Dominus Somniorum.
Aprì
improvvisamente gli occhi, la fronte imperlata di sudore e la frangia ribelle e
scura incollata ad essa. Era notte fonda e l'intera
residenza gravitava nel silenzio più assoluto, tranne per
qualche cornacchia che non dormiva. Il cielo plumbeo era carico di nuvole,
pronte a riversare quanta più acqua fosse possibile, davanti alla luna,
completamente oscurata dalla loro pesante presenza.
Rebecca
si mise a sedere sulla branda su cui riposava e si passò una mano tra i
capelli, respirando affannosamente.
Di nuovo
quel sogno.
Di nuovo
dopo sette giorni dall'ultima volta.
All'inizio
accadeva solo sporadicamente, una volta al mese,
oppure due. Poi, poco a poco, le cose erano cambiate e quel sogno tornava
puntuale come la morte ad occupare la sua mente
addormentata. Ormai provava terrore ogni volta che prendeva sonno in quelle
notti così buie e tetre.
Più
passava il tempo, più continuava a non capire cosa accadesse nella sua mente.
Quella
situazione andava avanti da parecchio, ormai. Da quando aveva messo piede in
quella casa nel mezzo della campagna francese, ora che ci pensava bene.
Sempre
lo stesso strano sogno. O avrebbe dovuto chiamarlo incubo?
Si
trovava nell'ampia biblioteca di famiglia, stracolma di libri impolverati che
avrebbe voluto divorare, dal primo all'ultimo. Leggere era la sua più grande
passione e si rifugiava tra le pagine di qualche romanzo quando le sue faccende
domestiche erano finite, dopo cena. Perché, sebbene fosse la donna delle
pulizie di quella grande casa, aveva imparato a leggere da bambina, con l'aiuto
di suo padre. Non aveva più smesso.
Ebbene,
lei era lì, seduta sulla sua consueta poltrona che l'abbracciava
ogni volta, quando l'aveva sentito alle sue spalle, le mani gelide che si
posavano su di esse. Come sempre rimaneva immobile, il respiro che si
trasformava in un sospiro, le mani che richiudevano il libro, lasciando un dito
per ricordarsi dove fosse arrivata con la lettura.
E lui,
lui si era chinato su di lei, scostandole la lunga treccia sfatta per lasciarle
scoperto il collo liscio e morbido. Quindi le aveva accarezzato
la pelle intirizzita con le labbra, in un bacio casto e dolce.
«Sei
ancora qui.»
La sua
voce, quella voce che sembrava provenire direttamente
dall'Inferno, tanto bassa e roca fosse, tanto avesse il potere di ammaliarla
anche solo quando pronunciava il suo nome.
«Aspettavo
te.»
Rebecca,
ripensando alle parole che aveva pronunciato nel sogno, arrossì, convincendosi
che nella realtà non sarebbe mai accaduta una cosa simile, tanto meno con quel
tono confidenziale che non usava neanche con madame
Theresa, la governante sua migliore amica, in quell'ambiente. Era stata educata
sin da subito a portare rispetto anche ai suoi fratelli, indi per cui il voi di circostanza era d'obbligo con
chiunque altro.
Lui
aveva sorriso, quelle splendide labbra carnose e pallide che si piegavano in
quella smorfia sensuale.
Le adorava.
«Molto
gentile da parte tua, ma chére.» Le aveva offerto una mano per farla alzare e
lei aveva accettato docilmente, come sempre. L'aveva condotta davanti al
caminetto acceso, dove un grande tappeto rosso era steso sul parquet lucido. Il
fuoco scoppiettante non era riuscito a scaldarla come l'abbraccio freddo
dell'uomo; Rebecca si era ritrovata seduta tra le gambe lunghe e toniche di lui,
schiena contro torace, le sue braccia che l'avvolgevano
con possesso. I suoi occhi scuri, glaciali, si erano spostati sul libro che
teneva ancora tra le mani.
«Riprendi
da dove hai interrotto, per favore.»
La
domestica allora aveva iniziato a leggere a voce alta, un'attività che lui le
chiedeva di fare ogni sera, da qualche tempo. Mai, però, si era ritrovata così
a stretto contatto con il suo corpo; unicamente in quegli strani sogni che le
sarebbero sembrati veri se non fossero stati così bizzarri e imbarazzanti da
far arrossire anche una donna di strada.
