Ciao a tutti ^_^ sono nuova della sezione, anche se ho
scritto una one-shot un bel
po’ di tempo fa. Mi piacciono molto alcune storie del fandom
e un po’ la nostalgia per questo bellissimo anime-manga, un po’ la voglia di
scrivere… mi hanno portata a postare questa one-shot. In realtà ho il progetto di scrivere una long su
questi meravigliosi personaggi… ma ho troppe fic in
sospeso e per ora finirei per fare un lavoro fatto male! Intanto spero
leggerete e apprezzerete questo mio lavoretto. Il protagonista è Naozumi, mio personaggio preferito con Sana e_e, ma non è una NaoxSana… non
ho ancora, purtroppo, trovato quella scintilla che possa far scattare l’amore
di Sana verso il mio Nao (io
di motivi per me ne troverei mille *_*) quindi vedrete una Sana innamorata del
suo Akito.
Dato che in questa serie l’anime
differisce molto dal manga voglio specificare che mi riferisco soprattutto alle
vicende che accadono nella serie tv. Spero che apprezzerete, anche se il
personaggio di Naozumi non è amato quanto Akito spero, comunque, di farvelo
apprezzare!
Bè, penso di aver detto
abbastanza: buona lettura!
Euterpe_12
Finalmente, Piange
Le luci di New York lo abbagliarono. Accesero i suoi occhi,
colorando il viso bianco.
Avrebbe voluto sparire.
Attraversò l’aereoporto
distrattamente, guardando a destra e a sinistra ma pareva non stesse vedendo
nulla se non il pavimento che attraversava. I suoi lineamenti
così conosciuti, il suo viso così angelico, quegli occhi dichiarati più volte
come quelli più invidiati dagli uomini di tutto il mondo.
Lui, l’attore.
Lui, il premio Oscar.
Solo la sera prima aveva stretto tra le mani la statuetta
sorridendo soddisfatto al pubblico di tutto il mondo: aveva vinto l’Oscar! Naozumi si era impegnato tanto per quel film, ed era stato addirittura
felice prima di ricevere quella telefonata e vedere il suo piccolo e falso
mondo crollare, manco fosse fatto di cristallo sottile.
Aveva abbassato il capo e aveva detto distrattamente che
sarebbe subito accorso a New York. Perché papà, aveva detto Cecil, stava
morendo.
Papà?
Lui non lo aveva mai chiamato papà.
Mentre saliva sul taxi gli vennero in mente gli occhi grigi
di quell’uomo che quando Naozumi era bambino, lo
aveva abbandonato: proprio quando avrebbe avuto più bisogno di lui.
Ma davanti a certi avvenimenti,
bisogna abbassare il capo e dimenticare il passato.
Aveva pensato proprio questo mentre attraversava il lungo
corridoio dell’ospedale ed infermiere e pazienti si
voltavano in sua direzione, indicandolo.
-Ma quello è Naozumi Kamura!- dicevano. –Il premio Oscar come migliore attore!-
ripetevano in coro. Di solito avrebbe alzato il capo, avrebbe fatto un sorriso
di circostanza ed avrebbe addirittura firmato
autografi. Ma quello non era certo il momento.
Andò al reparto oncologia, chiedendo del signor Hemilton. Un’infermiera imbarazzata gli disse il numero
della stanza e lui ringraziò, gentile, anche in quelle occasioni.
Vide subito la bionda chioma di Cecil: un fiore di donna,
ora, con i suoi 25 anni. Al suo fianco Brad non
perdeva tempo per starle vicino, ricordandole all’orecchio quanto le volesse
bene.
L’amava molto, eppure non era mai
riuscito a confessarglie lo davvero.
-Finalmente sei qui!- disse in lacrime la ragazza gettandosi
tra le sue braccia. Bagnò il suo giubbotto di jeans delle proprie lacrime, e
con singhiozzi strozzati aveva sospirato. Erano due anni che non si vedevano.
