1- Al cielo di Berlino e alle nuvole gonfie
I versi citati
appartengono alla canzone "In un
giorno di pioggia" dei Modena City Ramblers. Tutta questa
storia ne trae ispirazione
Regentage–
Giorni di pioggia
"Noi non giocavamo.
Volevamo solo...
vedere il
sorriso di nostra madre ancora una volta."
(Alphonse Elric,
episodio 2)
Al
cielo di Berlino e alle nuvole gonfie
Quella sera ad Al fu concesso di terminare il lavoro un po' prima,
vista l'aria di festa che c'era in giro. Fece gli auguri al padrone
della farmacia, sentendosi un po' in colpa per i grammi di medicina che
ogni tanto regalava a Wilhelm, e uscì nella Berlino innevata.
Si era ormai al 31 dicembre 1923. Malgrado la povertà e la
forte
crisi, le luci lungo le strade annunciavano che la gente voleva
festeggiare il nuovo anno come si deve, sperando in un miglioramento
delle cose.
Le neve era ghiacciata in diversi punti, e bisognava prestare una certa
attenzione a dove si camminava.
Sorridendo in una nuvola di vapore, Al si diresse verso casa. Era ormai
da qualche settimana che lui e Ed abitavano presso una famiglia alla
quale li aveva indirizzati Noa; erano rimasti non poco sorpresi quando
avevano visto che i vari membri avevano le facce di Winry, del
colonnello Mustang e del tenente Hawkeye. Tuttavia, nonostante lo
spaesamento iniziale- sembrava quasi assurdo abitare con delle persone
che già
conoscevano,
mentre costoro li reputavano dei perfetti estranei- si erano ambientati
presto. In un certo senso, era un po' come essere a casa.
Non poté fare a meno di sorridere- di nuovo- mentre
osservava il cielo scuro sopra di sé.
E, a volte, non poteva fare a meno di sentirsi in colpa.
Perché
malgrado lui e Ed si fossero lasciati il loro mondo alle spalle,
malgrado fosse probabile che nel giro di un decennio sarebbe scoppiata
un'altra guerra, era felice.
Era felice di svegliarsi ogni mattina al caldo delle coperte, con la
punta del naso ghiacciata per la temperatura che c'era fuori dalla tana
del suo letto.
Era felice di alzarsi senza udire alcun clangore metallico; al massimo
gli scrocchiavano le giunture, ma per quello bastava un po' di
ginnastica.
Era felice di vedere la propria faccia
riflessa nello specchio, piena di goccioline deliziosamente gelate
mentre se la lavava. Era felice di rivedere le sue orecchie.
Per parecchio tempo, aveva perfino rischiato di mettersi a piangere
dalla gioia ogni volta che per qualche motivo si feriva e gli usciva
del sangue.
Sangue.
Dopo averne visto a litri, nel corso delle loro avventure, finalmente
poteva guardare il suo.
Percepirne il calore; sentirne in bocca il gusto ferroso e leggermente
acidulo. Non era mai stato così contento di farsi male.
E adesso, finalmente, era di nuovo con suo fratello. L'unico brandello
di famiglia che gli fosse rimasto.
Si sentiva terribilmente egoista, perché il mondo attorno a
loro
stava rotolando giù per una discesa senza fine, verso un
burrone
di cui non si scorgeva il fondo.
Ma non poteva fare a meno di sentirsi anche terribilmente
felice.
- Salve! - una voce ormai familiare lo riportò alla
realtà.
- Ciao. Come sta tua madre? -.
- Meglio, anche perché sono riuscito a comprare un po' di
carbone e nella soffitta c'è meno freddo -.
La persona che l'aveva salutato era Wilhelm, un ragazzino berlinese che
in quel mondo aveva la stessa faccia di Wrath. E, come Wrath, teneva
moltissimo a sua madre.
- Ne sono felice -.
