Secondo
-
a volte le strade finiscono…-
Perso, dentro un attimo di vita
irreale, ti ritrovi nel sorriso
che porgi spontaneamente alla gattina rannicchiata accanto la porta. La
strada
lastricata luccica di bagliori notturni e stellati, lucida di pioggia e
scura
di sporco.
La tua vita, quella, te la ritrovi tutta davanti in un solo attimo,
il tempo di un
respiro; sa di strani odori
dimenticati, sa di incertezza, di ipocrisia e paura. E sa di una strana
melodia
lontana, persa nella notte di chissà quale tempo. Quel
foglio bianco non ti
serve più adesso. Lo pieghi con cura e lo riponi nella tasca
della giacca,
quella più grande, così che possa perdersi, quel
foglio, così che possa
perdersi…
La gattina decide tutt’a un tratto di guidarti verso un posto
oscuro e lontano
e tu la segui, sentendo in lei la voglia di stupirti.
Nei vicoli di notte i gatti sanno muoversi, ma tu sei goffo e
impacciato nelle
tue movenze da ricco e giovane laureato ottimista. Non più
tanto ottimista, in
effetti.
Mentre la segui ti fai beffe di te. Come una strana forma di
schizofrenia
allegra c’è una parte di te che deride
quell’altra. C’è un uomo grigio dentro
una giacca in tweed che irride un giovinetto pallido e impaurito,
quello con i
capelli spettinati e la camicia sbottonata sul colletto.
A volte la vita è proprio strana, pensi, e subito ti
vergogni, perché è un
pensiero dozzinale, che almeno una volta nella vita fanno tutti.
Ma la tua è proprio strana. Non ultima stranezza questo
pedinamento di una
gattina bianca per quei sobborghi malfamati e lerci.
Poi si ferma.
La porta è verde, grande, sporca, con la vernice tutta
scrostata. Si apre.
« Vuoi entrare?», ti chiede una voce un
po’ assonnata ma presente.
Tu sei imbarazzato e dapprima non capisci.
«..io…», ti viene fuori un
farfugliamento senza senso che culmina in un
sorrisetto sbuffato.
Però è bellissima. E’ la venere di un
mondo sommerso e sporco. E’ scura e
misteriosa come i vicoli a cui appartiene. E’
l’espressione di una realtà che è
lontana. Abissalmente differente da tutto ciò che hai
vissuto sino ad adesso.
Sposta i suoi occhi profondi alla gattina inopportunamente candida, poi
sorride
e si abbassa ad accarezzarla.
«Allora me l’hai portato tu?», chiede
sorridente alla gattina grattandole il
collo, e nel piegarsi la sottile canottiera lilla si dischiude,
lasciando
intravedere la curva del seno bruno. Alza la testa verso di lui, con
rispetto
quasi riverenziale, poi chiede: « Allora entri?.. non
offenderti non voglio
farti fretta è che ha piovuto e a star qui sto sentendo un
po’ di freddo..»
sorride impacciata anche lei adesso, si rialza e si passa le mani sulle
braccia. Guardi quelle sottili dita bronzee strisciare contro la pelle
dorata,
respiri quell’attimo che sembra esser fatto apposta per te.
« E tua la gattina?», chiedi allora.
«No, no. Ogni tanto le do da mangiare.. – sorride -
…e lei mi ricambia
portandomi i clienti fin sotto casa..».
Il suo sguardo si spegne ed è ora triste. Spalanca le
braccia, poi si stringe
ancora una volta in sé. Ti saluta con lo sguardo e fa per
entrare.
Guardi l’orologio, è passata soltanto
mezz’ora.
«Aspetta..», e lei si ferma a metà di un
passo.
Le sorridi. «Voglio entrare con te…»
Mariano
sapeva tutto sin dal primo momento.
Non te l’ha detto, sì, ha temporeggiato, e tui te la sei presa.
Ma è un bravo ragazzo ed è un buon amico.
«Qual è il problema Ma’?» gli
avevi chiesto dal lettino
dell’ospedale, e lui, con gli occhi fissi sul foglio candido
che stava leggendo
e poi fissi su di te, assorto e leale ti aveva risposto:
«Stai morendo».
Lì per lì ti eri spaventato, ti eri incazzato,
neppure tu
sapevi bene cosa provassi. Poi ti eri fatto spiegare cosa stava
accadendo.
«I tuoi neuroni periranno piano, ad uno ad uno, e si
spegneranno altrettanto lentamente. E noi non possiamo fare
assolutamente nulla
per salvarli».
Era stato chiaro e netto. Insopportabilmente corretto con
te, anche in quel frangente, in cui avresti preferito un amico
ottimista e
ipocrita.
Ma lui no, lui non era di certo ipocrita, lui ti voleva
bene davvero. E ti aveva detto la verità così
com’era. Dolorosa e cruda.