Lui
aveva ripreso a baciarle il collo, ora con voluttà, spostando il tessuto della
camicia da notte che gli disturbava le spalle. E lei sospirava tra una parola e
l'altra nel sentire quelle labbra, quella lingua, quei denti affilati che la
mordicchiavano senza farle male.
«Sei
così buona che ti mangerei.»
Rebecca
aveva avvicinato una mano tra i capelli lunghi e scuri di lui,
accarezzandoglieli.
Chissà
se nella realtà erano così morbidi?
«Non
sarebbe la prima volta.»
«Lo
so, ma voglio gustarti a piccole dosi. Altrimenti ti finirei dopo un morso.»
Dopo
aver detto quelle parole, si era chinato nuovamente sul suo collo e lei non
aveva opposto resistenza quando aveva sentito i suoi canini penetrarle la
carne, la lingua che leccava il suo sangue caldo. Le sue mani fredde - come
poteva sentirle così bene? - le avevano preso il libro, poggiandolo da qualche
parte accanto a loro, per poi accarezzarle la pancia, poco sotto i seni.
Rebecca
non riusciva a comprendere come potesse sognare situazioni del genere. Quando
si era documentata, presa dalla curiosità all'inizio
di quegli strani avvenimenti, aveva scoperto le leggende sui vampiri.
Di cui
non aveva mai sentito parlare.
Come
aveva, dunque, potuto sognare uno di loro? Per giunta lui?
Certo,
credeva di provare qualcosa più della curiosità e dell'ammirazione per
quell'uomo che l'aveva stregata dal primo momento e sognarlo probabilmente era
un segnale di pericolo. Ma perché in veste di vampiro?
Probabilmente era frutto del suo inconscio, si ripeteva spesso per trovare una
spiegazione che la tranquillizzasse.
Rebecca
si guardò intorno nel buio, cercando con le mani i fiammiferi per accendere la
lampada ad olio sul comodino, accanto al letto. Si
alzò velocemente, sperando di non far troppo rumore per non svegliare nessuno. Doveva
bere qualcosa di fresco per raffreddare il caldo che provava.
Madame
Theresa le aveva sempre raccomandato di non uscire dalla sua stanza di notte
senza un rosario, spiegandole che così i demoni sarebbero stati lontani. Non
aveva mai creduto a quelle storie che si raccontavano ai bambini per
terrorizzarli, ma quella notte, ancora scossa per il sogno appena fatto, lo
strinse tra le dita.
Scese le
scale a chiocciola in legno con calma, per non far
scricchiolare troppo le assi dei gradini - non voleva immaginare cosa tutto
avrebbe potuto dirle contro la donna trovandola a sgusciare dal letto a
quell'ora della notte. Le ombre tremule che la fiammella della lampada
producevano la fecero rabbrividire. Osservando da una finestra lungo il
corridoio notò che la luna, che aveva fatto capolino per un attimo, venne nuovamente oscurata da quelle nuvole cupe. Stava per
giungere un temporale con i fiocchi. Forse avrebbe fatto meglio a rimanere in
camera al sicuro sotto le coperte?
La
cucina di servizio si trovava al primo piano. Era grande abbastanza per ospitare un tavolo per lei, madame Theresa e i cuochi,
con i mobili degli utensili contro la parete cieca sulla destra; c'era una
porta in legno laccato di bianco, che attraverso una piccola scala portava all'orto
sul retro. Nonostante fosse una stanza utilizzata unicamente dalla servitù
della magione era arredata con gusto e il colore caldo
del legno dei mobili sembrava riscaldare quell'ambiente quasi sempre freddo, esposto
al vento del nord.
La
residenza era completamente addormentata, ma non era sicura di essere l'unica
persona in piedi, in quel momento. Si disse di darsi una calmata, era solo
colpa di un sogno.
Riempì
un bicchiere di acqua che bevve in pochi sorsi, ma non servì molto a calmarla. Aveva
paura a riaddormentarsi, la notte d'altronde era ancora lunga.
Lui
sarebbe potuto tornare a tormentarla.
Alzò lo
sguardo sulla vetrina specchiata, dove erano esposti i bicchieri più belli, e
osservò il suo riflesso contro il vetro, stanca e con due occhiaie da far
invidia. Quando si voltò per cercare qualche avanzo di pane dovette coprirsi la
bocca con le mani per reprimere un grido di spavento. Così facendo fece cadere il bicchiere sul pavimento in cotto, che andò in
pezzi.
