On the Road.
1.
Rapimento.
Mugugnò
soddisfatta, mentre
scorreva giù con il mouse per visualizzare tutta la pagina
del computer, dove
era impegnata a vedere il risultato del suo esame finale. Ed eccolo
lì,
campeggiare sovrano in testa alla classifica:
Rin Jordan: 100 con lode.
Si
alzò con aria trionfante,
disinfettandosi le mani che erano state a contatto con la tastiera, si
infilò
le pantofole e schizzò in cucina dalla madre:
“Mamma, ho superato l’esame con
il massimo dei voti!” esclamò, alzando un pugno in
aria con fare vittorioso.
Isabella si girò, sorridente, mentre finiva di mescolare con
il mestolo
l’impasto per una torta: “Brava tesoro.”
Rimasero
un po’ così, con Rin che
guardava la madre, curiosa, e lei che girava e girava con il mestolo
nella ciotola.
Dopo
qualche minuto fu la madre a
prendere la parola: “Senti, stavo giusto pensando…
ora che hai diciannove anni,
non credi che sia tempo che cominci a vivere normalmente?
Intendo… non vuoi
guarire?”
Il
volto della giovane si
rabbuiò: sua madre faceva quelle storie da quando ne aveva
memoria, ma lei,
Rin, aveva un unico, insormontabile problema che si chiamava
agorafobia. Non
era mai uscita di casa, e aveva sempre studiato a casa con un
professore pagato
(tanto) per non farla uscire.
Il
fatto era che bastava solo un
alito di vento, una macchina, una goccia di pioggia per farla schizzare
dentro
le sue confortanti quattro mura domestiche. E, soprattutto, aveva il
terrore
dei germi.
“Noo,
io sto bene così!” esclamò,
mettendo le mani avanti. Guarire significava prima di tutto andare da
un
dottore. E andare da un dottore significava uscire. Quindi no.
Isabella
la fissò, obliqua,
mentre diceva: “Ho il tuo regalo per il diploma.” A
quella frase Rin si fece
pensierosa: in teoria doveva essere felice, ma le occhiate oblique di
sua madre
le facevano paura. Sia perché il viso di Isabella metteva un
cipiglio
inquietante, sia perché le idee di sua madre non si potevano
certo definire
sicure, considerata la sua delicatezza.
“Oh,
che bello… cos’è?” chiese,
curiosa. La madre guardò l’orologio, che segnava
le nove e mezza di mattina del
dieci giugno, con un sorrisetto per niente rassicurante:
“Arriverà tra poco.”
Rin
non sapeva se esserne felice
o meno.
Fece
per dirigersi di nuovo in
camera, ma fu fermata dalla voce della sua cara mamma: “Rin,
ma perché non ti
metti qualcosa di più estivo?” lo sguardo della
diretta interessata scese sul
maglione di lana blu che si ostinava a mettere per paura di un
raffreddore, la
gonna verde a pieghe della divisa, le calze verdi, gli scaldamuscoli
blu e le
ballerine con il tacco nere. “Io sto benissimo
così!” esclamò. Avrebbe giurato
che la madre avesse scosso la testa sconsolata. Ma, per lei, anche se
c’era il
sole c’era il rischio di prendersi un malanno.
Ad
un certo punto suonò il campanello.
Rin
si irrigidì: chi stava
suonando alla porta era portatore di germi, anche se probabilmente
avrebbe
portato il suo regalo. Si sedette sul divano, mentre la madre correva
ad
aprire, con lo stesso sorrisino poco rassicurante che aveva poco prima.
Sulla
soglia della sua casa
igienicamente asettica apparve un uomo che sembrava gridare tutto il
contrario,
e che le ricordava vagamente il rozzo motociclista di qualche film
degli anni
ottanta: era un ragazzo di circa vent’otto anni alto, con i
capelli scuri
legati in un codino e gli occhi blu profondi come il mare. Ma la cosa
più
sconvolgente e preoccupante era il suo abbigliamento: era vestito con
una
maglietta a maniche corte rossa, macchiata qua e là,
pantaloni che somigliavano
vagamente a jeans molto rappezzati e un paio di anfibi infangati. Con
il dito
della mano destra reggeva una giacca di pelle scura dall’aria
vissuta. Una
persona da storcere il naso. “Ciao Miroku!”
esclamò Isabella, sorridendo. Rin
si rabbuiò ancora una volta: chi era quell’uomo?
