Esterno
ottocentesco
(o di come Delia scoprì la neve)
A
Rita,
per un mucchio di cose che già sai,
e per una serie infinita di altre ancora condividere.
Chiara (russkava yazikà!)
~
Al di là dell'ampio vestito bianco che la impaccia, dei
guanti in seta che la isolano da ogni sensazione tattile e che le
filtrano il mondo attraverso stoffa e cuciture, Delia inizia a sentire
l'aria mancarle. Un tremolante flûte nella destra a sviare
l'attenzione, mentre la mano sinistra scende sul ventre, dove il corpetto
le fascia il torace e termina a punta proprio lì, verso la
sua femminilità che è, in qualche modo, la vera
protagonista della serata. Sara Lascaris, sua compagna di studi in
collegio a Roma, fa il proprio debutto in società in una
freddissima sera di Dicembre e, con lei, quindici fiori della
gioventù piemontese vengono trascinati nel gelo degli abiti
scollati, dei gioielli freddissimi, dei velluti leggeri, per esporre se
stessi agli eroi monchi ed orbi di una nazione. È il 1862:
una nobiltà spaesata tenta di sorridere al fluire di un
nuovo corso che la trascinerà verso un disadattamento che
sarà la sua personalissima rovina. Hanno detto addio alla
corona con l'euforia di un'amante che si crede indipendente, ma ora,
nemmeno un anno dopo, una nostalgia insinuante si è annidata
in fondo ai loro pensieri, e i calici si libano, ma a fatica
l'acclamazione al Re!
viene respinta in fondo alla gola. Delia è giovane, ha 18
anni, e ha vissuto già una decadenza che, senza intristirla,
l'ha lasciata orfana di non sa chi e cosa.
Oltre le ampie vetrate, la neve continua a cadere. Si chiede se mai il
nascondino tra lei e quella cosa
fredda e bianca avrà fine, un giorno. Qualche ora fa, mentre
Martino la conduceva per le strade di una Torino illuminata ed umida, i
fiocchi li hanno sorpresi appena un attimo dopo che entrassero nel
cortile di palazzo Lascaris: Delia inizia a pensare di esser nata roppo
sud per comprendere quel mistero schiumoso. E che la neve sapeva essere
una divinità rispettosa finché il suo
atteggiamento restava distante.
Aveva ballato una quadriglia francese e due valzer prima che Sara la
togliesse dal Colosseo che era la sala da ballo, per gettarla nella
fossa delle presentazioni:
in quanto presunta migliore amica di Sara, a Delia spettava il compito
di inchinarsi e lasciare che il proprio guanto venisse a malapena
sfiorato dalle labbra del parentado. Vennero ammirato i boccoli scuri,
la fronte alta e il portamento eretto ("...so che le suore Orsoline
costringono le ragazze a camminare con delle stecche di legno alla
schiena. Se è vero, si vedono i risultati, mia cara...")
senza tralasciare di mettere in evidenza i piccoli difetti la cui
assenza avrebbe fatto sfigurare Sara. Delia ringrazia sorridendo
pensosa e agitando il ventaglio di pizzo bianco, spendendo qualche
parola sulla sua Roma, distante e cristallina nell'aria invernale, e
che sa pulita da una pioggia continua che baratterebbe
volentieri con la neve che si accumula sulle balconate del palazzo. Si
avvicina alla finestra e sente il gelo che il vetro non riesce a
trattenere e semplicemente non
capisce come quel candore possa farle rizzare i peli sulla nuca e farla
rabbrividire quando i caminetti inondano le sale di luce e calore, e le
centinaia di persone sembrano respirare un'aria che pare fuoco. Quasi
ha voglia di gridare ai musicisti di smettere di suonare, di fermare
gli archi sulle corde affinché lei possa appoggiare
l'orecchio alla finestra e sentire se, in qualche modo, la neve ha un
suono quando cade.
Mentre è lì per compiere il gesto fatale di
aprire una delle portafinestre per uscire in giardino, una mano accanto
a lei bussa sul vetro all'altezza dei suoi occhi: Delia si volta ed
è costretta ad alzare lo sguardo verso la persona
più anonima abbia mai incontrato nella sua breve vita.
L'abito nero che indossa è simile a quello di tutti gli
altri uomini della sala – anzi, non totalmente. Spoglio di
spille ed onorificenze – così come il viso del suo
possessore non è segnato da nessuna cicatrice o benda
– sembra più uno schizzo, un abbozzo, un qualcosa
di incompleto che a Delia sembra l'unica alternativa possibile alla
totalità bianca che la terrorizza e canta, tra i sempreverde
del giardino. È più alto di lei, ed è
sicuramente più grande nell'età e nelle
esperienze, tutti lo sono attorno a lei, che non ha avuto
nessun contatto che andasse oltre il chiostro del convento delle
Orsoline: i corti capelli biondo scuro e gli occhi di un colore che
Delia non riesce a definire, completano la figura che le sta davanti e
che, ad un tratto, inizia a parlare.