Due lunghissimi, infiniti anni. Non che si fossero mai visti con cadenza
regolare: Naozumi aveva sempre tenuto
fede alle proprie parole e aveva fatto la propria strada da solo. E da solo si
era meritato il premio Oscar.
Prese ad accarezzarle i folti ricci biondi, sussurrandole
all’orecchio.
-Sta tranquilla, risolveremo tutto.-
non ne era molto convinto, ma gli dava profondamente fastidio vederla piangere.
Cecil gli era sempre parsa simile ad una piccola e
delicata bambola di porcellana, pronta a rompersi al primo impatto vero con la
realtà. Sentirono Brad che si schiariva la voce e subito dopo Cecil si scansò
dalle braccia del fratello.
-Non fa che chiamarti.- disse
allora il biondino indicando la porta della stanza di Gary. Naozumi
lo guardò incredulo.
-Sì…- sussurrò Cecil annuendo. –Dice di volerti parlare,
sembra abbia paura di… di non farcela!- e riscoppiò
in lacrime. Le forti braccia di Brad l’accolsero
mentre Naozumi si gettava all’interno della camera
ospedaliera.
E lo vide.
Il re dei palchi di New York, colui che
era in grado di lasciare a bocca aperta chiunque in tutto il mondo con i suoi
spettacoli.
Ricco. Serio. Intelligente. Ma
incapace di sfuggire alla morte. Perché, in fondo, era solo un uomo.
Naozumi si sentì profondamente
piccolo di fronte all’immagine di quell’uomo sdragliato
su un letto d’ospedale, talmente indifeso che quasi gli venne voglia di
trascinarlo via e dirgli che l’avrebbe aiutato lui. Che l’avrebbe portato in un
mondo migliore, senza ospedali e malattie da curare.
Gli si sedette accanto, guardando i suoi occhi chiusi:
doveva essersi addormentato. Uno strano impulso lo spinse
a stringere la mano del padre, e si sentì subito meglio quando ne percepì il
tiepido calore.
Sospirò.
Avrebbe voluto piangere.
Naozumi era una persona molto
sensibile. Quando stava male spesso si rifugiava nelle
lacrime perché lo facevano stare subito meglio.
Piangere è come esorcizzare il dolore.
Le lacrime, per lui,
erano le braccia forti che non lo potevano stringere quando stava male.
Ma in quel momento, anche se ci
provava, non ci riuscì.
Strinse le palpebre forti e quasi i singhiozzi uscirono
quando, però, sentì la mano rispondere alla sua stretta.
-Sei qui…- disse la voce roca di Gary. Lo guardò con un paio
di occhi spenti, quasi distrutti. A Naozumi fecero
male quegli occhi. –Ragazzo mio, sono orgoglioso di te…- sussurrò ancora a
fatica l’uomo, non dando a Naozumi il tempo di
rispondergli.
-Sono corso non appena ho saputo.-
Gary sorrise.
-C’è l’hai fatta.- tossì.
-No, non parlare!- lo rimproverò il figlio, stringendogli forte forte la mano. L’uomo di
tutta risposta fece di no con il capo. Lentamente, debolmente.
-Ti voglio bene Naozumi, come se
tu fossi sempre stato accanto a me…- dovette fermarsi per prendere un lungo
sorso d’aria. –Mi riempi il cuore d’orgoglio, ed ora
non potrei desiderare altro… altro che…- dovette fermarsi ed un paio di lacrime
rotolarono lungo le sue guance cave.
-Cosa desideri?- domandò Naozumi,
impaziente. L’uomo non riuscì a parlare, troppo stanco. Richiuse gli occhi
senza proferire verbo. Il tumore lo stava pian piano portando via. Non c’era
niente da fare. Tutti i medici avevano dato lo stesso responso
e non avevano potuto fare altro che dargli dei sedativi per far sembrare meno
forte il dolore.
Ma il dolore del cuore di un padre,
chi l’avrebbe placato?
Non rispose più. Non avrebbe detto il suo ultimo desiderio e
Naozumi aveva chinato il capo, non sentendosi in diritto
di essere stato l’ultima persona che aveva sentito la sua voce.