Lui era
lì, davanti a lei.
E non
era un sogno.
O forse
sì?
Non era
più sicura di niente, ormai.
L'unica
cosa che sapeva, senza l'ombra di dubbi, era che fosse bellissimo. Era pallido,
sì. Avrebbe azzardato un mortalmente
pallido, se solo non l'avesse fatta rabbrividire. Ma
adorava quei capelli neri, ritirati in una coda bassa con un fiocco porpora,
gli occhi scurissimi, profondi come un pozzo, i lineamenti marcati degli zigomi
e della mascella che spiava ogni volta ne avesse la possibilità. Non negava che
quell'uomo, il proprietario di quella grande residenza, fosse ambiguo e avvolto
da un alone di mistero. Non si presentava mai a pranzo; madame
Theresa le aveva spiegato che usciva di casa molto presto la mattina per lavoro
e tornava solo all'imbrunire, per la cena. Non aveva moglie, ma aveva notato un
seguito ben nutrito di giovani ragazze che entravano furtivamente dal retro e
raggiungevano le sue stanze. Probabilmente anche loro abbandonavano la casa
prima che si svegliasse, perché non le aveva mai riviste.
«Perdonate
l'intrusione, vi ho spaventata?»
Rebecca
rabbrividì al suono di quella voce. Da dove era comparso? Eppure non l'aveva
sentito arrivare né l'aveva visto riflesso alle sue spalle!
«Perdonate
voi la mia reazione, sono un po' suscettibile, ultimamente.», borbottò,
chinandosi per raccogliere il vetro. Imprecò a denti stretti appena si tagliò
con un coccio affilato.
Lui
osservò il sangue che fuoriusciva dal dito leso e che la ragazza si portò alla
bocca con una smorfia. «Brutto incubo, immagino.»
La
fossetta che comparve sul lato sinistro delle labbra le fece pensare che stesse
facendo dell'ironia, come se sapesse. Che pensiero
stupido, come avrebbe potuto?
Un tuono
lontano squarciò il cielo, illuminando a giorno la stanza per qualche secondo. Sì,
un bel temporale in vista.
Continuava
a fissarla senza dire niente e Rebecca si sentì tremendamente a disagio. Era
strano il loro rapporto: si incontravano tutte le sere
da soli in biblioteca per la lettura, e ogni volta l'imbarazzo sfumava via nel
momento in cui lui si sedeva nella poltrona di fronte, ad osservarla e
ascoltarla.
Ma
quella volta era diverso. Lei era ancora scossa dal
vivido ricordo di lui che le succhiava il sangue, alternando dei focosi baci
sulla pelle del collo, e lui era troppo vicino per provare a frenare il veloce
battito del suo cuore. Senza contare il fatto che
detestava quei silenzi imbarazzanti.
«Siete
spaventata, lo sento. Perché?»
I tuoni,
forse. Non le erano mai piaciuti, nemmeno da bambina. Ogni volta si rifugiava
sotto le coperte o tra le braccia del padre per proteggersi da quei ruggiti. Ma no, non era il temporale ora che la spaventava, no.
«No, non
è il temporale che temete.»
Rebecca
sbarrò gli occhi nel sentire i suoi stessi pensieri pronunciati a voce alta da
lui. Strinse tra le dita il rosario in metallo, sperando che l'aiutasse
a tranquillizzarsi. Ma cosa le stava accadendo?
L'uomo
si scostò dalla sua posizione, per recuperare una bottiglia impolverata di
vino, dal mobiletto in legno apposito e ne versò un
po' in due bicchieri, uno dei quali lo porse alla ragazza. Vino rosso, notò lei.
«Bevetene
un goccio, vi riscalderà.»
Non osò
rifiutare l'offerta, qualcosa dentro di lei le diceva di accettare. Cosa aveva da temere, d'altronde?
Rabbrividì
quando le sue dita sfiorarono quelle di lui.
Gelide.
Egli le sorrise rassicurante, sorseggiando il vino senza spostare
lo sguardo dagli occhi di lei. «Raccontatemi, Rebecca,
che sogno avete fatto?»
«Io... non
lo so, veramente.» Chinò il capo, guardandosi senza interesse le punte dei
piedi.
«Immagino
sembrasse reale, se vi ha sconvolta così tanto.»