- Senti, Al – ormai aveva preso parecchia confidenza; poteva
quasi dire di averci fatto amicizia – Sei mai stato nella
Herzstraße? -. (¹)
- “Herzstraße”? No, veramente non l'ho
mai sentita nominare -.
- In realtà non è il suo vero nome – si
corresse
Wilhelm, pensieroso – Ma tutti la chiamano così...
quindi
non ci sei mai stato? -.
- No – veramente c'erano un sacco di posti in cui non era
ancora andato.
- Allora ti ci porterò, ma non adesso: c'è troppo
buio – decise lui.
- Cosa c'è di tanto speciale? Una chiesa? -.
- Eh? - Wilhelm quasi si mise a ridere – No, certo che no!
Ogni
tanto ci fanno un piccolo mercato, ma non è questo il bello.
Comunque vedrai -.
Si voltò e corse via, in quella maniera improvvisa a cui Al
aveva ormai fatto l'abitudine.
- Ehi, Will! - lo chiamò, anche se lui era quasi arrivato in
fondo alla strada – Buon anno! -.
Forse il ragazzino lo sentì, perché
alzò un
braccio verso di lui, per poi ricominciare a correre. Pazzesco che non
rischiasse mai di scivolare su una lastra di ghiaccio.
- Herzstraße...
-
mormorò Al, assaporando il suono duro di quella parola
–
Chissà cos'avrà di tanto speciale... -.
In realtà gli ci volle qualche settimana per scoprirlo.
Verso
l'inizio di febbraio la morsa del gelo si attenuò un poco:
una
perturbazione proveniente da ovest alzò la temperatura,
facendo
sì che invece della neve dal cielo cadesse la pioggia.
Tutta quell'acqua riempì le strade di un pantano
incredibile:
parte della neve si sciolse, mescolandosi a terra e polvere in una
fanghiglia scivolosa che a volte era peggio del ghiaccio.
Fu in una di queste mattine che Wilhelm intercettò Al,
mentre usciva dalla farmacia allo scoccare della pausa pranzo.
- Hai tempo? - gli chiese il ragazzino, arrivato di corsa dalla
falegnameria in cui lavorava.
- Certo -.
- Allora andiamo! -.
Al si sentì quasi lusingato da tutta quella premura: di
solito
durante il pranzo Wilhelm correva dalla madre, invece quella volta era
venuto da lui.
Si incamminarono, mentre il maltempo dava loro un po' di tregua. Il
cielo sembrava incombere sulla terra, tanto era pieno di nubi scure, ma
al momento nessun rovescio si era ancora abbattuto sulla
città.
Stando dietro al ragazzino, Al perse ben presto l'orientamento: aveva
smesso di cercare di memorizzare il percorso molti vicoli prima, mentre
Wilhelm filava come un gatto, senza alcuna esitazione.
In realtà non dovettero metterci molto, perché
presto il ragazzino esclamò:
- Eccola qui -.
Al guardò, e vide semplicemente una via berlinese. Piuttosto
stretta, senza auto.
- Ah, sì? - domandò, cercando di capire
perché fosse stato condotto lì.
- Non fare quella faccia! Il bello è più avanti
– e
Wilhelm si incamminò lungo il marciapiede, seguito da Al.
Al che, man mano che avanzavano, non poté fare a meno di
lasciarsi andare al più genuino stupore.
- Ma... questo... che
cos'é? - domandò infine, stupefatto.
- La Herzstraße. Il cuore di Berlino –
dichiarò
Wilhelm, pienamente soddisfatto della reazione di Al – Fanno
tutti la stessa faccia, quando la vedono la prima volta -.
Al era ancora a bocca aperta, intento a bere ogni singolo particolare
di quel... di quella meraviglia.
- È... bellissimo
– non trovò altre parole, ma quella non era
neanche lontanamente sufficiente.
- Già – Wilhelm annuì, mettendosi ad
ammirarlo a sua volta.
Quello che stavano guardando era una specie di museo a cielo aperto.
Lungo una parete sotto un portico erano appesi quadri di ogni sorta,
qualche specchio e quadretti con immagini per bambini.
A terra, in una rientranza del muro, stavano pentole in rame, un
mantice, un parafuoco e perfino degli alari per camino.
Dopo averlo osservato a lungo, Al si voltò verso Wilhelm.
Doveva
avere un'espressione piuttosto interrogativa, perché il
ragazzino rispose subito:
- Da quel che so, ha cominciato un vecchio signore che aveva perso la
moglie e la casa durante un bombardamento. Si era salvato solo un
quadro, e l'ha appeso qui. Due giorni dopo qualcuno ha fatto lo stesso.
E così via -.
- Quindi... tutte queste cose si sono salvate da case bombardate
durante la guerra? -.
- Non solo. All'inizio era così, ma poi hanno iniziato a
portare
qualcosa anche quelli che erano riusciti a salvare tutto. E chi poi ha
cominciato ad andarsene, verso l'America, prima di partire ha portato
qui un piatto o un'immagine religiosa. Neanche fosse una chiesa
–
scherzò infine.
No, non era una chiesa, ma Al poteva capire. Quelle cose ricordavano
alla gente la propria casa e tutto ciò che era loro caro.
Anche
se abitazioni e famiglie erano ancora intere, era stato importante
portarci qualcosa di significativo. Perché, se i cuori della
gente erano stanchi e le loro pance vuote, lì sopravviveva
Berlino.
- È o non è il cuore della città? -
chiese
orgoglioso Wilhelm – Ancora adesso, ogni tanto qualcuno porta
qualcosa -.
- E tu? - domandò Al – Che cosa ci hai messo? -.
Il ragazzino sorrise, avvicinandosi al muro.
- Questo – indicò una specie di piatto rotondo,
con
l'immagine di un bambino accovacciato davanti a dei topi, forse ripresa
da una fiaba – Avrei potuto portarlo nella soffitta in cui
viviamo adesso, ma mi piaceva di più l'idea di averlo qui.
Tanto
nessuno ha mai rubato niente -.
- Ma scusa... e quanto piove o nevica come fate? Non rischiano di
rovinarsi? -.
Wilhelm scosse la testa.
- Se ne occupano gli abitanti di questa via. Al primo accenno di
maltempo sistemano un grosso telo che copre il porticato,
così
non entra niente ma la gente può continuare comunque a
vedere il
muro. Ci tengono molto, sai? Attira un sacco di persone -.
- Ah, lo immagino -.
Al sorrise, tornando ad ammirarlo. Era splendido, quasi un rito di
devozione laica. Anche se si era ancora nel pieno dell'inverno,
all'aperto, in un certo senso quello era il punto più caldo
di
tutta Berlino.
Ma la tregua durò poco. I vecchi dicevano che non si era mai
vista tanta acqua, tuttavia una settimana più tardi Al non
resistette più: durante la pausa pranzo, sotto la pioggia
battente e un vento quasi dispettoso, si incamminò alla
volta
della Herzstraße.
Durante il ritorno, la volta precedente, erano andati più
lentamente perché Wilhelm potesse spiegargli la strada
vicolo
per vicolo, e adesso era sicuro di saperla ritrovare.
Ombrello in mano, incurante della pioggia che gli inzuppava i
pantaloni, riuscì ad arrivarci in un tempo relativamente
breve.
Wilhelm aveva ragione: ora davanti al muro era stato accuratamente
sistemato un grande telone che lo riparava dalle intemperie. Vi si
infilò sotto, notando che un lampioncino sul soffitto del
porticato illuminava quella porzione di spazio in modo quasi intimo.
E ogni pezzo era ancora al proprio posto: aveva quasi dell'incredibile
che nessuno avesse cercato di rubare perlomeno una pentola, visti i
tempi che correvano.
Si mise ad osservare ogni quadro da vicino, provando ad immaginare il
motivo che avesse spinto i loro padroni a portarli lì. Che
cosa
c'era di così importante, nell'immagine di quella locanda
affollata, da dover mostrare alla popolazione dell'intera
città?
Quale ricordo portava con sé quel quadretto di fiori di
campo? E
quella cartina geografica?
Al era talmente immerso nelle sue congetture da non accorgersi che il
telone si era alzato di nuovo, e che qualcun altro si era infilato in
quell'angolo accogliente.
In quel momento era impegnato ad osservare un grande quadro
rappresentante una casa su un fiume, con vari alberi sullo sfondo. Non
ne era sicuro, ma non credeva che si trattasse di un quadro dipinto dal
vivo. Aveva un non so che di...
- Ti piace quel quadro? - chiese una voce al suo fianco, che lo fece
quasi sobbalzare perché pensava di essere ancora solo.
- Come? Ah sì, io... - si voltò e l'aria gli
mancò. La cercò, ma per un momento
annaspò nel
vuoto.
- Tutto bene? - chiese il suo interlocutore, una ragazza di forse
quindici anni.
Si impose di calmarsi, perché si rese conto di stare
fissando
ogni singolo particolare del suo viso, e lei stava cominciando a
spaventarsi.
- Io... sì, sto bene – riuscì ad
articolare,
costringendosi a distogliere lo sguardo – È solo
che...
non mi ero accorto che fosse arrivato qualcun altro -.
- Oh, sono silenziosa quando voglio – sorrise lei.
Ad Al ronzavano le orecchie, e il cuore gli martellava in gola; non
riusciva più a pensare ad altro se non che accanto a lui
c'era sua madre.
Sua madre che in realtà era morta. Sua madre che avevano
cercato
di riportare in vita con una trasmutazione umana. Sua madre di cui un
homunculus non era stato che la pallida ombra. Sua madre che era
lì, al suo fianco, e dimostrava sì e no quindici
anni.
- Allora? Ti piace questo quadro? - domandò lei di nuovo,
indicando l'immagine che Al stava guardando poco prima. Poco prima che
il cielo sopra Berlino gli cadesse addosso.
- Sì – respirò a fondo – Mi
piace perché... esprime una nostalgia struggente -.
Ecco cos'era quel “non so che” che sentiva prima.
Finalmente era riuscito a definirlo.
- Già, è così – la ragazza
sorrise, di quel
sorriso dolce che forse avrebbe fatto scoppiare Ed a piangere in mezzo
alla strada – L'ha dipinto mio fratello -.
- Davvero? -.
- Sì, lui... ha dipinto casa nostra, in Irlanda –
i suoi
occhi azzurri sorrisero – L'ha dipinto per me,
perché io non l'ho mai vista -.
- Non l'hai mai vista? -.
Lei scosse la testa.
- I miei sono emigrati qui prima che nascessi, ma... - si
voltò
verso di lui, scuotendo i capelli castani raccolti in una treccia
morbida – Sono irlandese fino al midollo -.
Sembrava avere un certo carattere, cosa che non ricordava molto di sua
madre.
- Davvero? Beh... nemmeno io sono mai stato in Irlanda –
finora
di quel mondo aveva visto solo la Germania, ma non gli sarebbe
dispiaciuto girovagare un po'. Non dopo che il loro mondo l'avevano
percorso in lungo e in largo.
Lei sorrise di nuovo.
- E tu? Ci hai portato qualcosa? O qualcuno della tua famiglia,
è chiaro -.
- Io... veramente questo posto l'ho scoperto da poco. Me l'ha mostrato
un ragazzino che conosco -.
- Quindi non vivi a Berlino da molto -.
- No, infatti – rispose Al.
La ragazza annuì, come chi comprende perfettamente una
situazione.
- Già, questo non è un posto che qualunque
forestiero può conoscere – affermò.
Al avrebbe avuto centinaia- migliaia-
di cose da chiederle, da dirle, ma non ce n'era nessuna che non
suonasse come la fantasia di un visionario.
Anche perché quella non era sua madre, ovviamente. Ma la
logica
non riusciva ad impedire al cuore di impazzire nel pantano della
nostalgia, tanto che stava cominciando a sentire un pericoloso nodo
alla gola.
- Beh, devo andare – disse lei ad un certo punto, sorridendo
al quadro – Ma tu guardalo pure quanto vuoi, sai -.
- Grazie – non trovò di meglio da dirle, mentre la
ragazza
gli faceva un cenno di saluto e usciva dalla nicchia asciutta sotto il
telone, tornando al vento e alla pioggia senza che lui potesse farci
niente.
È in un giorno di
pioggia che ti ho conosciuta...
Nel corso dell'intera giornata non riuscì a pensare ad
altro. Ci
pensò tanto che alla fine quell'incontro assunse i contorni
indefiniti di un sogno, come se si fosse immaginato tutto.
Oh, ma lui sapeva bene che non era così.
Ci pensò tanto che si scordò incredibilmente di
dirlo a Ed. O forse non
volle dirlo a Ed; solo per un po'.
Il giorno successivo, naturalmente, si precipitò nella
Herzstraße non appena scoccò il mezzogiorno.
Pioveva-
ancora- e non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo
quando
si infilò sotto il telone e la trovò
già lì.
- Ehi, salve! - fece lei – A quanto pare nessuno riesce a
stare lontano da questo posto -.
- Già – convenne Al, anche se non era esattamente quel posto ad
averlo attirato lì.
- Io non riesco a stare lontana da questo quadro – disse
–
È l'unica cosa che mi è rimasta di mio fratello -.
- Vuoi dire che è... - Al non completò la frase,
ma la ragazza sembrò capire perché scosse la
testa.
- Oh no, non è morto. Ma è così
lontano che
è come se lo fosse – si morse le labbra
– Se
n'è andato in America, dopo la fine della guerra. Ogni tanto
scrive, ma... non è la stessa cosa -.
- Sì, capisco – disse Al, avvicinandosi
– Sai,
anch'io ho un fratello, e ne sono stato separato per circa due anni. Ma
ti posso assicurare che il tempo non cambia nulla -.
- Lo spero – sospirò lei, rabbuiandosi
leggermente, ma si riprese subito: - A proposito, io mi chiamo Tiarnan
-.
Gli tese una mano, che lui strinse quasi con riverenza. Strano,
però: quando la toccò non ebbe alcuna sensazione
di
déjà vu. Era la semplice mano di un'estranea con
cui
stava facendo conoscenza.
- Non mi sembra un nome tedesco – osservò.
- No, infatti. Te l'ho detto che sono irlandese fino al midollo
–
anche sotto quella pallida luce, notò come quegli occhi
color
dell'acqua scintillassero d'orgoglio.
- Io sono Alphonse – si presentò lui –
Ma nessuno mi chiama così -.
- Al, allora? -.
Annuì, mentre fuori da quel riparo improvvisato la pioggia
continuava a cadere a rovesci.
- Sei francese? - domandò ancora lei.
- No, ma... vengo da piuttosto lontano -.
- Più lontano dell'Irlanda? -.
Al ci pensò su un attimo.
- Abbastanza – rispose infine.
- Oh, io non so niente di geografia – fece Tiarnan
– So a
malapena che l'Irlanda si trova a ovest, nella direzione in cui
tramonta il sole e da cui proviene il vento che porta la pioggia -.
Tacque un momento, ascoltando.
- Esattamente questo qui -.
E il vento dell'ovest rideva
gentile...
(¹) Letteralmente, “via/strada del cuore”,
in tedesco
Questa storia si
è classificata prima al contest “Vedo,
sento, scrivo- immagini, musica, storie” di
elos.gordon e SaliceMcMay. Un risultato che mi sembra ancora
incredibile, e non posso che esserne contenta.
Dovevamo basarci su
un'immagine (questa)
e una canzone- io ho scelto “In un giorno di
pioggia” dei Modena City Ramblers- per scrivere la nostra
storia.
Ringrazio infinitamente
le giudici e faccio i miei complimenti a tutti gli altri partecipanti!
Come dice
l'introduzione, questa fic
è uno spin-off dell'altra mia storia “Die Uhr-
L'orologio”, ma secondo le giudici la si poteva leggere anche
senza conoscere la fic di partenza... a voi la scelta.
Spero che vi possa
piacere, e qualsiasi commento è sempre ben accetto! ^^
Rispondendo alle
recensioni dell'ultimo capitolo de “Die Uhr-
L'orologio”:
Rain e Ren:
caspita, hai trovato nella storia dei significati a cui io stessa non
avevo pensato, ma hai perfettamente ragione! È
tutto un
cerchio, come in effetti dici tu- qualsiasi riferimento ai
“cerchi alchemici” è puramente casuale-
XD. La frase
“Il tempo gira in tondo” mi ha colpito fin dalla
prima
volta che l'ho letta, mi ha praticamente aperto un mondo.
Bene, la teoria dello
scambio
equivalente tra i due mondi sta prendendo piede. ^^ Scherzi a parte,
sono felicissima che la storia ti sia piaciuta, dall'inizio alla fine,
e ti ringrazio di avermelo fatto sapere!
Spero davvero che possa
piacerti anche questa.
Birby:
a dire il vero Bradley e Mei non so chi siano, dato che non ho mai
seguito la serie “Brotherhood” o letto il manga...
comunque
qui un pairing ci sarà, e anche piuttosto inaspettato.
Guarda, pensare che la
chimica
è molto simile all'alchimia mi ha aiutato quando dovevo
studiare
per qualche compito. XD Comunque sì, il legame
c'è.
Sono contenta che il
finale ti sia
piaciuto, temevo risultasse un po' troppo “aperto”,
perché in effetti non conclude niente. E spero che ti
piaccia
anche questa storia. ^^
Ezzy O: l'altra
storia si è conclusa, ma la serie continua... non vi
libererete di me tanto facilmente. XD
Sono lusingata che tu
l'abbia inserita nei Preferiti, davvero. E... sì, di altri
lavori ne ho in mente parecchi. ^^
Musa Talia:
sì, la tua risposta al mio commento è arrivata. A
quanto
pare il nuovo sistema funziona, per fortuna! Prima anche a me capitava
che, utilizzando il servizio “Contatta”, le mail
non
arrivassero...
Come vedi, in
realtà questo
spin-off è ambientato durante l'altra storia e, in termini
temporali, termina prima della fine dell'altra. Detto così
può sembrare un po' complicato, ma spero che andando avanti
le
cose si chiariscano. ^^
Ti ho spoilerato un po'
la storia, ma neanche di tanto- spero- e mi auguro che possa essere
all'altezza delle aspettative.
Sono contenta che il
finale
dell'altra abbia funzionato: temevo che potesse risultare troppo
aperto, invece così non è stato... Oh,
“Bratja” commuove anche me: riguardando la prima
serie,
ogni volta che si sentiva in sottofondo (in momenti particolarmente
studiati, oltretutto), mi si strizzava il cuore.
Grazie ancora per aver
recensito puntualmente ogni capitolo, mi ha fatto davvero piacere! ^^
Shatzy:
oh, il bambino ci sarà, eccome se ci sarà! Ma
bisognerà attendere un po', perché questo spin-off
è ambientato in contemporanea all'altra storia. Sarà
più breve, comunque.
Devo dirlo ancora quanto sia contenta che la long ti sia piaciuta? Beh sì, lo ripeto. ^^
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