Nevica.
Fuori dalla
finestra, Eduard e Raivis sembrano divertirsi, lanciandosi palle di
neve ridendo come perfetti idioti, correndo e scivolando, ma ridendo.
Con Russia
impegnato, possono permettersi di rilassarsi, di non essere
continuamente tesi, in attesa di essere schiacciati o perseguitati
dal suo sorriso infantile e crudele.
Si divertono. Io
semplicemente non ci riesco.
Buffo, vero? Anche
in questo siamo diversi. Siamo fratelli, ma le cose in comune si
riducono al minimo, ad una semplice vicinanza territoriale, invece...
Scuoto la testa,
tentando di scacciare pensieri che irrimediabilmente appannerebbero
il mio sguardo.
Non mi piace questa
neve autunnale, una neve innaturale di ottobre. E' rara. Ma coincide
con qualcosa che vorrei non ricordare, che invece però la mia
mente, la mia situazione attuale e anche il mio 'padrone', mi
sbattono in faccia ogni giorno, quasi senza sosta.
Mi esce un sospiro
rotto dalle labbra, che forma un velo tra me e l'immagine allegra
dietro il vetro della finestra.
Che cosa ci faccio
qui? Non è il mio posto, non riesco a starci, a dimenticare.
La realtà non mi piace e non ho nessuna possibilità di
cambiarla. Continuare a pensare al passato, ai periodi felici, non
farà altro che accrescere la mia malinconia.
Ma non posso farne a
meno, davanti a questa neve fuori stagione.
“Anche allora
nevicava.”
Non mi volto a
vedere chi abbia parlato, non mi importa. Dio, lo so a chi appartiene
questa voce, non ho bisogno di incontrare di nuovo quegli occhi.
Non mi piace neppure
assistere a questi rari momenti di lucidità della mia compagna
di sventure. Però è inutile tentare di fermare i
ricordi che sfrecciano rapidi davanti ai miei occhi, mentre riconosco
quella voce e la associo, proprio perché non la sto guardando,
ad un tempo in cui ero al posto dei fratelli Baltici.
Anche io ho giocato
nella neve. Era un periodo dell'anno molto duro, in cui era
necessario farsi bastare il grano amorevolmente coltivato e raccolto
durante l'estate, in cui potevo sentire in fondo al petto il dolore
sordo, la consapevolezza continua, che un figlio, un mio abitante,
moriva di fame e stenti in ogni istante.
Eppure io ero
felice, allora. Potevo dimenticare o, meglio, mettere da parte, per
qualche istante, quel peso sul cuore e non pensare ad altro che al
freddo pungente e piacevole, a correre nella neve che sembrava così
bianca da abbagliare ogni cosa. E scivolare, ogni volta, provocando
quella risata particolare, che ormai si sta perdendo e deformando tra
i ricordi.
“Abbiamo fatto
il possibile, tipo, se ci deprimessimo anche i nostri abitanti
perderebbero tipo troppo la speranza!”
Un'altra voce, reale
quanto la prima, ma innegabilmente solo frutto dei miei ricordi.
“Hai ragione.”
rispondo, appoggiando la fronte al vetro gelido e chiudendo gli
occhi. “Scusami.”
Sì, un tempo
riuscivo ad essere felice nonostante tutto. Allora avevo un fratello,
un vero fratello. E una sorellina da accudire, che era cresciuta
diventando una splendida donna, una meravigliosa nazione dalle
sembianze di bambola.
Una bambola
irrimediabilmente rotta da quella giornata di ottobre in cui cadeva
una neve innaturale, nel momento in cui quel fratello era andato in
frantumi, nel momento in cui la neve era stata tinta di rosso.
Non l'ho protetta
come avevo promesso. La sua mente l'ha dovuto fare al mio posto,
facendo tabula rasa di sentimenti e sensazioni, di ricordi felici, di
battaglie sanguinose. Natalia si è svuotata. Io, chiuso nel
mio dolore, non sono riuscito ad impedirlo. Mi sento inutile e
stupido davanti alla mia impotenza.
“La neve era
rossa, cento anni fa. Rossa. Rossa.”
La voce di Natalia è
accanto a me, ma non l'ho sentita arrivare. Non la sento mai
arrivare. Soprattutto quando intende essere letale. Ma sembra solo
addolorata, triste.
Nonostante tutto,
non apro gli occhi, non rispondo. A cosa servirebbe? Tra poco
scivolerà di nuovo nella follia, tornerà a lucidare i
propri coltelli o seguire Russia o provare ad uccidermi. Comprendo il
suo odio per me. Lo condivido.
Non ha senso tentare
di spiegarle che non avevamo speranze, che il tempo della Repubblica
delle Due Nazioni, quella bizzarra pagina storica in cui così
tante nazioni condividevano gli stessi ideali di libertà e
uguaglianza e coraggio, era finito, la sua sorte decisa da qualcuno
che avevamo aiutato e da una Nazione contro cui avevamo sempre
combattuto.
Non ha senso
spiegarle che non è colpa nostra, se Feliks è morto.
Il mio respiro si
blocca, la mia gola fa un rumore strano, come se qualcuno mi stesse
soffocando, quando non riesco più a censurare il pensiero e
questo esplode nella mia testa.
“Cento anni
fa.”
La voce di Natalia
si fa più bassa e debole, più acuta, mentre la sento
singhiozzare accanto a me. Un tempo l'avrei presa tra le braccia e
consolata, ma anche quei tempi sono andati, insieme alla raccolta del
grano, le stelle cadenti dopo una lunga giornata nei campi, stesi
mano nella mano, noi tre, felici.
Un tempo non tremavo
davanti a nessuno. Non avevo paura di nulla.
Un tempo lei non
sarebbe rimasta dall'altro lato della finestra, rannicchiata come la
vedo ora, divisa tra il desiderio di sfogare il dolore e la
consapevolezza di fare un favore a Russia, esponendosi in quel modo.
Un tempo era Feliks
il primo a tirarle su il morale, a dire qualche stupidaggine a cui
lei rispondeva con un qualche epiteto rivolto a lui e un finto
sdegno.
Non voglio muovermi,
ma d'istinto lo faccio e mi inginocchio accanto a lei, cingendola con
le braccia. E' calda. Lei lo è sempre, candida come neve, ma
trasmette una sensazione di calore, nonostante tutto. E' il mio
passato, una tessera importante che compone quei momenti felici.
“Tornerà.
Lui torna sempre.”
Non riesco a
crederci neppure un istante, però lo vorrei sperare, con tutto
il cuore. Ma sono trascorsi cento anni, da quel 24 ottobre. Cento
anni lenti, interminabili, dolorosi.
E lui,
semplicemente, non torna.
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