« Non
può uscire fuori – o almeno, non svestita
così. »
Delia accenna un inchino e aspetta, senza fiatare, finché lo
sconosciuto smette di fissarla e la lascia. Lo guarda sparire oltre una
delle tante porte, fin quando una compagnia di ragazze non occupa la
sua visuale con le loro ampie crinoline. Tutte le donne di una certa
età, osserva Delia, ad un tratto della loro vita iniziano a
deporre gli abiti color pesca, cremisi e ocra, per colori
più cupi e neutri: il nero che iniziano ad indossare
sistematicamente in ogni momento della loro giornata le fa assomigliare
a tante vedove – o alle suore che hanno accompagnato la sua
adolescenza. Certo, i veli bianchi spezzavano quella tristezza, ma
Delia si rannuvolava a pensare che quei riquadri di stoffa servissero a
nascondere il sacrificio dei capelli. Vanitosa com'era appena entrata
in collegio, era terrorizzata dalle minacce di rasatura che suor angela
le faceva quando la ritrovava per i corridoi a tarda notte. Un giorno
la suora aveva provato a chiederle perché al minimo accenno
di temporale Delia preferisse lasciare il calore del suo letto ed
affrontare i suoi rimproveri, il buio del convento e la solitudine
della sera: gliel'aveva chiesto senza riuscire a nascondere una punta
di sfinimento nella voce. Mentre sorrideva al sole che entrava generoso
dalla finestra sopra il letto, Delia aveva risposto che la ragione era
da ritrovarsi nella sua data di nascita: sono un fiore di Maggio
– diceva – i tuoni e i lampi e la pioggia mi fanno
paura. Cammino tutta la notte per sfuggire al vento.
Poco dopo sente una mano proprio lì, sulla schiena, dove
credeva di essere diventata insensibile a causa del corpetto troppo
stretto: un'altra mano compie il gesto proibito di girare la maniglia e
aprire la portafinestra. Mentre camminano verso la terrazza, Delia
sente lo sconosciuto di qualche minuto prima dirle "presto, prima che smetta"
e percepisce sulle proprie spalle nude, il peso di un caldo soprabito
maschile. L'uomo glielo aggiusta addosso per poi
chiuderglielo sul seno. Tutto quello che Delia riesce a dire sotto quel
soprabito così pesante e quegli occhi così
leggeri è:
« Non avrete
freddo? »
Ma in tutta risposta l'uomo la prende sottobraccio e la fa
avvicinare alla ringhiera di marmo, non coperta dal tetto del palazzo:
restano ai bordi della protezione fornita dalle balconate dei piani
alti, così, dondolandosi sui tacchi e guardando la neve
cadere e accumularsi sull'erba.
« ...ma...»
esordsce Delia.
« Ma cosa?
» chiede l'uomo sorridendo senza guardarla, assorto.
« Ma...com'è?
»
« Posso
mostrarvelo, ma dovrete essere coraggiosa »
Delia annusce, guardandolo e stringendosi ancora di più al
suo braccio. La festa danzante che dista solo venti passi da lei
é già il ricordo di un'altra vita. L'uomo si
libera dal suo braccio, le cerca le mani sotto il soprabito con un
movimento così aggraziato e naturale che provoca in Delia un
improvviso amore per tutto il genere umano; e poi compie il gesto
più inaspettato e insensato possibile. Le toglie i guanti di
seta, la prende per mano e la porta alla ringhiera: raccoglie per lei
una manciata di neve e poi con un "...a
coppa, sì, ecco, mettetele a coppa" gliela
adagia nelle mani. Delia sente i suoi palmi prima bloccarsi, e poi respirare. Le dita
le diventano rosse mentre le richiude sulla neve che, ancora compatta,
non accenna minimamente a sfaldarsi. Delia si avvicina ancora di
più alla balaustra, e si sporge mentre, dietro di lei,
l'uomo sta ritto a guardarla: apre le mani sul giardino e guarda la
neve mischiarsi al tappeto bianco qualche metro più sotto,
poi si volta e con una grande meraviglia disegnata in viso dice allora è vero che la
neve non fa rumore quando cade.
La riaccompagna dentro che è tutta pallida e gelata, e
aspetta di vederla smettere di tremare prima di aiutarla a togliere il
soprabito di dosso. Sembrava, nella sua gioia poco lucida, una pianta
che avesse appena passato l'incolume l'inverno: sorride quando la vede
esaminarsi le scarpette umide.
« Non siete
fatta per il freddo, signorina. E Torino è una
città a cui non sopravvivreste. Venite, vi accompagno alla
carrozza. »
Martino si era addormentato davanti ad un bicchiere condiviso con gli
altri vetturini: l'uomo lascia Delia alle porte della
depandance, entra e riporta indietro un Martino farfugliante scuse e
balbettii. Nella sua leggera mantellina di velluto, Delia guarda con
terrore i finestrini della carrozza dimenticati aperti e trema al
pensiero dell'ora di viaggio che la separa dal palazzo in cui alloggia.
Si volta per accennare un inchino all'uomo, quando lo vede togliersi il
soprabito di dosso – per una seconda volta – e
chiuderlo con gesti precisi sotto il suo collo, scostando con una mano
i boccoli già quasi sfatti. Martino attende, le redini in
mano. Delia inizia a parlare, confusamente e sottovoce,
finché non alza lo sguardo e chiede – per una
seconda volta:
« Non avrete
freddo? »
E lui, mano sinistra dietro la schiena e gli occhi che, prima persi
nella neve, tornavano a fissarsi su Delia, risponde :
« Oh,
resisterò. D'altro canto, mi pare d'aver inteso chi, tra i
due, è più incline al freddo. Buonanotte
signorina. »
E Delia appoggia la mano su quella che le viene porta, sale in carrozza
e per tutto il viaggio verso casa, non fa che stringersi addosso quel
soprabito così ruvido e maschile e respirare forte un odore
silenzioso che è quasi come neve.
Fine
Un grazie
al virtuale possessore di quel soprabito: per avermelo prestato, per
non averlo rivoluto indietro, per averci nascosto dentro le prime
parole di questa storia.
Chiara
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