Preda del mare
Note:
'Michiru' in giapponese significa sorgente. Kaiou significa 'dio del
mare'.
Preda
del mare
Autore: ellephedre
Disclaimer: i
personaggi di
Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di
proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.
"Per
ragioni che le erano diventate comprensibili solo a sedici anni, il suo
umore era sempre stato influenzato dalla maree e dalle generali
condizioni delle acque accanto a cui si era
trovata a vivere.
Da bambina era stata, a
seconda dei luoghi e delle
giornate, come un fiume in piena, un lago serenissimo, un ghiacciaio
imperturbabile o un mare in tempesta. L'ultima condizione era stata la
peggiore."
(estratto dal capitolo XXI di 'Verso l'alba')
"Dov'è Michi?"
Era cominciata così, con una bambina di due anni e mezzo
sparita dalla sua stanza.
La babysitter aveva alzato gli occhi dal proprio libro di testo e aveva
lanciato uno sguardo sotto il tavolo. Quella sera aveva accettato di
rimpiazzare la sua amica al lavoro solamente perché le era
stato
assicurato che la bambina da curare era tranquilla, ma da quando era
entrata in casa Kaiou - niente madre, un padre vedovo, una singola
figlia - non aveva avuto un attimo di riposo. La piccola peste si era
infilata dappertutto, persino dentro la lavatrice. La bambina aveva
passato la serata a urlare e benché Kasumi conoscesse solo
qualcuno dei
fondamenti della religione cristiana, aveva desiderato avere a
disposizione un prete esorcista. In quei venti chili di piccola umana
si era sicuramente nascosto qualche diavoletto, si era detta. E non un
diavoletto carino, ma uno di quei piccoli mostri nati per distruggere
la vita altrui.
Si era alzata dal tavolo e aveva stropicciato gli occhi
affaticati
dallo studio e dalla poca luce del salotto. "L'ho fatto addormentare
poco fa. In camera sua."
Kyoichi Kaiou era rientrato nel corridoio a cercare sua figlia.
Kasumi l'aveva seguito con riluttanza, pronta a trovare la bambina
dentro un cassetto mentre urlava silenziosamente al mondo tutto il
proprio odio represso. Michiru, così l'avevano chiamata. Sorgente. Sorgente
di cosa? Di guai, si era risposta Kasumi.
Era quasi andata a sbattere contro la schiena del suo temporaneo datore
di lavoro.
Lui era entrato in camera di sua figlia a passi larghi. "Hai lasciato
la finestra aperta con questo temporale? Non hai sentito tutto il vento
che-" Si era interrotto bruscamente e nella penombra Kasumi aveva
osservato il suo volto farsi terreo. "L'avevi lasciata a dormire qui?"
Kasumi aveva spostato lo sguardo sul lettino, trovandolo vuoto.
"Sì." Mentre una folata di vento le
scompigliava la frangia, aveva aggrottato la fronte. "Mi scusi per la
finestra aperta, ma stavo
studiando e non mi ero accorta che aveva iniziato a piovere." Si era
chinata verso la cassettiera e, partendo dal basso, aveva aperto uno ad
uno tutti i cassetti. L'ultimo era stato posizionato all'altezza del
suo petto e per quanto non avesse ritenuto intelligente cercare la
bambina anche lì, Kasumi aveva imparato che era una
soluzione
necessaria. Durante quella sera aveva perso per due volte
più di un
quarto d'ora a cercare Michiru dentro un singola stanza e solo per non
aver guardato in posti che le erano parsi nascondigli improbabili.
"Che cosa stai cercando?" aveva quasi ringhiato il padrone di casa,
abbassando con forza la finestra. "Aiutami a trovare mia figlia! Non so
se tu abbia bevuto qualcosa, ma è evidente che non l'hai
lasciata nel suo letto. Da lì non può uscire."
Kasumi aveva evitato di ribattere solo per quieto vivere e, giusto
perché aveva avuto diciannove anni e non poteva lasciarsi
battere
da
una marmocchia di due, aveva iniziato ad usare il cervello. Il lettino
era ancora in piedi e non riverso a terra, si era detta,
perciò la bambina
non poteva averlo
scavalcato dal lato che dava sul pavimento. Accanto al muro c'era solo
il davanzale, quindi...
Con un masso di tensione nella gola, si era precipitata verso la
finestra dal vetro spesso, sollevandola con due mani.
Aveva tirato fuori la testa, finendo sotto una pioggia torrenziale.
