano!” replicò subito dandogli le spalle.
“Lo considero un
sì…” sorrise Vin alle sue spalle. Tom sbatté il pugno sul bancone da lavoro lì accanto.
“Consideralo
come ti pare, ma ti sarei grato se ti facessi i fatti tuoi, ok?” sillabò le
parole, al limite della sopportazione. Doveva essere un atteggiamento
minaccioso, ma a Vincent Malfoy non impressionò molto quella pagliacciata.
Aveva visto e subito ben di peggio. Sorrise vago e, finalmente, si rimise in
piedi.
“Ok, ok come ti
pare. Solo…”
“Solo cosa?”
quasi urlò Tom.
“Solo, se fossi
in te, io mi cambierei i pantaloni”
“I pantaloni?”
Tom abbandonò quell’aria arrabbiata per lasciare spazio ad una molto perplessa.
Si guardò le gambe e i fianchi dei jeans, fin dove poteva. In effetti quei
pantaloni gli sembravano strani.
“Sono
quelli di mia sorella. Hai “DEVIL” in rilievo sulle chiappe” Vin ridacchiò e
tornò in casa dalla porta di servizio.
Il commentino è
gradito sia dagli amici vecchi che da quelli nuovi ^__-
See you
again!!!