Poi,
una sera
a
tutti quegli amori
che non hanno ragione di
esistere…
Cucinava
biscotti.
A
volte, entravo in cucina, e vedevo mia madre di spalle, quelle spalle
così
esili e quasi curve, e stavo lì, ferma, ad osservarla.
Amava
tenere in mano quel rosario sottile che ogni tanto rigirava, quasi
meccanicamente, fra le dita magre.
Era
quasi evanescente, nella sua magrezza.
Era
silenziosa, assente.
Teneva
i capelli raccolti in uno chignon sulla nuca. Erano capelli sottili e
quasi
grigi.
Beveva
caffè, allungato con l’acqua, perché
temeva potesse farle male allo
stomaco.
E
poi, si lavava spesso la mani. Quelle mani così magre e
nervose, sembravano
potersi dissolvere sotto la foga con cui lei le puliva. Sembrava
potessero
sgretolarsi da un momento all’altro.
Teneva
molto alle “cose di famiglia”, alle ricette di sua
madre, che teneva custodite
dentro un quaderno che nessuno di noi aveva il permesso di toccare.
Abitavamo
vicino al faro, allora, e il rumore delle onde che si infrangevano
contro gli
scogli, cullava i nostri sogni di bambini, e in un certo senso ci
invogliava ad
essere allegri: solo bimbi allegri potevano reggere quel ritmo, vivere
al passo
delle onde frenetiche e musiciste…
Mia
madre, a volte, fissava il vuoto e vi rimaneva dentro per ore. Non
faceva altro;
respirava il vento dei suoi ricordi e mangiava melograni. Li sbucciava
con le
sue flebili dita e li assaporava, chicco dopo chicco, come in trance.
Aveva
una lavanderia.
Restava,
a notte fonda, con una lampada accesa ma fioca, ad inamidare le camicie
delle
ricche signore del paese delle quali aveva guadagnato la piena fiducia
dopo
anni di fedele ed efficiente servizio.
Sbiancava
quel bucato come se avesse voluto, in realtà, bruciarlo. Con
una tale forza e
rabbia, che ne usciva spossata.
Portava
sempre abiti lunghi e scuri, però, dallo scollo, sempre e
completamente
abbottonato, faceva capolino un candido colletto, che poteva essere
semplice,
di merletto o ricamato, secondo le occasioni.
Quando
io nacqui, mia madre aveva appena ventuno anni, ma il suo volto era
già pieno
di rabbia e di gioia e di sorrisi e di pianto. Le sue rughe sembravano
esser
nate con lei, ognuna simbolo del dramma della sua vita.
Ripensando
a mia madre vedo immagini sfocate, ingiallite, come di quelle
fotografie
antiche che non sono in bianco e nero, ma più propriamente
di un giallino
tendente, in alcuni punti, al rossastro.
E
quei suoi occhi profondi custodivano tutti i suoi drammi, e i suoi
sogni, e la
verità che non volle mai dire a nessuno.
Quando
si perdeva nei suoi pensieri, voleva soltanto dimenticare tutto. Voleva
che
tutto passasse, voleva fare in modo che tutto ciò che aveva
vissuto sino ad
allora si cancellasse magicamente.
Aveva
sposato mio padre quando aveva ancora diciassette anni ed era stato
quello il
periodo più bello della sua vita.
Liberatasi
dalle angherie di un padre che la reputava
“inutile”, in quanto molto magra e
di cagionevole salute, era rinata, sotto lo sguardo di quel giovane
pianista
che l’aveva portata con sé in città.
Mia madre aveva a lungo vissuto in un
paesino arretrato e minuscolo, e la città era per lei
sinonimo di libertà.
Seguiva
mio padre in giro per i club dei ricconi di allora, e ascoltava tutti i
brani
da lui eseguiti, da dietro le quinte, seduta di lato, proprio dietro il
sipario, in modo tale da non perdere mai di vista mio padre, seduto al
piano.
Era raggiante e bella, e il suo cuore pulsava ormai al ritmo di quel
jazz così
caldo e avvolgente che mio padre suonava sfiorando soltanto, quei tasti
bianchi
e neri.
Durante
il primo anno del loro matrimonio nacque mia sorella e tre mesi dopo la
sua
nascita scoppiò la guerra. Mia madre, allora, fu costretta a
tornare al suo
paese, dove la lontananza dai centri abitati dava almeno il vantaggio
di
sentire lontana anche la guerra.
Fu
allora che mia madre cominciò a lavorare. Aiutava sua zia
alla lavanderia,
mentre mio padre racimolava qualche soldo dando lezioni di italiano e
matematica; avevano bisogno di più denaro per mantenere mia
sorella, visto che
con lo scoppio della guerra la richiesta di pianisti era di gran lunga
diminuita.
Vivevano
di poco, ma erano felici.
Mia
madre amava tanto mio padre.