Lei
tornò a guardarlo, annuendo. «Sì, era così... vero. Io
però non ero spaventata.»
L'uomo
pesò le sue parole, socchiudendo le labbra. «Eravate felice.» Il rossore che le
giunse alle guance lo fece fremere.
«Sì, lo
ero...», ammise, tornando a guardare in basso, questa
volta verso il bicchiere, ancora pieno di vino.
«E voi
desiderereste che fosse veramente reale?»
Il cuore
di Rebecca, già impazzito da prima, sembrò ora scoppiarle in petto. Quel sogno
realtà? Era troppo singolare e pericoloso per immaginare cosa potesse
significare una cosa del genere. «Non potrebbe esserlo, signore.»
«Perché?»
«Perché
è solo il frutto della mia immaginazione.»
Rebecca
lo osservò mentre le dava le spalle e si avvicinava alla finestra, osservando
le prime gocce di pioggia battere contro il vetro. «Ne siete sicura, Rebecca?»
Corrugò
la fronte, lei, non capendo il motivo di quella domanda. «Non dovrei esserlo, monsieur Stein?»
L'uomo
si voltò, avvicinandosi. Le afferrò con delicatezza una mano, quella che la
ragazza aveva ferito poco prima con il vetro rotto.
Era così
calda, quella sua piccola mano.
Il
sangue usciva ancora copioso. Probabilmente le bruciava, ma non si era
lamentata. Non a voce alta, almeno.
Rebecca
sentì le gambe diventarle gelatina appena le labbra di lui
si posarono sul dito leso, succhiando via il sangue.
E quello
sguardo... sembrava proprio quello del sogno.
Chiuse
gli occhi, sospirando profondamente per far arrivare più aria ai polmoni. Ma che stava facendo?
«Sapete
bene cosa sto facendo, Rebecca.»
La sua
voce le sembrò troppo, veramente troppo vicina e quando riaprì gli occhi lui era accostato al suo orecchio, la sua mano che
sfregava il dito ferito contro le labbra, sporcandole di sangue. Se le leccò
subito dopo con lentezza, gesto che le fece provare un imbarazzante calore tra
le gambe.
«Siete
troppo intelligente per non aver capito.»
Rebecca
provò a dire qualcosa, ma per qualche secondo riuscì solo a pronunciare parole
sconclusionate. «Voi non... no, era solo un sogno.»
Lui
annuì. «Sì, lo era. Era solo un... assaggio.»
«Un
assaggio?»
Le baciò
il dito, poi il dorso della mano. «Non volevo spaventarvi con la realtà, ma petite étoile.»
Rebecca
arrossì a quel soprannome così dolce e intimo. Nessuno l'aveva
mai chiamata piccola stella, nemmeno
suo padre.
«Volevo
prepararvi a quella che potrebbe essere la realtà stessa.»
«Io...
non capisco.»
«Avete
capito tutto, Rebecca.» Le sorrise, avvicinandosi al suo
viso, quasi a sfiorarle il naso con il suo. La mano, intanto, stringeva
la sua e la portò all'altezza del cuore, sopra il tessuto della camicia bianca
che indossava. «Siete solo troppo spaventata per ammetterlo.»
Spalancò
gli occhi, rimanendo senza fiato quando non sentì il battito cardiaco dell'uomo,
sotto le dita. «Voi... voi siete...»
«Morto,
sì.» Le posò un dito freddo sulle labbra, per intimarle il silenzio. Quel gesto
brusco diventò subito una carezza che lo fece rabbrividire. Aveva potuto sfiorare
quella carne solo nelle passeggiate mentali a cui la
sottoponeva ogni settimana, ma niente poteva competere con un tocco reale. «Da duecento
cinquant'anni circa.»
Rebecca
scosse la testa, prima debolmente, poi con più veemenza, come a convincersi che
quello fosse l'ennesimo sogno. Non poteva essere vero, era tutto falso, tutto una bugia! Provò a divincolarsi dalla presa dell'uomo,
ma lui non osò lasciarla andare.
«Sono
morto, Rebecca, ma voi... tu, tu mi
fai sentire vivo come una volta.», le sussurrò, mentre il dito segnava con
delicatezza la forma del suo viso. «Non ti sei mai chiesta perché spendo del
tempo con te, una semplice domestica, per sentire la lettura di libri che ho
letto un'infinità di volte?»