Quando si alzò per chiamare i medici purtroppo sapeva già che non avrebbe più guardato dentro gli occhi di
Gary.
Si era spento alle 22.13 e un mare di lacrime l’aveva
salutato.
Ma lui non aveva pianto. Ci aveva
provato, ma nessuna goccia salata rotolava giù lungo le sue guance.
Era come se l’intero corpo si fosse fermato. L’unica cosa
che faceva era quella di dire al suo manager di cancellare tutti gli
appuntamenti per quella settimana. Non si sentiva in vena di parlare.
Era stanco di tutto, stanco di
vivere.
Aveva salutato Cecil guardandola, mentre piangeva disperata.
E gli aveva chiesto di starle accanto, e quando finalmente si era addormentata,
Naozumi aveva preso la strada per il proprio albergo.
Guidava tra le strade della silenziosa New
York. Era quasi mezzanotte eppure un gran numero di automobili occupava
la strada.
Si sentiva solo, tanto solo.
Pensò alla propria storia. Alla scoperta di avere dei
genitori, al fatto che finalmente aveva una famiglia.
E poi alla scelta di lasciarla,
quella famiglia ritrovata e tanto desiderata.
Perché in fondo, pensò Naozumi,
lui si sarebbe sempre sentito solo.
Orfano di se stesso.
E si disse che il suo passato di piccolo bambino senza le
braccia di una madre non glie l’avrebbe tolto nessuno, che nessuno l’avrebbe
capito.
D’improvviso si fermò nel bel mezzo dell’hall
del proprio albergo quando si rese conto che qualcuno c’era che poteva capirlo.
E si rese anche conto che l’unico vero periodo felice della sua vita lo aveva
trascorso accanto a lei.
-Sana…- aveva pronunciato il suo nome a mezza voce, quasi il
destino glie lo avesse strappato via dalle labbra
sottili. E poi l’aveva vista avanzare verso di lui, gli occhi sorridenti.
Era un sogno?
Avrebbe voluto allungare una mano verso di lei e toccarla
per controllare che non stesse delirando. Per sentire che quella pelle fresca,
quegli occhi stupendi e quei lisci e lunghi capelli erano davvero di fronte a
lui.
-Nao-chan!-
aveva detto con la sua vitalità.
Era lei.
Le parole gli morirono in gola, quasi fossero troppe e
troppo confuse per uscire fuori tutte assieme.
-Sana…- ripetè come uno stupido,
incredulo di fronte alla sua visione. Sana aveva sorriso e aveva allargato
entrambe le braccia.
Lo strinse a sé, come tanto tempo fa.
Ricambiò a fatica l’abbraccio,
perdendosi nel profumo leggero di quella giovane donna dalla vitalità incredibile
e dalla forza eccezionale.
E chiudendo gli occhi e sentendo con la mano il tessuto
sottile della sua maglietta rossa si disse che sì, lei era l’unica a non farlo
sentir solo.
-Sono così felice di incontrarti…- singhiozzò lei, poi si
scansò. I suoi occhi un po’ lucidi lo intenerirono al
punto tale da farlo sorridere.
Ed erano là. Uno di fronte all’altra dopo
anni di silenzio. In mezzo all’hall di un
albergo sconosciuto, ora fautore del loro incontro.
E Naozumi si sentì improvvisamente
bene.
-Ho scoperto che hai vinto il premio Oscar!- battè le mani contenta, gli occhi sempre più sorridenti.
Sana non era cambiata molto: il suo sguardo da bambina tradiva i suoi 27 anni, facendola apparire molto più giovane di quanto non
fosse. Le labbra leggere, il nasino sottile e la pelle lucente: era sempre lei.
E Naozumi abbassò il capo, chiedendosi cosa pensasse
di lui. –
Sì, è stata una grande soddisfazione.- incrociò le braccia,
fingendo disinteresse. Sana, invece, si guardò intorno.
-Hai da fare questa sera?- domandò,
tutta eccitata. Lui fece di no con il capo: aveva in programma di star solo
perché sapeva bene che non poteva essere di buona compagnia per nessuno. Ma guardandola si disse che avrebbe fatto volentieri uno
strappo alla regola.
-Allora dobbiamo assolutamente vederci! Abbiamo da
raccontarci un sacco di cose!- esultò lei.
Si diedero appuntamento nella hall
per fare una passeggiata. Non troppo presto, perché i loro fans
sicuramente li avrebbero placcati.
Sana era rimasta famosa. Lavorava per lo più in Giappone per
programmi e
spot pubblicitari, ma non mancava di fare ogni tanto una capatina in America.
Naozumi salì nell’ascensore deciso
a farsi una doccia e prepararsi per la serata.
Dentro la doccia pensò al suo passato. E pensò a cinque anni
prima quando era iniziato il proprio silenzio con lei. Aveva mandato proprio a
lui la propria partecipazione per il suo matrimonio con Akito
Hayama, suo eterno rivale.
Naozumi poggiò la fronte bianca
contro la parete della doccia, sentendo addosso lo
strisciare dell’acqua bollente.
Quanto era stato male?
Sana aveva chiamato più volte per ricevere notizie su una
sua possibile partecipazione al matrimonio ma lui, vigliaccamente, aveva sempre
lasciato squillare quel telefono. Finalmente deciso aveva inviato un mazzo di
fiori alla sposa il giorno dopo il matrimonio ed un
biglietto con solo due parole scritte sopra:
“Siate felici”
Nello scrivere quelle parole si era
deciso a non innamorarsi mai più: ci era stato troppo male.
E fu da quell’istante che si disse che avrebbe rifiutato
ogni ruolo che prevedesse una collaborazione con l’attrice dagli affascinanti
capelli rossicci; questo non incoraggiò certo la sua carriera: nonostante
l’esperienza di New York appartenesse al passato, la coppia Sana-Naozumi
faceva ancora scalpore in Giappone.
Ma con il passare del tempo aveva
imparato ad accettare la sua mancanza. Solo dopo averla rivista in quell’hall, illuminata dalle luci soffuse dell’albergo, si
era reso conto di quanto gli fosse mancata.
Si sedette sul letto, solo l’accappatoio blu dell’albergo in
dosso. Decise che quella sarebbe stata una serata come tante: non doveva anche
solo immaginare di poter scaturire l’interesse di Sana… era così innamorata del
suo Akito. L’aveva compreso subito perché quando i
loro sguardi si erano incrociati negli occhi della giovane
aveva letto sorpresa, contentezza, ma non amore, o almeno, non amore nei suoi
confronti.
Nell’aprire la valigia vide a terra una busta. Alzando lo
sguardo notò che era proprio sotto a dove aveva appeso la giacca, per questo
immaginò gli fosse caduta da lì. La raccolse poi vide una scrittura sconosciuta
sulla busta.
“Scusa Naozumi,
questa lettera ti è stata lasciata da Gary, desiderava tu la leggessi dopo bè, si ecco… dopo che se ne era andato. Non l’ho
letta, ovviamente. Brad.”
Strinse le labbra aprendola. Non fece attenzione a non
rovinare la carta della busta talmente fu la foga che ebbe nel leggere il
contenuto.
“Figlio mio,
Scrivo con difficoltà questa lettera. Ho appena ricevuto il
referto del medico che dichiara la mia situazione come senza speranze. Ammetto
di aver pianto, ma chi non lo farebbe?
Ho deciso di scriverti questa lettera perché ho pensato a
tutto ciò che ho passato nella mia vita.
Perché quando sai di dover morire, ogni tuo più piccolo
pensiero o gesto diventa improvvisamente importantissimo.
E mi sono reso conto di essere profondamente soddisfatto di
me: ho fatto ciò che desideravo, ho seguito la mia arte, ho avuto successo. Ma il filo dei miei pensieri si è spezzato bruscamente nel
momento esatto in cui mi sono reso conto che c’era qualcosa in cui avevo fallito:
il mio rapporto con te.