Una
volta lui, la portò al mare, di sera.
Mia
sorella era rimasta a dormire dalla zia e loro due ne avevano
approfittato per
fare una passeggiata fino alla scogliera.
Lei
lo guardava, innamorata, con un dolce sorriso sulle labbra, mentre lui,
camminando, le stringeva la mano, e calciava qualche sasso.
Erano
rimasti lì, fermi e abbracciati, persi in quel silenzio
così pregno di
emozioni, finché non fu buio.
La
guerra continuava e così anche le loro vite.
Nacque
mio fratello e soltanto qualche mese più tardi mio padre
decise di unirsi al
gruppo di Combattenti che cercavano di liberare il paese dai Nemici. E
partì.
Mia
madre, allora, cominciò a piangere, e ad esser triste. E
mentre quelle lacrime,
calde, scendevano, le sue rughe cominciavano a scavarsi, nonostante la
sua
giovane età; le sue mani diventavano sempre più
sottili e il suo corpo
trasparente.
La
mancanza di quel suo amore la divorava da dentro, e lei si lasciava
dilaniare
da quella malinconia feroce, persa com’era nei suoi sogni,
nei suoi pensieri.
In
quel periodo vide mio padre solo una volta, perché
nonostante combattesse nella
nostra regione, era pericoloso per lui tornare al paese. I Combattenti
si rifugiavano
sulle montagne.
Mia
madre racconta che le mani di mio padre divennero presto dure e nodose
e i
calli, sicuramente, non gli avrebbero più permesso di
suonare tanto abilmente
come era solito fare in gioventù.
Era
tutto cambiato da quando si erano sposati,e mia madre ne moriva dentro,
giorno
dopo giorno.
Una
decina di giorni prima del terzo compleanno di mia sorella
arrivò al paese un
ragazzino pallido e sporco. Era magrissimo. Giunse nella piazza del
paese,
esausto, e prima di svenire, pronunciò, in un sussurro, il
nome di mia madre.
Così fu portato da lei.
Io
non ero ancora nata, ma mi si racconta che mia madre si
impegnò a fondo per
curare quel ragazzino e quando lui, un paio di giorni dopo il suo
arrivo, fu di
nuovo in forze, tirò fuori da una tasca nascosta nella suola
della scarpa, un
biglietto, tutto stropicciato e logoro.
“Alla scogliera, la sera del
compleanno di
Sara. Sta’ attenta”.
Era
la grafia di mio padre.
Era
già un anno che non aveva sue notizie, e quando ricevette
quel biglietto mia madre
lo lesse, poi lo strinse fra le mani e tirò un profondo
sospiro, ringraziando
il cielo che mio padre fosse ancora vivo.
Quella
sera indossò il suo abito più scuro.
L’austerità era già diventata parte di
lei, il viso era pallido, le labbra dure e bianchissime. Le sue mani
erano
fredde e nervose. E la sua bocca non sorrideva più da tempo.
Quando
lo vide, alla scogliera, quasi non lo riconobbe. Era molto dimagrito e
portava
una barba ispida e incolta. Ma i suoi occhi erano ancora gli stessi. E
il suo
sguardo la trafiggeva e la deliziava, come sempre.
Quando
si incontrarono non dissero una parola. Si fermarono ad un paio di
metri l’uno
dall’altra. Si guardarono, si scrutarono e poi si vennero
incontro,
abbracciandosi, e in quell’abbraccio entrambi sorrisero,
sereni.
Stettero,
fermi, in silenzio, finché non iniziarono a sentirsi dei
rumori.
La
guerra, a quel tempo, era agli sgoccioli, e mio padre sperava di poter
tornare
stabilmente a casa entro l’anno. I Combattenti vincevano
nettamente sui Nemici,
e si diceva che da lì a poco sarebbe stato firmato un
armistizio.
Ma
proprio un paio di giorni prima di quel loro incontro, un gruppo di
Nemici in
fuga aveva occupato tutta la campagna circostante il paese. Mia madre
aveva
pensato di rimandare l’incontro, ma non aveva come
rintracciare mio padre.
Così
andarono le cose: quell’abbraccio, alla scogliera, fu sciolto
da mio padre, non
appena sentì rumore di passi.
Sussurrò
a mia madre “ti amo”, poi
l’allontanò da sé, la spinse, le disse
di
nascondersi, poi iniziò a correre, ma lei rimase ferma,
impietrita dalla paura,
e vide tutta la scena. Mio padre iniziò a scappare verso la
macchia che si
estendeva a non molta distanza dalla scogliera, ma un colpo di pistola
lo
raggiunse ad una spalla. Cadde, e rimase a terra, fermo.
Mia
madre corse verso di lui, disperata ma in silenzio, poi venne raggiunta
e
accerchiata da un gruppo di Nemici.
Allora
iniziò a gridare e cercò di divincolarsi, ma due
di quegli uomini la tenevano
per terra.