A poco meno di un metro e mezzo da lei, in un solo punto, i fiori
dell'aiuola che circondava l'intera casa erano stati piegati contro il
terreno.
Era corsa fuori dalla stanza.
"Michiru!"
L'urlo di Kyochi Kaiou aveva raggiunto Kasumi mentre si
immergeva nel temporale.
"È sempre stata una bambina così brava..."
L'infermiera Madoki aveva annuito comprensiva mentre misurava la febbre
alla piccolina. Per ciascun genitore il proprio figlio era un inno alla
bontà quando stava male, ma la bambina rannicchiata sul
letto
d'ospedale grande tre volte lei sembrava davvero la
personificazione della dolcezza infantile. I capelli lievemente
ondulati le incorniciavano il viso debilitato mentre le piccole labbra
violacee
ancora tremavano.
L'infermiera Madoki aveva scorto un velo di lacrime luccicanti sopra
occhi dal colore blu profondo e si era scoperta a trasalire. Non aveva
mai visto uno sguardo tanto adulto in un essere così
piccolo. La luce di determinazione nello sguardo della paziente -
pronta a dar battaglia per la propria vita - era scomparsa quasi
subito, lasciando dietro di sé solo il ricordo di una
illusoria stranezza. La bambina era tornata ad essere una piccola
creatura indifesa, desiderosa di cure e protezione.
Piegandosi sul letto, il padre l'aveva abbracciata. "Mi dispiace... mi
dispiace."
L'infermiera Madoki non aveva trovato anomale le scuse. Se ogni
genitore si sentiva in colpa di fronte al malessere dei propri figli, i
più preoccupati in caso di incidenti erano proprio i
genitori soli. La bambina
non aveva una madre, secondo la sua cartella. Era stata affidata alle
cure di una povera ragazza che si trovava ancora in attesa nella sala
del pronto soccorso, arrivata lì coi vestiti fradici quanto
quelli della piccola.
Akemi Madoki aveva portato un camice da ospedale ai due adulti e
qualcosa di adatto per la bambina.
Davanti ai suoi occhi la piccola Michiru Kaiou rilasciò un
sospiro e si addormentò.
Il padre le accarezzò la fronte, sistemandole con cura i
capelli.
Dalla finestra aperta si udì un suono di nuova calma.
Akemi si permise un sorriso. "Il temporale è finito."
Nei suoi primi ricordi suo padre stava seduto nella poltrona del
salotto, le scarpe illuminate dal sole e il viso che riposava
nell'ombra. Teneva la testa reclinata all'indietro e sembrava chiedersi
perché il destino gli avesse dato una simile figlia.
Non è colpa
mia, avrebbe voluto dirgli lei.
Non essere triste, non
essere deluso. Non aveva neppure saputo cosa fosse la
delusione, ma per istinto un bambino riconosceva anche sensazioni senza
nome.
"Sono brava?" gli aveva chiesto una volta, provando a ballare di fronte
a lui per farlo contento.
Suo padre le aveva accarezzato i capelli, osservandola come se si
attendesse di vederla mutare di fronte ai suoi occhi da un momento
all'altro.
Michiru si era sforzata tremendamente di non impazzire come al solito,
anche se neppure lei aveva saputo cosa le facesse perdere ogni ragione
e controllo.
"Può essere stato un singolo episodio?" Era la domanda che
suo padre aveva posto una volta ad un dottore. "Una volta si
è persa di notte sotto un temporale e da allora..."
Lo sguardo del medico era stato compassionevole. "No, signor Kaiou.
Questi non sono i sintomi di un trauma, sembra più..."
Il dottore aveva elencato una serie di termini che lei non era stata in
grado di comprendere, parole che erano scivolate con rassegnazione
sullo sguardo di suo padre.
"Grazie" aveva detto lui al dottore. E l'aveva portata via da
lì.
Erano dovuti passare tre anni perché suo padre di accorgesse
che il bel clima la faceva stare bene.
Non si erano trasferiti per cercare un suo miglioramento,
bensì per una semplice questione di lavoro. Nella vita di
Kyochi Kaiou avevano avuto importanza solo il suo lavoro e sua figlia,
con una spiccata preferenza per il primo dei due. Il
lavoro per lui aveva rappresentato un rifugio, un luogo in cui
dimenticare una
vita familiare difficile, incomprensibile.
Michiru aveva cercato di essere più brava - più
normale, per allora aveva acquisito la nozione - e aveva tentato con
tutte le sue forze di opporsi agli attimi che la travolgevano come
vento che le entrava nella testa.