Lei
arrossì al pensiero che fece. Aveva sempre immaginato che lui, per quanto
sembrasse un uomo colto, non avesse mai imparato a leggere e che per quel
motivo incaricasse lei di farlo per lui.
«Oh, ma petite, io so leggere eccome.» Le
sorrise quando la vide stupita ancora una volta. Non doveva piacerle l'idea che
qualcuno potesse entrare a proprio piacimento nella sua mente. Del resto, i
pensieri sarebbero dovuti essere i segreti che nessuno avrebbe mai potuto
scoprire; la mente di una persona doveva essere un luogo proibito persino per
Dio, e l'idea che lui, come il Creatore, potesse leggerla così facilmente la
portò a pensare una sola cosa.
Era un
demone, il Diavolo in carne ed ossa.
«Voi mi
spaventate, ora.», mormorò, muovendo qualche passo indietro.
Lui
sospirò, rattristato le parve. «Cosa
posso fare per evitarlo?»
Rebecca
lo osservò per qualche istante, prima di dargli una risposta. L'idea di non
avere un umano davanti a sé, ma un essere leggendario a cui
non aveva mai creduto, la confondeva e la terrorizzava. Un demonio che aveva le
sembianze dell'uomo di cui lentamente, in quei pochi anni che abitava sotto il
suo stesso tetto, si era innamorata.
Eric Stein.
Che bel
nome aveva.
Poteva
il Diavolo chiamarsi così?
«Volete
uccidermi? Volete... farmi diventare come voi?»
«Diavolo,
Rebecca, no!», esclamò, afferrandola con forza per le spalle. «Non potrei mai
farlo, nemmeno se mi supplicassi.», aggiunse più dolcemente. «Ho
passato tutto il tempo dopo la mia morte a cibarmi di animali, perché ho sempre
rifiutato l'idea di uccidere un essere umano. E poi, poi sei arrivata tu, dopo
un'eternità di buio sei arrivata tu, la mia luce. Poterti vedere, poter stare
con te alcune ore a guardarti, ad immaginare cosa
avrebbe significato poterti sfiorare, poterti... mordere. E' stata la prova più
dura della mia esistenza dover resistere al richiamo del tuo sangue, del tuo calore
umano, del tuo profumo.»
Rebecca riprese
a respirare poco dopo, troppo stupita e inebetita da quel flusso di parole che
non avrebbe mai immaginato potesse sentirgli dire.
«Ero
un mostro prima, ora lo sono ancor di più. Sì, sono il Diavolo, Rebecca! Ho
dovuto uccidere le prime donne della mia esistenza per soffocare il desiderio
di te, immaginare di avere il tuo collo tra i canini, di accarezzare la tua
pelle invece dell'ultima prostituta di periferia. Ero sporco prima, ora lo sono
doppiamente. Quale Uomo o Angelo, altrimenti, avrebbe potuto compiere atti
simili?»
Le prime
lacrime scesero dagli occhi della domestica, incredula, spaventata. Che vita
crudele, se di vita avrebbe potuto parlare, aveva
dovuto trascorrere quell'uomo? Ora finalmente iniziava a comprendere quel
rompicapo intorno alla figura del suo padrone.
Capiva
perché lo incontrasse solo di notte - aveva letto che esseri come lui temevano la luce del sole.
Capiva
chi fossero le donne che vedeva e che poi sparivano nel nulla – erano la sua cena.
Capiva
le raccomandazioni di madame Theresa – era lui il
demone da cui doveva proteggersi.
Capiva
perché rimanesse affascinata e incantata ogni volta che lui incrociava il suo
sguardo – non erano umani, quegli occhi.
«Non
piangere, non per me. Non ne vale la pena.» Eric le
asciugò le guance con i pollici, abbozzando un sorriso. «Comprendo che quello
che ti chiedo possa spaventarti, e continuerò a guardarti da lontano se tu non
vorrai.»
«Cosa mi
chiedete?», gli domandò, in un soffio.
«Che
mi permetta di amarti a mio modo. Anche se questo significherà perderti quando
giungerà il tuo momento. Che i pochi anni che trascorreremo insieme, nella
vastità della mia esistenza, siano i più belli e che poi, quando sarai solo un
ricordo, io possa continuare ad esistere senza dimenticarti.»