E
mentre un terzo iniziava a sbottonarsi la giacca, mia madre
riuscì ad alzare la
testa e, nel chiarore di quella luna piena, vide il corpo di mio padre
sobbalzare
sotto i colpi della pistola di uno di quei soldati, fermo, in piedi,
davanti a
lui.
Quando
gli spari cessarono –erano stati sette, forse otto-, mia
madre smise di
gridare, di piangere, di pensare. Smise di divincolarsi e
aspettò, immobile,
che quei Nemici finissero di usare il suo corpo.
Non
la uccisero.
Era
quasi l’alba, quando andarono via. Lei aspettò il
sole, poi cercò di mettersi
in piedi, ma fece due passi e cadde, svenuta.
Fu
il ragazzino a portare mio nonno alla scogliera, l’indomani
mattina. Ma quando
quel vecchio la vide, svenuta fra i sassi e piena di polvere, con la
camicetta
strappata che lasciava intravedere i seni e il sangue, che le
appiccicava i
capelli al volto, chiuse per un attimo gli occhi. Poi fece il segno
della croce
ed andò via.
Il
ragazzino allora la soccorse e la portò in casa della zia
lavandaia, che si
prese cura di lei.
Mio
nonno decise che né mia madre né i miei fratelli
avrebbero più messo piede in
casa sua e quando seppe della mia nascita dichiarò che se
solo mi avesse vista
non si sarebbe lasciato impietosire dalla mia tenera età e
mi avrebbe uccisa,
perché lo meritavo, da piccola bastarda quale ero.
Mia
madre appena fu in forze lasciò la casa della zia e
andò a vivere in una
vecchia casa abbandonata, nei pressi del faro.
Continuò
a lavorare come lavandaia, continuò la sua vita di sempre,
ma non sorrise mai
più.
E
nonostante tutto mia madre mi amò come mai amò
nessun altro. E costruì per me
un mondo tutto di bugie, ma che l’aiutava ad andare avanti.
Mi
raccontava che mio padre suonava il piano, mi diceva che era bello e
raggiante
e che lei lo amava moltissimo. Mi diceva sempre di quanto il mio
papà era stato
coraggioso a combattere contro i Nemici della nostra patria, e quando
me lo
raccontava quasi tremava, sembrava trattenere dei singhiozzi asciutti,
senza
lacrime, e perdeva, ogni volta, quel suo sguardo nel vuoto.
Mi
guardava e mi scrutava dentro, mia madre, e rivedeva in me lo sguardo
di colui
che non era mio padre. Ma lei lo vedeva, lo vedeva in me, ne era sicura.
Mi
diceva di quando avevano vissuto in città, e dei club di
ricchi dove mio padre
suonava, ed è così che io l’ho sempre
sentito dentro, quel papà pianista, così
divertente e affascinante, l’ho sempre sentito dentro come
parte di me,
nonostante non fosse mio.
Ha
sempre fatto di tutto, mia madre, per farmi sentire figlia dello stesso
padre
dei miei fratelli.
Poi
ogni tanto iniziava a fissare questi miei occhi irrimediabilmente
azzurri;
allora lasciava tutto e correva da me e mi abbracciava e mi stringeva,
come non
faceva con nessuno dei miei fratelli, come se a me mancasse qualcosa
che
invece, loro, avevano; ma in realtà era un qualcosa che
mancava a lei.
Una
volta eravamo sul portico di legno che aveva fatto costruire dopo che
era morta
sua zia, con i soldi che lei le aveva lasciato in eredità
assieme alla
lavanderia.
Mia
madre stava rammendando dei calzini e ricordo che mi affacciai sulla
porta di
casa e fui pervasa da quel vento marino e da quel tramonto estivo.
Il
sole ci era di fronte e faceva apparire mia madre solo come una sagoma
nera e
sottile, nella luce rossastra.
La
chiamai, “mamma?”
E
allora lei lasciò tutto e mi venne incontro. Si
inginocchiò sulla soglia e mi
abbracciò e mi tenne stretta, dondolandosi un po’.
Canticchiava.
“Tuo
papà era uno splendido pianista”, mi disse.
“Suonava divinamente. Sembrava che
le sue dita fossero alate. Mi sorrideva, ed io arrossivo dalla gioia.
Era
bello, il tuo papà, tanto bello, con quei suoi occhi
profondi e neri. Tuo papà
era l’ultimo uomo buono della terra…”.
Non
era vero, ma andava bene lo stesso.
Poi,
una sera, mia madre scomparve fra le onde, e mai nessuno seppe se
fossero state
le onde stesse a rapirla e trascinarla via, o se piuttosto fosse stata
lei ad
abbandonarsi ad esse.
La
verità, mia madre, non me la disse mai, ma io vivo con uno
splendido ricordo
dentro, come fosse mio, di lei, e del mio papà pianista.
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