«Per quanto tempo andrò avanti senza
problemi?»
Lui aveva sorriso. «Come vedi i problemi ce li hai
già..
non mi dire che per te è normale svenire al centro di un
campo da tennis..»
aveva esordito, poi, guardando i tuoi occhi sordi e dolorosi aveva
continuato:
«Sei mesi, nove al massimo. Poi perderai l’uso
degli arti, non potrai più
muoverti, poi non potrai più parlare. E nel giro di un anno
morirai».
«Morte cerebrale, immagino …» avevi
aggiunto assorto. Poi
senza aspettar risposta: «Non voglio diventare un vegetale,
Mariano …».
Lui aveva fissato per un istante quel tuo sguardo
intransigente. Aveva infine fissato a lungo le piastrelle celesti del
pavimento.
«Mi dispiace» aveva poi sussurrato prima di andar
via.
«Puoi
accomodarti qua.. se aspetti un attimo do del latte
alla gattina…» sorride dolcemente.
Ti guardi attorno spaesato. E’ un grande ambiente, quasi
un loft da poveracci, pensi. Con cuscini sparsi per terra, un
po’ ovunque. C’è
un forte odore di incenso e cera bruciata. Delle tende trasparenti e
scure
pendono sopra le poche porte che danno sull’enorme ambiente.
Lei torna.
«Allora cosa vuoi fare?»
Tu la guardi attonito, stupito.
Sorridi. «Quanti anni hai?», le chiedi.
Lei sorride, sposta un ciuffo di capelli scuri dalla fronte.
«Venti», risponde cauta.
«E da quanto fai questo mestiere?» continui tu.
Adesso ti sorride e risponde.
«Boh.. da un po’ di anni ormai credo
dall’età di tredici,
quattordici anni…»
Fa silenzio, poi riprende divertita e un po’ imbarazzata:
«Sai, in pratica dall’età in cui si
inizia a piacere ad un uomo…».
Abbassa lo sguardo e ti sembra quasi di vederla
arrossire.
Ma parla della sua vita con una naturalezza e una
noncuranza disarmanti.
Le sorridi.
Pensi a tutto quel mondo che ti sei lasciato dietro.
Pensi a tutta la tua vita, e a tutta la sua vita e a quando siano
abissalmente
diverse. A quanto quella sua piccola esistenza possa essere importante
e
luminosa, e a quanto la tua possa essere soltanto fumo perso in una
folata di
vento.
«Lascio a te carta
bianca…voglio solo star bene..», dici
chiudendo per un attimo gli occhi e respirando profondamente
quell’aria pregna
di desideri nascosti.
Ventinove anni.
La tua vita è un vortice di impegni e gratificazioni.
La tua agenda trabocca di numeri e appuntamenti. Il tuo
telefono squilla incessantemente.
Poi arrivi a casa e finalmente il silenzio.
La tua vita è così dall’età
di diciotto anni.
Unico figlio, maschio.
Sei abile nel parlare alla gente, sei bravo a sorridere e
vendere fumo.
Allora tuo padre ti affida l’azienda.
“L’importante è che
non mi mandi in bancarotta, poi puoi far ciò che ti
pare” aveva detto un giorno
chiudendo il suo rolex dentro la cassaforte a muro.
Poi era andato via.
Non sai neppure dove di preciso. Ha comprato una caletta,
un giorno, un spiaggia per pochi intimi e una casa colossale ed era
andato via.
Chissà dove. Chissà con chi. Lontano dalla tua
vita e assente.
Come un buon padre. Come un padre che si rispetti.
E tu a diciotto anni eri troppo libero per chiuderti
dentro quel palazzone a vetri, ma ciò nonostante ci sei
entrato, hai chiuso
tutto fuori.
Hai studiato e lavorato, ti sei laureato.
Hai vissuto la tua vita a metà, hai fatto in modo che
accanto a te ci fosse gente talmente dipendente dai tuoi affari da
poter anche
camuffare il vostro rapporto da amicizia.
E poi c’era stato Mariano.
Lui era un po’ strano. Sin da piccolo, credeva che la
gente buona esistesse davvero.
Odiava gli ipocriti e quella cerchia di ‘amici
fidati’
che ti eri creato.
La sua vita girava tutta attorno la sua medicina, il suo
ospedale, i suoi malati.
Vi eravate persi di vista, per questo. E poi dopo dieci
anni te lo ritrovavi lì, in quel suo candido camice da
giovane medico a dirti
che la tua vita è finita e che tu non l’hai
vissuta.
Ed è stato come se te lo fossi perso soltanto un attimo.
Come se lo avessi lasciato indietro soltanto pochi istanti. O meglio,
come se
lui avesse lasciato indietro te.
Tanta gente sorridente, accanto a te. Tanta gente
disposta a far di tutto per avvicinarsi al tuo piccolo impero dorato.
Tanta
gente che ti invidia e non sa, invece, che la tua morte è un
processo
inesorabile, iniziato un po’ di tempo fa.
In fondo, adesso si spegnerà soltanto l’ultima
spia.
Il tuo cuore cesserà di battere, ma tu non vivi
già più.
«Non
è possibile che io svenga ad una riunione così
importante!.. ma ti immagini? Sono svenuto fra le braccia del
giapponese!!»,
ridevi… poi ti eri fatto serio e avevi perso il tuo sguardo
in vuoto non troppo
lontano. «Di questo passo col cazzo che mio padre mi lascia
l’azienda..», avevi
sospirato, poi eri rientrato nei gangheri, così come eri
stato educato a fare
ogni volta la tua imperfezione umana fosse affiorata e avesse
annebbiato la
lucentezza dei tuoi gemelli d’oro.
Poi avevi ricominciato a ridere, col tuo brandy fiondato in una mano.
Allora Mariano ti aveva fissato intensamente.
«Che ti importa dell’azienda?»
Eri diventato molto serio. Avevi posato allora il bicchiere sul
tavolino in
vetro.
«Non lo so Ma’…credo sia solo
vigliaccheria…voglio credere
che tutto questo durerà ancora per
molto…»
«Già…», aveva risposto lui
pensieroso.
«Mariano…» avevi poi continuato,
rompendo il silenzio. «Mariano ecco… non puoi
darmi nulla per farla finita prima di diventare un maledetto
rincoglionito?»avevi sorriso impacciato.
Lui ti aveva guardato sorpreso. «Ma non avevi paura fino a
tre secondi fa?»
aveva risposto beffardo.
«Vedo cosa posso trovare. Ma non mi assillare»
aveva detto poi andando via.
Ti gira un po’ la testa.
Sarà forse l’intenso odore di
incenso.
«Oh, stai bene?» ti chiede lei preoccupata.
Siete ancora al centro della stanza.
«Si.. si…sta tranquilla…ora mi
riprendo..»
«No, vieni», ti dice guidandoti verso la cucina.
Attraversate la porta custodita da quei veli scuri e arrivate in un
ambiente
più luminoso e arieggiato.
E’ una cucina carina. Piccola, con poche cose indispensabili.
Ti porge un bicchiere d’acqua, sorridendo.
«Grazie..» dici mandando giù un sorso.
Lei ti guarda con dolcezza. E’ forse la prima donna del mondo
ad essersi
interessata alla tua salute. Forse perché adesso non stai
correndo su un viale
alberato attorniato da avvoltoi in giacca
cravatta. Forse perché adesso non le stai
soltanto toccando il culo
mentre parli di politica con i tuoi presunti amici. Forse
perché adesso non
siete dentro un night affollato e chiassoso, pieno di facce da ricchi,
pieno di
anelli e bracciali di valore. Pieno di alcol e cocaina. Pieno di vuoto.
Ti sorride. Ti sorride ancora.
«Stai meglio?», ti chiede.
«Sì, grazie…»
Tornate nell’ampio salone.
Le sue mani ti cingono la vita.
Ti trascina sorridente verso una zona di quel suo loft da quattro soldi.
C’è un baldacchino scassato, celato da veli rossi
e scuri. Lei sorride, sorride
sempre.
«Perché ridi?», le chiedi adesso.
«Perché sono fortunata..»
«E perché saresti fortunata?»chiedi
ancora.
«Perché sei carino e pulito… qualcosa
mi dice che oggi al lavoro potrei anche
divertirmi…» continua a ridere lei, in quella sua
paradossale purezza puerile.
Poi si scioglie i capelli.
Ti porta dentro quel suo baldacchino, che è come un mondo
incantato. Un mondo
dove nulla esiste se non voi due. Un
mondo dove nulla può più far male.
Le sue mani si muovono leggere e i suoi occhi sorridono sinceri.
Ma non sei altro che il suo primo affare di questa nuova giornata. Non
sei
altro che una faccia come un’altra una vita come
un’altra. Ti toglie la giacca,
con cura. E tu menti a te stesso, ancora una volta. Fingi che quella
sia la tua
vera vita. Fingi che quella cucina piccola e luminosa sia anche un
po’ tua.
Fingi che i suoi occhi siano davvero persi dentro i tuoi.
Comincia a sbottonare la camicia poi si ferma a metà.
«Sdraiati..», ti dice, e tu lo fai.
Allora inizia ad abbassare le due bretelle sottili, facendole scivolare
sulle
sue spalle brune.
Mette via la canottiera e sbottona, adesso, la gonna a pareo.
E tu la guardi estasiato perché lei è
l’ultima delle donne. Lei è per la tua
vita, ciò che il punto è per una frase.
E’ la tua tappa ultima. E’ il tuo
ultimo pensiero e il tuo ultimo sospiro.
E’ nuda e bella e quello sguardo impacciato che aveva qualche
istante fa, la
fuori nella stanza, sembra ora paradossalmente dissolto in
quest’ambiente di
lussuria densa.
La tua camicia è tolta.
Passa le sue mani si di te e sente il tuo cuore che batte forte come
non mai,
quasi fosse il tuo primo incontro d’amore.
La sua danza garbata continua attorno al tuo corpo inerme, che rimane
ben
presto nudo, preda di quelle sue mani veloci e leggere.
«Devi
prendere il contenuto di queste due boccette»
«Il nome è scritto lì?» avevi
chiesto premuroso.
«Sì, ho scritto tutto qua. Sono farmaci che si
trovano normalmente in
commercio, ma combinati fanno decelerare piano piano il tuo cuore, sino
a farlo
spegnere»
Tu lo avevi guardato riconoscente. «Appena le compro brucio
il foglietto,
Mariano, sta tranquillo… quanto tempo..?» avevi
lasciato la domanda in sospeso.
«Dipende dalla frequenza cardiaca… se ti fai una
corsetta potresti morire anche
in mezz’ora. Se te la prendi comoda un’ora, due al
massimo..»
«Sverrò come al solito?» avevi chiesto
un po’ impaurito.
Mariano ti aveva guardato con quei suoi occhi buoni e severi, aveva poi
sospirato. «Sì, non sentirai nulla, sverrai come
al solito».
Silenzio.
Stava fermo e zitto Mariano. Immobile e severo.
Poi aveva aggiunto: «…sei sicuro? Non possono
esserci ripensamenti ragazzino…»
«Lo so dottore, lo so..».
Quel suo sguardo
adesso ammalia tutti i tuoi sensi.
Ti senti vivo, eccitato eppure calmo, quasi assuefatto da quella sua
bellezza
scura e a te estranea.
Il suo corpo si muove lento e sensuale su di te.
Le tue mani sono voracemente avvinghiate ai suoi fianchi, e quel
movimento
ipnotico e dolce ti fa socchiudere gli occhi, quasi fossi in tranche,
quasi non
fossi già più qui.
Pensi a quel foglio candido perso dentro la tua tasca. Pensi a lei, che ti sta sopra e
quasi ti guida, e poi
pensi ancora a quel foglio e al suo messaggio di morte. Il tuo referto,
scritto
su un foglio così insopportabilmente candido.
E poi infine, pensi a quelle due boccette di vetro, perse, abbandonate
per
terra, all’angolo di chissà quale dei vicoli
percorsi per arrivare sin qui, al
piacere più puro.
Guardi quei suoi occhi così misteriosi e teneri, che ti
fissano come se ormai
fossi parte di lei.
Come se ormai le vostre vite fossero una sola e i vostri cuori avessero
lo
stesso ritmo incalzante.
Ti piace pensare di esser speciale, per lei. Non uno dei tanti, quasi
un amore.
Così arriva il momento in cui la senti proprio come parte di
te.
Lei si muove lentamente e il tuo corpo reagisce, lento, al suo essere
così
adorabilmente coinvolta i tutto ciò stia accadendo sotto
quei veli oscuri.
Arriva piano, lento, silenzioso e leggero.
E’ il culmine del tuo piacere e il silenzio dei tuoi sensi.
E’ l’attimo
dell’amore più puro, forse l’unico della
tua vita, eppure l’inizio della tua
assenza.
Arriva leggero e si posa sulla tua testa, che inizia a girare. Non
riesci più a
tenere gli occhi aperti, così li chiudi, in attesa della tua
ricompensa. Del
tuo premio o della tua sconfitta. Non sai cosa aspettarti dal tuo
corpo,
adesso, sai solo che vorresti finire di far l’amore con lei
anche solo un istante
prima di morire. Vorresti solo che, prima di morire, il suo corpo si
agitasse
ancora un po’, e spasimasse per te.
Così,
nella tua morte la sua morte.
E mentre i tuoi sensi si spengono lenti., i suoi si accendono di una
luce
abbagliante.
Così, come nella sua morte c’è poi la
rinascita, nella tua c’è solo il buio, il
silenzio, la paura di non esser più nulla.
E’
finito.
Lei si stende accanto a te e chiude gli occhi e in
quell’istante tu muori.
La bianca gattina entra in quel mondo proibito e, quasi a voler
rivendicare il
lavoro compiuto, si accovaccia su quel tuo petto spento.
E li, dove un attimo prima i sospiri incendiavano l’aria,
tutto tace.
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