Mercatini di Natale
“Cosa vende, signore?”
Ninfadora squadrò incuriosita lo strano commerciante spoglio,
senza bancarella e senza negozio, che già colorito per la
rigidità della temperatura di quel tardo pomeriggio di dicembre,
si era fatto ancora più rosso dopo che lei gli aveva rivolto la
parola.
Guardò a destra e a sinistra i venditori tra cui si era infilato, ma per loro sembrava esistere meno di un fantasma.
“Come hai capito che io… vorrei vendere qualcosa?” chiese, balbettando un po’ per il freddo.
Lei gli indicò quello che portava al collo a mo’ di sciarpa: un festone da albero di Natale tutto spelacchiato.
“I grandi si mettono addosso roba interessante solo quando
vogliono vendere qualcosa,” gli spiegò, attirando
nuovamente la sua attenzione sui suoi colleghi, molti dei quali
portavano in testa cappelli da Babbo Natale o copricapi da maghi di
quelli che si trovavano nei cracker natalizi.
Il signore le si rivolse con rispetto. “Hai ragione, sei una bambina molto sveglia.”
Ninfadora saltellò sul posto, contenta del complimento ricevuto.
“Però tu te ne stai tutto nascosto, così non ti
fila nessuno.”
Lui abbozzò un sorriso forzato. “Mi vergogno,” ammise, senza guardarla.
Ninfadora non capiva. “Cosa vendi che ti vergogni? Roba vietata?”
Il signore abbassò lo sguardo sulla mano che aveva tolto dalla
tasca del mantello rattoppato e lei lo imitò istintivamente.
“Fate per decorare l’albero?”
Non capiva, cosa c’era da arrossire a vendere le cose di Natale?
Era un lavoro necessario e molto rispettoso.
“Sì.”
Lei fece tintinnare la manciata di Zellini che custodiva in tasca,
preparandosi a contrattare con aria di sfida. “Allora, signore,
spiegami perché dovrei comprare da te le fate e non dagli altri
che le vendono con il banchetto e tutto il resto?”
Lui le sorrise, un sorriso che le fece sentire caldo nel petto meglio di un sorso di cioccolata calda.
“A dire la verità, non dovresti comprare da me, perché io non ho il permesso per vendere.”
“Sei abusivo?”
“Sì.”
Ninfadora scrollò il capo con disapprovazione. “Tutta
questa sincerità ti darà noia, da grande,” si
sentì in dovere di fargli notare.
“Io sono già, grande.”
Si limitò a guardarlo in maniera eloquente.
“Ok, mi dà un sacco di problemi, lo ammetto,”
concordò, serio. Si posò una delle fate sul palmo rivolto
verso l’alto della mano vuota, adattandolo a piccolo palco per
l’esserino alato.
“Mia bellissima signorina in miniatura, ecco la tua occasione per
esibirti, e con un pubblico d’eccellenza!” le disse
enfatico.
La vanità innata della fata la spinse a mettersi in posa
frullando le ali trasparenti, mentre si schiariva la voce contro il
minuscolo pugno.
Ninfadora trattenne il respiro, mentre lei modulava con gli unici suoni
che poteva emettere – dei lunghi ronzii da insetto - la parola
“calzino”.
“Ehi, che forza!” esclamò battendo le mani agli
inchini dell’esserino. Era la prima volta che sentiva una fata
parlare, era convinta che fossero troppo stupide per imparare qualsiasi
cosa. “Io lo so fare con i rutti, ma mamma dice che non sta bene
per una femmina e bla bla bla. È un bel lavoro addestrare le
decorazioni natalizie!”
La pancia del signore ripose per lui, gorgogliando forte.
“Ehi!” ridacchiò lei. “Fame?”
“Scusa,” le mormorò.
Ninfadora si tolse di tasca tutte le monete e una Piperilla esule dalla
sua ultima scorpacciata di dolci, e glieli consegnò.
“Per la fatina parlante bastano? La mamma ne sarà entusiasta!”
Lui si accigliò, mentre osservava le sue manine chiuse nei guanti di lana grossa.
Prese la fata e gliela posò sulla spalla, pescando dal suo bottino solo la caramella.
“Conto saldato,” affermò, ficcandosela in bocca e battendosi soddisfatto la mano sullo stomaco.
Ninfadora non poteva crederci. “Costa così poco? Ma quelle standard vengono quindici Zellini!”
Lui si limitò a sorridere regalandole nuovamente quel dolce calore nel petto.
Ninfadora, estasiata, gli strattonò il mantello facendolo
chinare, e gli stampò un bacio sulla guancia gelata e ruvida.
“Oh, grazie!” trillò, mentre la fata ronzava: calzino! “È proprio fico che dica calzino!”
“È l’unica parola che sono riuscito ad insegnarle,” si scusò il signore.
“Avanti, Dora! Andiamo!”
Era il papà che la chiamava, aveva finito di comprare la roba noiosa della lista della spesa della mamma.
“Ci sei, domani?” chiese al signore prima di correre via.
“Forse.”
“Io torno!”
“Ok.”
“Guarda che non mi dimentico, eh!” promise, mettendosi una
mano sul cuore, dove i sorrisi di quello strano venditore di addobbi
natalizi con il festone al collo l’avevano scaldata.
Ma il giorno dopo non c’era.
Ninfadora l’aveva cercato ogni volta che era riuscita a farsi
accompagnare a Diagon Alley, ma per rivedere di nuovo il suo sorriso
avrebbe dovuto aspettare di inciampare in una zampa di Troll adibita a
lugubre portaombrelli.
“Calzino!” esclamò sbigottita, raddrizzando il piedone.
“Il portaombrelli non credo ne abbia bisogno, non mi pare
particolarmente infreddolito.” Le tese la mano che teneva chiusa
a pugno lungo il fianco e quando lei, ammutolita per la sorpresa, fece
per stringergliela, una caramella la salutò dal centro del suo
palmo.
Anche lui non aveva dimenticato.
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