Mi sono sempre chiesto cosa ti abbia spinto a lasciarci, a
non accettare la tua famiglia. Poi mi sono reso conto che in fondo non potevo
pretendere di essere davvero un padre per te. Mi sono chiesto con quale egoismo
io abbia preteso questo. Poi ho capito.
Sei il mio orgoglio. La mia vera consapevolezza: sì, la consapevolezza che, nonostante tutto, io continuerò ad
esistere.
Scusami Naozumi se ti ho
abbandonato. Scusami se non sono stato davvero un padre per te. Se ho avuto
l’egoismo di metterti al mondo e di non occuparmi di te.
Avrei avuto un solo desiderio nella mia
vita: sentirmi chiamare dalla tua voce: “Papà”. Mi pare grande come
pretesa, ma l’ho sognato spesso quel momento.
Per ora, figlio mio, voglio solo dirti che sei il mio
orgoglio, la mia forza. Ti penso e mi dico che devo solo essere felice se una
persona così in gamba ha dentro le sue vene il mio
stesso sangue.
Sto lasciando questo mondo, ma lo faccio con orgoglio e
consapevolezza: la consapevolezza di aver lasciato qui
una persona straordinaria.
Ti voglio bene, figlio mio.
Con tutto l’affetto che posso.
Tuo padre.”
Poggiò la lettera sul letto. In tutto era un foglio scritto
in bella calligrafia, ora un po’ stropicciato. L’aveva stretta forte forte, quasi avesse
desiderato che entrasse dentro di lui, che scorresse nel suo sangue, come colui
che l’aveva scritta. Voleva aggrapparsi a quell’ultima prova tangibile
dell’esistenza di suo padre che,ora, l’aveva
abbandonato… di nuovo.
Una smorfia si dipinse sul suo viso mentre lasciava la
lettera su quel letto coperto da un piumino rosso. Si vestì in fretta.
D’improvviso maledisse le ore che lo separavano da Sana: pareva
quasi non desiderasse altro da anni, inconsciamente.
Rivederla.
E più desiderava rincontrarla, più sentiva che solo lei
poteva comprendere il suo dolore. Chissà se sapeva? Forse i giornali avevano
diffuso la notizia e lei, seduta nella sua camera d’albergo, avrebbe appreso il
tutto da qualche programma di gossip.
Non glie l’avrebbe mai perdonato.
Strinse gli occhi, sdragliandosi
sul letto. Prese sonno, ma non dormì. La lettera giaceva al suo fianco e lui,
codardo, non aveva il coraggio di prenderla tra le mani e consumarsi gli occhi
nel rileggerla.
L’avrebbe tanto desiderato.
Ma aveva paura, questa volta, di
piangere.
Quel dolore non voleva esorcizzarlo.
O, almeno, non da solo.
Arrivò finalmente l’ora dell’appuntamento. Naozumi era una persona estremamente
precisa, per questo non tardò nel raggiungerla. In dosso una camicia bianca ed un paio di jeans. Guardandosi nello specchio
dell’ascensore notò che era pallido, ma questo non faceva che mettere in
risalto gli occhi turchesi. Strinse le palpebre forte forte, desiderando che, riaprendole, vedesse
riflessa l’immagine di Akito Hayama.
Come lo invidiava!
Sapeva che non lo avrebbe mai ammesso a se stesso, ma era
così.
Invidiava i suoi occhi, che potevano guardarla ogni giorno.
Invidiava le sue mani, che potevano toccarla ogni notte.
Invidiava le sue orecchie, che potevano ascoltare la sua
voce.
Ed invidiava, più di tutto, le sue
labbra che potevano sfiorare quelle di Sana ogni volta che lo avesse voluto.
Si decise a godersi ogni sua parola, ogni suo gesto e più
piccolo respiro, almeno per quella sera.
