Randagia

di Tatan
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E piange, mite, lei che ha un cuore di cartone.

Il mascara le annerisce gli occhi, e tra i suoi capelli scorre pioggia fredda e lieve.

Ha lo stesso sguardo lurido di sempre, fangoso e affamato come quello di un gatto randagio; ce l’ha impiantato sul viso, quello sguardo, anche ora che sta piangendo, ché nemmeno l’acqua e le lacrime riescono a lavar via il genere di sporco che le si annida dentro.

Il vestito zuppo si incolla alle sue gambe bianche, con i fiori della stampa che sembrano appassiti lì, direttamente sul tessuto, e c’è l’orlo irregolare della gonna che si ostina ad arrampicarsi sulla sua pelle, sempre più su, ma lei non sembra farci caso.

Piange, la regina dei castelli di carta, piano. Il rumore dei suoi respiri è dolce, e regolare, nell’aria fredda d’aprile, e si potrebbe davvero credere che a bagnarle le guance ci sia solo la pioggia pulita di una qualunque notte di primavera; e tuttavia, tuttavia, lei ora piange. Piange.

 Il rossetto scomposto fa della sua bocca solo un tratto confuso, abbozzato, non ci sono più le sue belle labbra, e ha il naso raffreddato, infastidito dall’aria sottile che soffia stasera, e i capelli fradici le si attaccano un po’ dappertutto, fronte, zigomi, collo, fin sulle spalle nude e chiarissime.

Si disfa il suo bel viso, si scioglie senza rumore, meraviglioso.

Scivola via, semplicemente, e di lei rimangono solo gli occhi, solamente gli occhi, e quel suo sguardo, e queste sue lacrime, che continuano a cadere e a mescolarsi, mute, con la pioggia.





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