Titolo:
Un autunno di
gente che
schiatta
Personaggi:
Remus
Lupin, Sirius Black
Generi:
Malinconico,
introspettivo
Conteggio
parole: 998
Note
personali:
1 Oxford
Street è la più grande strade commerciale del
mondo e si estende
nel centro di Londra per oltre quattro chilometri.
2
Little Lever è una cittadina della contea di Greater
Manchester,
nella parte nordorientale dell'Inghilterra.
3 La
Chiesa di St. Matthew è realmente la chiesa di Little Lever.
La
scelta non è stata casuale: San Matteo, infatti,
è il santo del 21
settembre.
4 I
“Magnificent Seven”, (Magnifici
Sette), è il nome con cui vengono chiamati i sette
storici
cimiteri di Londra: il Kansal Green, il West Norwood, l'Highgate,
l'Abney Park, il Nunhead, il Brompton e il Tower Hamlets.
“«Eravamo
schiacciati venti a uno dai Mangiamorte, ci venivano a cercare uno ad
uno»".
da
“Harry Potter e
l'Ordine della Fenice”
L'autunno
di
quel 1981 era riuscito a cogliere di sorpresa la prodigiosa
tempestività di cui i londinesi amavano tanto vantarsi.
Reduci dalle
belle e soleggiate giornate estive, non avevano avuto modo di
accettare il ritorno della pioggia, del vento pungente e del traffico
intasato dell'ora di punta. Così, fra pomeriggi trascorsi a
rispolverare i calzettoni di lana e rapide corse per acquistare nuovi
cappottini per i bambini, erano tutti nervosi e scocciati. Davanti
alle lucenti vetrine di Oxford Street1,
centinaia di irritati Babbani si spintonavano e si scalciavano l'uno
con l'altro, s'incastravano fra le porte automatiche e si insultavano
con gli accenti più disparati.
Agli
occhi
dei Mangiamorte che li osservavano con disgusto dalla
sommità del
Centre Point, quella folla scalpitante appariva come un patetico
sciame di mosche. Inutili, fastidiosi e deboli – ecco,
ciò che erano i Babbani.
Quando
il
tuono dell'esplosione si levò da Oxford Circus, i due
Mangiamorte
esibirono al cielo plumbeo un tetro sorriso di trionfo. Il
più alto
di loro scoppiò in una risata folle e applaudì un
paio di volte nel
vento.
L'autunno
di quel 1981 era davvero arrivato all'improvviso.
Remus
affondò il viso nella logora sciarpa grigia e si strinse
nelle
spalle per ripararsi dal freddo. Camminava a passo spedito lungo il
leggero pendio che portava al centro del villaggio di Little Lever2,
guardandosi sospettosamente attorno e prestando la massima attenzione
ad ogni rumore sospetto. Sotto al mantello sciupato, le sue dita
stringevano saldamente la bacchetta. Remus temeva – eccome,
se lo temeva – che l'insopportabile tensione, prima o poi,
avrebbe
avuto la meglio sui suoi nervi e l'avrebbe fatto inesorabilmente
crollare.
“È
solo
questione di tempo”, si ripeté.
“Ammazzerò per sbaglio un
passante e trascorrerò il resto dei miei giorni ad
Azkaban”.
Mentre
formulava per l'ennesima volta quel tormentoso pensiero, si accorse
di essere arrivato davanti al cimitero di St. Matthew3.
Nel corso degli ultimi anni, Remus aveva sviluppato una macabra
predilezione per i piccoli cimiteri di provincia. A onor del vero, i
Magnifici Sette4
erano uno spettacolo di impareggiabile
bellezza. Eppure, erano tutti sigillati da imponenti cancellate di
ottone, come se i londinesi avessero paura che i propri morti
potessero fuggire lungo Brompton Road – o di avvicinarglisi
troppo,
piuttosto.
Sentiva
che
il cimitero della chiesa di St. Matthew sarebbe stato una sepoltura
perfetta. Nessun portone, nessun cancello e nessuna palizzata a
dividere i morti dai vivi.
“La vita e
la morte sono la stessa cosa”, gli ripeteva spesso sua madre.