Non era un rimpiazzo di suo
padre, vero? Perché in tal caso non l’avrebbe
perdonata: suo padre era morto e
doveva conservarne la memoria!
“Rin,
lui è Miroku, il figlio di
una mia amica.” Lo presentò lei, e la ragazza si
vide costretta a risvegliarsi
e stringere con un sorriso che aveva un che di schifato la mano di
sicuro
impolverata del ragazzo, che sorrise a sua volta, marpione. Si
sentì
immediatamente a disagio. “Pia…
piacere…” piagnucolò, cercando di
evadere
strisciando lentamente sempre più lontano da lui, che le
mise una mano sulla
spalla, gioviale: “Su, Rinuccia! Vedrai che ci
divertiremo!” esclamò lui, tutto
euforico.
Ci? Che razza di storia è questa?
Pensò, disperata. Quella faccenda
sapeva terribilmente di congiura. Rivolse un’occhiata bieca
alla madre, che
ridacchiò divertita. Allora era una complice!
“Dove
sono le valigie?” chiese il
ragazzo, parlando questa volta a Isabella. “Di sopra.
Accomodati.” Rispose,
indicandogli le scale che conducevano alla camera di Rin.
La
povera vittima lasciò che
l’indesiderato ospite si dirigesse a profanare il suo tempio
per poi rivolgersi
furente alla madre: “Che storia è questa? Di che
valigie andava blaterando?”
sibilò, attenta a non farsi sentire da Miroku. Isabella
sorrise, ridacchiò e
socchiuse gli occhi, per poi rispondere: “È il tuo
regalo.” La ragazza non fece
in tempo ad aprire di nuovo bocca che il ragazzo scese, portando in
mano quella
che era una valigia scura piuttosto grande, che sembrava piuttosto
vissuta,
come se avesse viaggiato molto. Miroku aveva un ghigno terribilmente
affabile
dipinto sul volto: “Bene, Rinuccia, ora andiamo? Ci aspetta
l’avventura!” disse
poi, uscendo un attimo per posare il bagaglio nel retro di una macchina
grigia
e scalcinata. Lei scosse violentemente la testa: “Noo, io
rimango qui e non
esco.” Disse, più a sé stessa che a
qualcuno in particolare, anche perché la
madre la stava spingendo verso la porta. Lei si opponeva in ogni modo
ma,
avendo trascorso tutti e diciannove gli anni della sua vita in casa, in
quanto
a muscolatura scarseggiava, e ogni sforzo risultava inutile, almeno
finché non
si aggrappò allo stipite dell’uscio aperto. Poi
intervenne anche Miroku a
tirarla per le caviglie.
La
scena vista da fuori, poteva
essere assai comica: Rin era aggrappata alla porta con tutte le sue
forze,
anche se le sue gambe ormai stavano fuori, Miroku la tirava per le
caviglie,
sforzandosi di non pensare a quello che poteva esserci sotto la gonna
che
portava la ragazza, e Isabella che spingeva da dentro con la schiena.
Alla
fine al ragazzo venne
l’illuminante idea di prendere la ragazza sul groppone.
“Cosa
fai!? Lasciamiii!” gridò
Rin, scalciando in aria e battendo i pugni sulla schiena magra del suo
rapitore, mentre guardava inferocita la madre che salutava con la mano.
Cominciò a inveire molto acidamente su Miroku, che sembrava
il più divertito
della scena, mentre i passanti si giravano, sconvolti dal linguaggio
colorito
della ragazza: “Ciao Rin, ci vediamo a settembre!”
cinguettò la signora Jordan,
sventolando un fazzoletto.
“Cosa!?
Settembre?! Lasciamiii!”
gridò ancora la ragazza, battendo ancora i suoi inutili
pugni sulla schiena di
Miroku, che la scaraventò nella sua auto, nel posto accanto
al volante,
legandola con la cintura. Cercò di divincolarsi, pensando
che quella era una
macchina, dove regnavano i germi, e magari dove il cosiddetto Miroku
faceva le sue cose con le sue
donne, ma il ragazzo
salutò veloce sua madre e partì a cinquanta
all’ora.
Cominciò
a tremare, e forte
anche, sia perché era in uno di quei trabiccoli orribili e
pieni di germi, sia
perché, a quanto pareva, stava partendo per fuori
con uno sconosciuto con la faccia da maniaco.
“Picchi
forte. Sembravi la mia
ragazza.” constatò Miroku, dopo qualche minuto di
silenzio. Lei si allontanò,
per quanto possibile, da lui, facendosi ancora più piccola
di quello che già
non fosse.