Sana, ovviamente, non era ancora arrivata. L’attendeva di fronte all’entrata dell’albergo, a quell’ora
piuttosto silenziosa. Dovette firmare un paio di autografi aspettandola ma
decise di non essere scorbutico: doveva conservare la sua immagine di
bravissimo ragazzo.
-Eccomi!- Sana arrivò. Naozumi
doveva riabituarsi alle sue entrate in scena incredibili: correva forte sulle
sue ballerine argentate. In dosso una gonnellina nera a
pieghe e un golf grigio chiaro.
Semplice ma bella, come solo lei sapeva essere.
I lunghi capelli castano-rossicci giù lungo le spalle, a ordinarli un
cerchietto nero.
-Sei meravigliosa.- le disse
sottovoce e lei arrossì.
-Nao-chan
sei il solito anche dopo tutti questi anni!- lo abbracciò di nuovo. Si vedeva
che le mancava la sua amicizia.
Naozumi la strinse forte a propria
volta.
-Allora, dove si và?- chiese lui.
Tentò di non guardarle la mano sinistra che sfoggiava l’anellino d’oro che
consacrava la sua unione con Akito.
-Humm…- riflettè
lei guardando verso l’alto. –Che ne dici di andare verso la baia?- domandò. Per
quella giornata di aprile, in effetti, non era niente male come idea. Naozumi tirò fuori dalla tasca le chiavi della sua Golf e
Sana lo seguì. L’auto si trovava dentro uno dei garage
appositi dell’albergo,
controllata dal personale.
-Allora Nao-chan, cosa mi dici?-
chiese lei camminando al suo fianco. –Dovrei tirarti le orecchie: non ti sei
più fatto vivo!- esclamò fingendo di essere arrabbiata. Dentro di sé Naozumi sperò che fosse davvero dispiaciuta per la loro
lontananza.
-Lo so.-
rispose lui. –Ma sono stati anni un po’ burrascosi.-
terminò guardandola. Sperava di comunicarle che gli era tanto mancata. Sana
probabilmente lo intuì dato che lasciò cadere il
discorso. Fece di no con il capo.
-Va bene, ma desidero non accada mai più.-
Naozumi annuì salendo in auto. Probabilmente, per
pura cortesia, avrebbe dovuto domandarle come fosse la sua vita con Akito. Ma a Sana nemmeno passò per la mente: se era una
persona estremamente sveglia nella vita di tutti i
giorni, c’erano però due cose in cui era lenta e capiva poco: la matematica e i
sentimenti.
Uscirono dal garage illuminato per immettersi tra le strade
di New York.
-Non posso crederci.- interruppe il
silenzio Sana. –L’ultima volta che siamo venuti qui
insieme… avevamo poco più di 12 anni.- riflettè più con se stessa che con lui. Naozumi
annuì. Affogò nei ricordi, mentre l’immagine del volto del padre alimentava la
sua sofferenza.
-Abbiamo avuto un sacco di esperienze insieme…- riflettè allora Naozumi, non certo
per alimentare in lei l’affetto nei suoi confronti. Sentiva di non averne
bisogno perché sapeva di esserle stato abbastanza
vicino nella sua giovinezza da suscitare in lei un affetto incondizionato,
sempre.
Nonostante gli anni, nonostante ora siano grandi.
-Mi dispiace che tutto si sia spezzato.- Sana non parlò con
la malinconia nello sguardo, non era certo da lei. Il suo continuo ottimismo e
la voglia di fare che l’avevano sempre contraddistinta avevano fatto si che quella constatazione arrivasse con uno strano
luccichio nei suoi occhi.
Presero a parlare dei vecchi tempi. Naozumi
ascoltava la sua voce ed intanto guardava la strada di
fronte a sé. Le luci incredibili di New York illuminavano i loro sguardi che
spesso si cercavano per scoprire una nuova espressione che anni prima non c’era; un nuovo modo di sorridere; un nuovo tono di voce.