“Non
perdere tempo a cercare di dividere l'una dall'altra: sarebbe come
separare la primavera dall'autunno e domandarsi per quale motivo non
ci siano più fiori in giro».
«Non
dovresti camminare con quella faccia, Moony» lo
schernì una voce
familiare. «O il becchino ti sotterrerà prima del
tempo».
Remus
trasalì appena e voltò la testa verso Sirius,
seduto ai piedi di
una delle colonne del porticato. Il suo aspetto fiero sembrava un
poco più rigido del solito – e dire che non aveva
mai avuto
difficoltà a calzare gli scomodi panni di se stesso. Teneva
il capo
appoggiato alla pietra e fumava distrattamente una striminzita
sigaretta.
«Non
dovresti fumare nella casa di Dio».
«Sono
solo
nel suo giardino» sbottò divertito. «E
tu nemmeno ci credi, in
Dio».
Le
labbra di
Remus si piegarono in una lieve smorfia di colpevolezza. Fece qualche
passo verso Sirius e appoggiò la schiena al muro, scrutando
le
chiome rosse degli alberi che circondavano il cimitero.
«Perché
sei qui?» domandò a bruciapelo Sirius, soffiando
distrattamente una
nuvoletta di fumo e stiracchiandosi come un gatto annoiato.
«Cercavo
un
po' di serenità, ma Dio ne deve avere una concezione molto
discutibile se ha messo te sulla mia strada».
Sirius
emise
uno sbuffo impercettibile.
«È
proprio
un fottuto bastardo».
C'era
qualcosa di dannatamente rassegnato nella voce di Sirius. Qualcosa
che a Remus non poté sfuggire. Lo conosceva da troppo tempo
per non
accorgersi dell'impeto con cui il mostro di quella guerra stava
divorando l'esuberanza dell'amico. E conosceva altrettanto bene se
stesso – o così credeva, almeno – per
sapere che la stessa
angoscia stava attanagliando anche il suo animo, demolendo ogni
briciola di genuina vitalità. Per l'ennesima volta, si
ritrovò a
ricordare le belle giornate estive trascorse ad Hogwarts, quando
ancora si rincorrevano all'ombra del vecchio faggio e progettavano le
avventure del successivo plenilunio. Leggeri, imprudenti e
spensierati. A volte, Remus si stupiva di essere stato così
vivo, un tempo.
«Fa
freddo,
oggi» ruppe il silenzio Remus, infilando le mani gelide nelle
tasche.
«È
l'autunno che fa toc-toc
alla porta delle nostre vite, Moony. Fagli “ciao”
con la manina e
spera che non sia qui per te».
«Quella
è
la Morte, Padfoot».
«Stesso
senso, parole diverse».
Rimasero
in
silenzio qualche istante, fissando intensamente le foglie rossastre
degli alberi scivolare a terra.
«Un
centinaio» disse d'un tratto Sirius, sollevando il capo e
guardandolo con sguardo torvo.
«Di
cosa
stai parlando?».
«Un
centinaio di maledetti Babbani saltati in aria a Oxford
Street».
Remus
trattenne il respiro per un attimo, mentre un'ondata di raggelante
panico gli intorpidiva la mente. Strinse convulsamente le dita e
annuì appena.
«Lo
so».
«Bell'autunno
di merda» sputò con odio Sirius. «Foglie
che cadono e gente che
schiatta».
Distrattamente,
Remus sollevò lo sguardo sul viso di pietra di un solenne
crocefisso
sulla sommità di una lapide. Mentre osservava i fini
lineamenti del
naso e delle labbra della statua, risentì la melodiosa voce
della
madre rimbombargli nella testa.
«E
Gesù
gridò a gran voce: “Dio mio, Dio mio,
perché mi hai
abbandonato?”».
«Sopravviveremo
a quest'autunno, Padfoot?» mormorò Remus, mentre
guardava con
fiacchezza l'amico.
Con
una
smorfia irriverente, Sirius lasciò cadere il mozzicone per
terra e
lo spense con un movimento nervoso del tacco.
«Amen,
fratello».
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