“Ma
dai, non sei contenta?” parlò
ancora lui. Rin le rivolse la sua occhiata più feroce,
cattiva e acida, ma non
fu notata visto che il ragazzo sembrava preso dalla strada.
Però
Miroku sembrava incline a volerla
distogliere dalla sua paura degli spazi aperti: “Pensa
all’aria fresca!”
“Raffreddore.”
Rimbeccò lei,
imbronciata.
“Al
bagno nei mari limpidi!”
“Meduse.”
“Ai
concerti!”
“Folla.”
“Alla
montagna!”
“Orsi.”
Lui
sembrò ridacchiare:
“Agorafobica fino all’eccesso, eh? Con questo
viaggio guarirai.”
Rin
assunse un’espressione del
tipo non credo proprio e si
appuntò
mentalmente che, una volta tornata, avrebbe dovuto chiudersi per sempre dentro la sua camera. E
soprattutto impedire alle persone di nome Miroku con la faccia da
maniaco di
mettere piede in casa sua. E, inoltre, si appuntò di farla
pagare alla madre,
perché infondo è lei che aveva organizzato tutto
quello.
“Dove
stiamo andando?” chiese
dopo un po’ infarcendo il suo tono calmo con
l’acidità più velenosa che
riuscisse a simulare. Lui ci mise tutto il suo tempo per rispondere,
gettandole
prima un’occhiata divertita, poi sbuffando leggermente:
“A Londra.” Al nome
della città la ragazza sobbalzò. Così
lontano? Si chiese, sgomenta. Già era tanto se era
uscita si casa, e ora la
portavano addirittura a Londra? Qualcuno forse la voleva indurre al
suicidio.
Senza il forse.
“E
perché andiamo a Londra?”
chiese ancora, con lo stesso tono di prima, anche se cominciavano a
sentirsi le
prime incrinature di nervosismo. Lui ridacchiò:
“Per prendere un aereo.”
Il
passero mangiava tranquillo il
suo verme sul suo albero. Almeno finché non passò
un’auto un po’ scalcinata
dalla quale provenne un urlo disumano: “CHE
COSA?!?!?!?!?!?!?!”
Il
passero, ormai traumatizzato,
cadde a terra, vittima di un ictus, un infarto e perché gli
era andato di
traverso il verme che stava mangiando.
Miroku
sembrava trattenersi con
tutte le sue forze dallo scoppiare a ridere, cosa che Rin
trovò terribilmente
irritante: “COSA TI RIDI???? SONO IN UNA SITUAZIONE DEGENERE
E TU RIDI!!!”
strillò, con voce acuta.
A
quel punto il sorriso di Miroku
si fece un po’ più serio: “Guarda che le
uniche cose degeneri siete tu e la tua
malattia.”
Rin
si accasciò sul sedile della
macchina, sconfitta. A quella frecciatina non poteva certo ribattere.
Il
silenzio piombò di nuovo nella
macchina, mentre Miroku imboccava l’autostrada. Rin cercava
di non pensare che
stava fuori, con un tipo con la faccia da maniaco, e che, a quanto
pare, se ne
stava andando da qualche parte con un aereo. Cercava di chiudere gli
occhi, ma
le sue palpebre sembravano riluttanti ad abbassarsi a causa del
nervosismo. Si
accorse poi di tremare.
Un
grido soffocato provenne poi dalla giacca di Miroku,
sembrava quasi la voce di un cantante rock piuttosto alta, poi Rin
capì che si
trattava del cellulare del suo rapitore che squillava.
Everybody's
got their problems,
Everybody says the same thing to you.
It's just a matter of how you solve them,
And knowing how to change the things you've been through.
I feel I've come to realize,
How fast life can be compromised. *
Con tutta la calma del mondo il ragazzo infilò
la mano nella tasca e ne
tirò fuori un cellulare che urlava a tutta potenza.
“Sango, che piacer…” provò
a rispondere, ma fu interrotto da una voce squillante e ancora
più alta della
suoneria stessa: “MIROKU, QUANDO CASPITA CI METTI A
RISPONDERE?” a quel punto
il diretto interessato sobbalzò, facendo sbandare lievemente
la macchina. Rin
artigliò le mani al sedile.
“Ehm,
Sango…” provò a spiegare
lui, ma fu interrotto di nuovo dalla stessa voce, questa volta
più calma:
“Comunque. A che ora partiamo?”