Rebecca
non seppe cosa ribattere. La sensazione di torpore e panico che provava non
glielo permettevano. Riuscì solo ad allungare una mano
tremante sulla guancia marcata e pallida di lui, dapprima con timore, poi con
dolcezza. Era lui, era sempre lui. Non le aveva mai fatto del male, in quei
mesi, poteva dunque fidarsi di lui? «Sarebbe bello se potessimo vivere
normalmente.», sussurrò, abbassando gli occhi.
«Ma non possiamo, Rebecca. Lo sai bene, ora.»
Si chinò sul suo collo per baciarglielo, finalmente per davvero.
La
ragazza si aggrappò alla sua camicia per evitare di perdere l'equilibrio dal
forte giramento di testa che quelle labbra infuocate le provocò. Aveva paura, una paura folle. Eppure non seppe resistere a quei
baci, a quella voce, a quegli occhi, a quelle mani.
«Cosa devo fare?», gli chiese, allungando il collo per
permettergli di baciarla meglio.
«Devi
fidarti di me. Riprenderò a cibarmi di animali quando non assaggerò te, nei
giorni di pausa. Devi riprenderti affinché il tuo sangue possa tornare ad essere copioso nelle tue vene.» Le baciò
l'orecchio contro cui le aveva sussurrato quelle
parole, ancora troppo bizzarre per sembrarle vere. Forse stava ancora sognando?
«Sarà difficile resistere, ma non prosciugherò via tutte le tue forze, ma chére.»
Lei
sospirò appena sentì le mani di lui circondarle la
schiena, abbracciandola. «Io... mi fido di voi... di
te. L'ho sempre fatto, Eric. Ma…»
Fu
quando sentì il suo nome per la prima volta pronunciato dalla sua splendida
voce che non resistette oltre e affondò con forza i
canini, ora allungati spaventosamente, nella morbida pelle del collo. Aveva
resistito fin troppo e il cieco desiderio di unirsi finalmente con la donna
amata superò di gran lunga le possibilità di farle del
male.
Rebecca
spalancò gli occhi e la bocca, da cui però non provenne alcun suono, se non un
gemito soffocato dal dolore. La sensazione di panico svanì poco dopo, quando
oltre alla dolce sensazione provocata dal suo abbraccio, sentì un calore
improvviso dovuto al piacere. Un piacere che non aveva niente a che fare con i
desideri carnali, eppure tutta quell'incredibile libidine che le fluì fino al
ventre la fece avvampare. Sentì il rumore sinistro e l'odore ferroso del suo
sangue che veniva deglutito con bramosia dalle labbra
del vampiro e gemette quando la mano di lui scivolò lungo la schiena,
attirandola a sé. Le sensazioni di lussuria che stava provando erano le stesse
dei sogni, eppure così intense da stordirla. Possibile che esistesse un
desiderio così forte da farle perdere completamente l'utilizzo del raziocinio?
Poco a
poco il piacere diminuì, lasciando spazio ai brividi di freddo che il poco
sangue in circolazione le provocava. Eric leccò via le ultime gocce di quel
nettare vitale dal collo pallido e l'abbracciò, per
evitare che cadesse per le poche energie. La sollevò con delicatezza, un
braccio sotto le gambe e uno sotto la schiena, e lei,
nel dormiveglia causato da quello strano torpore che la stava avvolgendo,
sorrise. La portò alla sua stanza, adagiandola sul grande letto a baldacchino
dalle lenzuola rosse come il sangue che poco prima aveva bevuto. Ora ella era la sua donna, la sua sposa mortale, e come tale
avrebbe dovuto vivere, fino a che quel bel fiore non fosse appassito per
sempre.
~ Angolino autrice
Buona
sera a tutti!
Ritorno
con un'altra one shot
vampiresca, nata non mi ricordo come né mi ricordo
quando... so solo che stava marcendo nei meandri del mio piccì-umpa-lumpa,
in attesa di una rispolverata e di una degna fine. Sul
degna si potrebbe aprire un
dibattito, ma mi limiterò a dire che non mi convince ancora tanto. Insomma,
volevo qualcosa di romantico ma anche drammatico e che creasse suspence, volevo l'elemento sorpresa ma l'idea geniale non è arrivata... non so quanto questo mi sia riuscito, sento che
manca qualcosa di fondamentale - il problema è che non capisco ancora cosa! Prima o poi lo capirò, lo sento. '-'
Vi
lascio con un arrivederci e un ringraziamento anticipato a chi leggerà!
Marta.
PS: ho aperto un account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. (: