IL PRIMO NATALE INSIEME
Quando Luce varcò la soglia di quel grande centro commerciale di
Dallas, mano nella mano con Jay, fù pervasa da una sensazione di
pace e tranquillità così forti da scaldarle il cuore.
Essere circondata da così tante famiglie felici e sorridenti
alla ricerca degli ultimi regali fece scomparire come per magia quel
senso di oppressione che da troppo tempo le pesava sul cuore.
Era la Vigilia di Natale. Il primo che lei e Jay avrebbero passato insieme.
Si erano conosciuti quattro anni prima a Roma in occasione di un
congresso nel corso del quale lei avrebbe dovuto ricevere un premio per
la sua ricerca sull’uso delle cellule staminali nel trattamento
delle lesione ai tendini nei cavalli sportivi. Suo marito non aveva
gradito il fatto che lei avrebbe dovuto passare due intere giornate
così lontano, ma lei non avrebbe rinunciato per niente al mondo
a ricevere direttamente nelle proprie mani il premio per quel lavoro
che le era costato sacrifici, fatica e tempo per tre lunghissimi anni
(oltre al fatto che con suo marito erano mesi che le cose proprio non
andavano). La sua presentazione andò benissimo, tuttavia
Camilla, il suo capo, l’aveva praticamente costretta a
presenziare anche al party alla fine del congresso per cercare
raggranellare qualche fondo in più per l’anno successivo.
Detestava quella parte del suo lavoro, era decisamente più a suo
agio fra centrifughe, spettrometri ed incubatrici, ma Camilla era pur
sempre il suo capo. Quella sera Luce era incantata davanti ad un enorme
finestrone e si stava godendo il panorama mozzafiato di Roma di notte
tutta illuminata con il Colosseo che sembrava il puntale luminoso in
cima ad un gigantesco albero di Natale. Le sarebbe piaciuto passeggiare
per le strade di quella meravigliosa città, immersa nella Dolce
Vita. D’un tratto sentì la voce di un uomo che, con uno
spiccato accento americano, la stava chiamando:
-Dottoressa Maria Luce Medici?-
“Ok, ora sistemo questo scocciatore poi me ne trono in albergo!
Che Camilla e le sue pubbliche relazioni vadano pure al diavolo”
pensò lei mentre si voltava verso quella voce. Rimase di sasso
quando si rese conto di avere di fronte la più grossa
autorità mondiale nel campo delle ricerche sulle cellule
staminali.
-Jay Reynolds- si presentò lui.
Luce non mosse un singolo muscolo del suo corpo pietrificato
dall’emozione, e quasi si sentì svenire quando lui
continuò:
-I’m a big fan of your work!-
Il primo pensiero che attraversò la mente di Luce
nell’udire quelle parole fù: “Oddio Jay Reynolds
è un fan del mio lavoro; il più giovane presidente mai
eletto della Società Americana per la ricerca sulle cellule
staminali ammira il mio lavoro! Accidenti oltre ad essere un genio
è anche uno schianto! Ecco, ora posso morire in pace”
Così cominciò una conversazione che durò tutta la
notte, o almeno fino a quando il cameriere non li invitò
gentilmente ad uscire perché stavano chiudendo il locale.
Parlarono di tutto, oltre che di lavoro, della loro vita e dei loro
gusti. Quella serata fù, per Luce, come una boccata d’aria
fresca, Jay fù come puro ossigeno per i suoi polmoni oppressi da
una vita monotona sempre uguale a se stessa. Un mese dopo arrivò
l’invito di Jay a fare uno stage di un mese presso i suoi
laboratori a Dallas. Lei accettò senza pensarci due volte, anche
perché con suo marito le cose andavano sempre peggio. Il mese,
però, diventò due mesi. I due mesi diventarono quattro. E
poi arrivò il divorzio. Ormai non aveva più senso stare
insieme: lei semplicemente aveva smesso di amarlo, e suo marito anche,
nonostante non l’avrebbe mai ammesso. “Almeno non avete
figli”. Quella frase le fù ripetuta da tutti: parenti,
genitori, amici. Odiava quella frase! Come se l’assenza di figli
potesse automaticamente cancellare tutto il dolore, quasi fisico, ed i
sensi di colpa e di vergogna che la opprimevano come una camicia di
forza. Alla fine arrivò anche il divorzio di Jay. Ormai
era chiaro che nessuno dei due poteva vivere lontano dall’altro.
Avevano cominciato scoprendo di lavorare in perfetta sintonia, come se
i pensieri dell’uno si traducessero istantaneamente nelle azioni
dell’altro, senza bisogno di parole. Poi questa sintonia divenne
simpatia ed infine amore. Passavano più tempo possibile insieme,
specialmente in laboratorio. Quando c’erano delle colture
cellulari da incubare ed analizzare, facevano in modo di mandare a casa
prima dell’orario di chiusura dottorandi e ricercatori e
rimanevano loro a fare quei semplici lavori solo per godere in pace
della reciproca presenza. La prima volta che fecero l’amore
fù proprio in laboratorio. La gioia e la soddisfazione per aver
riprodotto artificialmente un perfetto tessuto fibroso animale
vivo e vitale fù così incontenibile che non riuscirono a
non buttarsi l’uno nelle braccia dell’altra per fare
l’amore tutta la notte. Ormai erano diventati inseparabili. Ed il
problema fu proprio questo. I rispettivi divorzi, gli impegni di lavoro
di Jay, i continui viaggi in Italia di Luce succhiarono tutte le loro
forze per i tre anni successivi. Ogni separazione li svuotava; ogni
volta si sentivano come involucri vuoti ed inutili.
Luce era devastata, fisicamente ed emotivamente, quando
quell’anno, finalmente, quattro giorni prima di Natale
arrivò la sentenza definitiva del suo divorzio.
Non ebbe neanche le forze di passare due giorni con i suoi genitori:
l’unica cosa che voleva era riabbracciare prima possibile Jay.
Giusto il tempo di fare le valigie e prenotare il primo volo
disponibile (anche se voleva dire volare da Roma a Dallas facendo scalo
prima a Francoforte poi a Stoccolma) ed era già seduta al suo
posto vicino al finestrino diretta negli Stati Uniti.
Dopo 12 lunghissime ore di volo era frastornata e distrutta, ma
contenta di essere con Jay. In quel momento si trovavano nel reparto di
abbigliamento da uomo e stavano scegliendo una cravatta da regalare al
padre di Jay quella stessa sera. Per radio stava passando la canzone
“Santa Claus is comin’ to town”(1). Luce non seppe se
per colpa della stanchezza o di quell’improvviso senso di
liberazione o del fatto che aveva passato le ultime dodici ore
confinata in un piccolissimo sedile di aeroplano, ma inaspettatamente
la musica allegra di quella canzone le impartì un’esigenza
quasi fisica: ballare. E ballare fù proprio quello che fece.
Cominciò a muoversi sempre più a ritmo della musica fino
a che non si ritrovò al centro del reparto uomo mentre tutti la
guardavano che ballava a ritmo di quella vecchia canzone. La sua
allegria e l’atmosfera natalizia contagiarono anche altri clienti
, primo fra tutti Jay; i bambini si buttarono insieme a loro
dimenandosi come pazzi senza riuscire a smettere di ridere, e dopo un
po’ anche i genitori raggiunsero i figli trasformando il centro
commerciale in una pista da ballo.
Quando la canzone terminò, Jay e Luce si abbracciarono, sfiniti
dalle risate ma con il cuore più leggero e felici di passare il
Natale insieme…per la prima volta.
(1) Versione originale di J. Fred Coots, Henry Gillespie, 1934
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