-Non sei cambiato: sei rimasto un gran bel tipo!- gli aveva detto ad un certo punto dandogli una pacca sulla
spalla. Naozumi per poco non si scontrò con un’altra
auto e dovette contare su tutte le proprie forze e riflessi per non incappare
in un incidente. –Ops!- esclamò lei ridendo.
Arrivarono alla baia.
Più avanti il porto, illuminato dalle tante auto che
circolavano per raggiungere Manhattan. Com’era viva, New York. La città che per
sempre sarebbe stata luogo di strane sensazioni nel cuore di Naozumi.
Presero a camminare lungo il porto. Si raccontarono
della loro vita soffermandosi sui tanti lavori, sui colleghi che avevano avuto
in commune e Sana si dichiarò dispiaciuta per non
aver più lavorato con lui. Naozumi ascoltava rapito
la sua voce, finchè non incapparono
nel discorso “Akito”.
-Credo che tutti sapessero che prima o poi
io e lui saremmo finiti insieme.- disse ad un certo
punto Sana mentre si sedevano su una panchina lungo il porto. –Quando ho detto
il famoso “sì” tutti avevano sospirato: per i nostri
strani caratteri erano sicuri che ci sarebbe stato qualche strano colpo di
scena!- rise divertita. –Ma invece no: sono cinque
anni che abbiamo imparato a scavare l’uno dentro l’altra e più gli sto vicino
più mi rendo conto che, effettivamente, io l’ho sempre amato.- aveva abbassato lo sguardo nel dire quelle parole
importanti.
Naozumi strinse un pugno.
Ma chissà se a me, Sana, un po’ m’hai
amato?
Si fece quella domanda per tutto il tempo in cui Sana parlò.
E più l’ascoltava e più si sentiva
in colpa nel desiderare di avvicinare il proprio sguardo al suo.
-Io ho detto tutto quel che dovevo dire.-
dichiarò lei ad un certo punto. Naozumi
si era perso a guardare un punto fisso: il mare di notte. Era particolarmente
calmo, ma l’acqua era ancora più scura per via di tutti i gas di scarico delle navi attraccate. Prolungò il proprio silenzio.
-Allora Nao-chan, tu sei
innamorato?-
No Sana, non dovevi chiedermelo.
Chiuse gli occhi, mentre un sorriso amaro gli colorava il
viso. Sarebbe stato difficile dichiarare che l’unica persona che avesse mai
amato era stata lei.
-Ho avuto un paio di storie.- decise di andare sul vago. –Ma
ora come ora non credo di essere pronto per il grande
amore.-
E dentro di sé, sapeva che non sarebbe mai stato pronto.
Sana l’aveva rapito con la sua vitalità. Con
il suo viso fresco e pulito anche dopo tutti quegli anni. Ma, più di
tutto, l’aveva rapito per il suo essere così empatica
con lui. Il fatto che fosse l’unica ad aver condiviso un sentimento simile come
la perdita dei genitori per Naozumi era sempre stata
una gran cosa.
Ma non per lei, evidentemente.
Avrebbe voluto voltarsi e dirle tutto, ma ovviamente non lo
fece. Si limitò a prenderle la mano e stringerla forte forte, quasi avesse paura che l’immagine di Sana
seduta accanto a lui sparisse improvvisamente.
Un po’ di vento scompigliò i loro capelli, e Naozumi respirò forte.
Stava male, ma al contempo infinitamente bene.
-Poco lontano c’è un posto speciale, o almeno lo è stato per
un po’ di tempo.- disse Sana ad un certo punto. La
voce spezzata.
-Sarebbe?- si voltò lui. Non sapeva per quanto tempo fossero
stati seduti l’uno accanto all’altra in silenzio, ma sapeva che non gli aveva
fatto per niente male.
-Si chiama “Ellis Island” è un
isolotto qua vicino, ospitava gli immigrati che venivano sin qui per trovare
una nuova vita.- rispose
allora Sana con aria sognante. –La chiamano “L’isola delle lacrime”, credo,
perché gli immigrati non venivano trattati un granchè bene. Pensa che triste: attraversi mezzo mondo per
trovare un sogno, il tuo sogno qua in America… per essere trattato, poi, come un animale.- riflettè ancora lei.