“Alle
due e venti.”
“E
credi di riuscire a venire per
le due e venti in aeroporto?” questa volta la domanda era
leggermente
sarcastica.
“Sì.”
“Ok.
Ci vediamo lì. Ti amo.”
“Ti
amo anch’io. Ciao Sanguccia.”
Rin
era sconvolta. La persona al
telefono cambiava umore alla velocità della luce: prima
gridava così forte che
a momenti rompeva il telefono, poi diceva ‘ti
amo’… valla a capire, certa
gente.
Miroku
intascò il cellulare con
l’espressione beata di chi sa di avere tra le sue braccia
l’anima gemella, o
forse era davvero così, Rin non avrebbe potuto saperlo,
visto che, non uscendo
mai di casa, non si era nemmeno mai innamorata. Certe volte si sentiva
davvero
vuota, se così poteva esprimersi, ma il solo pensiero di
uscire la inchiodava
in casa.
Ma
una domanda ancora persisteva
nella sua testa: che cosa doveva fare su un aereo a Londra? Dove doveva
andare?
Perché sarebbe tornata a settembre? A pensarci bene le
domande erano tre.
Aprì
bocca, ma fu interrotta:
“Suppongo ti stia chiedendo perché tu stia
partendo.” Constatò Miroku, con il
sorriso sghembo di chi la sa lunga che gli incurvava leggermente le
labbra.
Annuì.
“Beh,
faremo un bel viaggetto in
tutta Europa, dalla Francia alla Russia. Senza lasciare la
Grecia.” Cominciò:
“Tua madre aveva detto alla mia che doveva trovare un modo
per farti guarire
dalla tua irrazionale paura degli spazi aperti e poi sono spuntato io,
che
stavo organizzando questo viaggio “on the road” con
alcune persone che avevano
risposto al mio annuncio sul giornale, e quindi ben presto sei stata
scritta
nella lista dei partecipanti, tua mamma ha pagato la quota e mi ha
pregato di
non dirti nulla. Poi il giorno del risultato dell’esame, che
era anche quello
della partenza, come hai visto, sono venuto e ti
ho…”
“Rapito.”
Completò Rin,
sconsolata. Ecco risolto il mistero. Sarebbe andata in giro per
l’Europa per
tre mesi, grazie a una congiura tramata da sua madre e quel pervertito
di nome
Miroku. Non sapeva perché lo chiamasse così, ma
la sua faccia le faceva pensare
a qualcuno di fin troppo libertino.
Miroku
ridacchiò e aumentò la
velocità della macchina, mentre canticchiava ancora le dolci note della sua suoneria.
***
Londra
era grigia. Ora ne aveva
anche la prova. Lo aveva sempre saputo, considerato il fatto che
leggeva
tantissimo, ma vederla dal vivo era tutta un’altra cosa.
Avrebbe preferito
rimanere a casa.
Miroku
parcheggiò, circa tre ore
più tardi, alle dodici e quaranta, sotto una casa che sapeva
di vecchio.
Probabilmente la sua, ma, visto il proprietario, Rin non avrebbe
comunque messo
piede dentro. Ci sarebbero voluti comunque molti sforzi per convincersi
a
uscire in un luogo pieno di germi come quella città. Non
aveva smesso di tremare
per tutto il tempo, e lo faceva anche adesso. Aveva paura. Sentiva
ovunque
l’oppressione tipica dei grandi palazzi di città,
e questo le faceva venire il
panico.
“E
ora andiamo all’aeroporto.”
Annunciò Miroku, prendendo il suo bagaglio, uno zaino
enorme, e consegnando la
valigia a Rin, che non appena la prese in mano crollò a
terra. Ma quanto era
pesante? Che ci aveva messo dentro sua madre?
Quando
vide un autobus fermarsi
davanti a loro e Miroku intento a salirci il panico salì a
cinquecento: lei, in
un autobus dove chissà quante persone che erano salite e
chissà quante ne
sarebbero salite?
“Devo
riprenderti in braccio?”
chiese Miroku, lievemente scocciato. Per paura di una figuraccia, la
ragazza
salì sul mezzo, riluttante.