Naozumi guardò lontano, come
stesse cercando proprio quella valle di lacrime.
-Sì, io credo che piangerei se si spezzasse un sogno così
grande.- dichiarò. Sana annuì.
-Ma dopo le lacrime bisogna ricominciare, asciugarle e
rimboccarsi le maniche.- strinse ancora di più la sua
mano cercando lo sguardo di Naozumi. Lui si voltò
verso Sana affogando nei suoi occhi così grandi, così belli.
Lei aveva capito che stava male.
-Cos’hai Nao-chan?- sussurrò allora, quasi quella domanda le fosse
rimasta incastrata nella gola esattamente dall’ultima volta in cui si erano
visti.
Poverina, pensò Naozumi, quella
domanda era rimasta là, a disturbarla, per tutti quegli anni.
-Sana…-
E finalmente le sentì, le lacrime.
Bussavano da dietro le palpebre, spingevano per uscire.
-Sana…- ripetè frastornato, mentre
dagli occhi scivolavano gocce salate.
Lacrime.
-Sana…- e finalmente la strinse a sé, con foga, con
trasporto.
Voleva solo sentire il suo abbraccio, sentire
che aveva qualcuno vicino dopo che suo padre l’aveva abbandonato.
Sana gli accarezzò i capelli, gli occhi chiusi e
un’espressione di comprensione dipinta in viso.
Non sapeva con precisione cosa gli fosse accaduto, ma gli
sarebbe stata accanto, qualunque cosa fosse.
Gli voleva bene, tanto bene.
E rimasero là. Appesi ad una
sofferenza sconosciuta, sotto, un baratro di incertezza.
Ma Naozumi
poteva respirare il suo profumo, la dolce fragranza della sua pelle che,
nonostante il tempo, non aveva mai dimenticato.
Si salutarono distrattamente con la promessa di rivedersi
presto. Naozumi non era così sicuro di essere in
grado di mantenere la parola data, ma non era riuscito a dirle di no.
Anche a lei si erano bagnati gli occhi di lacrime durante
quell’abbraccio che era durato tutta un’eternità. Si
era commossa di fronte alla sua sofferenza, così tangibile nonostante gli anni
trascorsi dall’ultima volta che si erano visti.
Eppure, aveva riflettuto lei, nonostante il tempo la loro sintonia non era sparita.
Sana si sedette sul divanetto della propria camera d’albergo
togliendosi poi le ballerine argentate. Si mise a gambe incrociate,
riflettendo. Decise allora di accendere la televisione perché aveva bisogno di
un po’ di compagnia: una compagnia discreta, però.
Ma la tv non fu così discreta come
pensava: la notizia che vide non la lasciò per nulla indifferente. E pianse
ancora di fronte alla notizia che Naozumi era rimasto
orfano, di nuovo.
Il giorno seguente Sana si era precipitata verso il
corridoio dell’albergo cercando la camera di Naozumi.
Voleva consolarlo, ancora. Pareva indossasse una nuova consapevolezza dopo quel
che aveva scoperto.
Bussò alla camera 233, quella di Naozumi, ma nessuna
risposta.
Che stesse ancora dormendo?
Insistette.
-Signorina Kurata.- disse un cameriere
gentile. Sana si voltò.
-Sì?- chiese.
-Se sta cercando il Signor Kamura,
mi dispiace, ma è andato via molto presto.-
-E’ uscito? Tornerà?- domandò lei. Uno strano fiatone le
aveva preso la gola.
-No Signorina, era diretto a Los
Angeles.-
Sana strinse il pugno. Era arrivata in ritardo e lui non
aveva voluto salutarla. Trattenne le lacrime, sorridendo al cameriere. Lo
ringraziò poi si diresse verso la propria camera.
E si disse che mai più avrebbe permesso che Naozumi restasse solo, a piangere.