Il
suo rapitore si era tranquillamente
seduto su uno dei posti liberi, non senza prendere il giornale che se
ne stava
abbandonato sul sedile prima di lui. Lo aprì come se niente
fosse e cominciò a
leggere. Dopo un po’ se ne uscì con un
“NOO!” che fece sobbalzare tutte le
persone che stavano lì vicino. Rin si mise un pugno in bocca
per evitare di
strillare per lo spavento. “Il City… ha perso di
nuovo.” Gemette poi Miroku,
abbassando il giornale quel poco per bastava per scorgere il volto
incazzato
nero della ragazza, che sembrava dire: ma
vaffanculo!, e si nascose di nuovo dietro i fogli.
“Potresti
cadere.” Disse poi,
rivolgendosi alla sua recalcitrante accompagnatrice, che non osava
né
appoggiarsi a uno dei sostegni, né sedersi, per paura dei
germi. Lei scosse il
capo, ostinata: “Chissà quanti germi ci
sono…” disse. Vide Miroku alzare gli
occhi al cielo.
Erano
le tredici e dieci quando
finalmente riuscirono a farsi fare il chek-in e imbarcare i bagagli.
Erano
arrivati correndo, dribblando tutti, sgomitando, gridando, ma alla fine
ce l’avevano
fatta. Anzi, diciamo che Miroku aveva corso e aveva trascinato una Rin
stravolta, dribblando tutti, sgomitando e gridando frasi di convenienza
quando
atterrava nella sua corsa spericolata qualche disgraziato di passaggio,
ma alla
fine era arrivato.
“Bene,
ora aspettiamo qui le due
e venti.” Disse poi il ragazzo, sedendosi in uno dei posti
davanti al gate 7,
dove spiccava a caratteri cubitali il volo
Londra-Parigi
ore: 14.20
“Vedi,
quello è il nostro volo,
quello che ci porta a Parigi.” Illustrò per poi
tornare al giornale che aveva
cominciato in autobus.
Rin,
dal canto suo, tremava come
una foglia. Non era mai uscita di casa, e come prima volta quella
bastava a
farle pensare che sarebbe stato meglio se si fosse murata viva dentro
la sua
camera. Non osava sedersi per paura dei germi, quindi passeggiava
avanti e
indietro per il nervosismo. Anzi, no, per il panico. Era talmente
impanicata
che non si accorse della ragazza bruna che si stava avvicinando a
Miroku,
trasportando un borsone gigante rosso senza alcuna fatica.
“Interessante?”
chiese al
giovane, abbassando gli il giornale. Miroku sembrò metterci
qualche secondo per
riconoscere la persona che gli si era parata davanti, con il suo seno
prosperoso, ma poi gridò, saltando in piedi:
“Sanguccia!” Almeno tre persone si
girarono divertite, mentre altre dieci soffocavano nella bibita o nel
panino
che stavano mangiando, per lo spavento.
“Wow,
mi hai riconosciuto.”
Ridacchiò quella. Non sembrava molto offensiva.
Quindi
quella era Sango, la
ragazza di Miroku, quella che a momenti rompeva il suo cellulare con la
sua
delicata voce. Non era assolutamente brutta: era alta, con un fisico
slanciato
e muscoloso, tipico di chi fa molto sport, capelli color castagna
legati in una
coda e due vispi occhi da cerbiatta. Era vestita con un paio di shorts
in
jeans, una canottiera sportiva che le evidenziava le curve e un paio di
scarpe
da ginnastica.
Rin,
in un momento di debolezza
come quello in cui si trovava, avrebbe davvero voluto essere come lei:
alta,
sicura di sé, atletica, ma allo stesso tempo bella. Non
poteva dirsi una sua
fotocopia, piuttosto il contrario: lei era minuscola, non superava il
metro e
cinquantacinque, aveva un fisico sottile e piuttosto delicato, forme
più o meno
normali, niente di che, e soprattutto, era agorafobica. Mai aveva
rimpianto
l’esserlo, e purtroppo questo non l’aiutava, anzi
aumentava il suo timore nei
confronti dell’esterno.
“Oh,
che scemo…” disse Miroku:
“Lei è Rin, viaggerà con
noi.” La presentò, prendendola dal suo angolino e
portandola davanti alla sua ragazza. Sango sorrise.
“Pia-piacere.”
Balbettò. Non era
mai uscita di casa e non aveva avuto altre relazioni sociali oltre
quelle con
la madre e con l’insegnante che le faceva da maestro. Come
avrebbe fatto?
*
“The Hell Song” by Sum 41
beh, era ora che dessi il
mio stupido
contributo con una long fic a questa sezione XD
no, vab, scherzi a parte, spero che vi piaccia :)
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