Faceva il bagno ogni giorno. Dentro l'acqua della vasca giocava con una
barchetta ed era più felice e tranquilla che mai.
Quando suo padre tornava dal lavoro, la trovava sempre in acqua. La
babysitter non
riusciva mai a resistere troppo a lungo alla sua esuberanza e doveva
metterla dove piaceva a lei prima delle cinque del pomeriggio. Quattro,
se era possibile.
Michiru non aveva mai legato con nessuna donna. Nessuna donna e nessun
uomo,
suo padre per primo, avevano mai capito che quella non era lei. Lei non era un
terremoto che non sapeva stare ferma, non gridava perché
voleva, non era arrabbiata perché era arrabbiata.
Era... travolta, sempre. Nessuno la comprendeva e a volte la
frustrazione era davvero la sua: per tutti era Michiru, la
bambina strana da cui era meglio stare lontani.
Eppure non era colpa sua. Se lo ripeteva da sola senza piangere, quando
pensava la notte, nei pochi minuti prima di addormentarsi. Le piaceva
essere stanca.
Quando era stanca non aveva forze e non metteva in faccia a nessuno
un'espressione di esasperata rassegnazione, neppure per un momento.
Un giorno, quando aveva quasi cinque anni, suo padre le aveva detto che
non poteva più sopportare di stare in casa solo per paura
che lei facesse scenate fuori.
L'aveva messa in macchina, facendo molta attenzione a non permetterle
di liberarsi in alcun modo dalle cinture di sicurezza, e l'aveva
portata in spiaggia.
In quel luogo magico lei era sbocciata.
Si era avvicinata all'acqua con passi esitanti, estasiata dai suoni,
dalle immagini, dal profumo che le aveva invaso le narici. Si era
lasciata cadere nella sabbia, permettendo alle onde di lambirle i piedi.
Suo padre si era seduto accanto a lei ed era rimasto a guardarla per
molto tempo, confuso.
Quando, cullata dalla litania tenera delle onde, lei aveva continuato a
rimanere calma, lui le aveva scostato lievemente la frangia dagli
occhi. "Ora somigli a tua madre" le aveva detto e Michiru aveva pensato
che in quel momento lui assomigliasse ad un papà.
Si era sdraiata di fianco e gli aveva preso la mano, sperando di
potergli volere presto ancora più bene.
Come nei cartoni che guardava la mattina, voleva correre da lui ed
essere presa in braccio con un sorriso. Sarebbero stati Papà
e Michiru, la sua bambina che era tanto brava.
Non erano mai diventati una cosa simile loro due, fino alla fine.
Tuttavia, c'erano stati momenti in cui Kyochi l'aveva compresa e
aiutata come solo lui aveva potuto fare.
Non l'aveva mai creduta pazza, per cominciare. Col senno di poi,
Michiru aveva compreso che lui avrebbe potuto adottare soluzioni che
l'avrebbero mortificata e umiliata, danneggiandola in maniera
irreparabile.
Aveva frequentato una normale scuola per l'infanzia. Tutte le
educatrici si erano lamentate di lei, ma Michiru ricordava la voce
alzata di suo padre che le accusava tutte di incompetenza, esigendo che
trovassero una soluzione per badare a lei e farla stare con gli altri
bambini.
Non era riuscito a volerle bene come avrebbe potuto amare una figlia
normale, ma, a modo suo, aveva fatto del suo meglio per lei.
Forse solo per il legame biologico che li univa, di tanto in tanto lui
l'aveva davvero capita, come il giorno in cui le aveva messo in mano la
sua salvezza futura.
"Tieni" le aveva detto, regalandole un violino.
L'aveva vista di sfuggita, una sola volta, mentre saltellando per casa
aveva prestato due attimi di attenzione ad un concerto in televisione.
"Ti piace?" le aveva chiesto, ma lei era stata troppo impegnata a
combattere contro un materasso per rispondergli.
L'aveva iscritta a diversi corsi sportivi - quanti più
possibile per una bambina della sua età - ma nel muoversi
lei non aveva trovato pace, solo la possibilità di avere
più spazio in cui non rimanere ferma. Le regole non le erano
andate giù, anche se segretamente aveva ammirato la loro
complessa
eleganza.
La prima volta che le aveva regalato un violino la loro casa era stata
ancora in città.
Lui aveva provato a far scorrere l'archetto sulle corde e, affascinata,
lei gli aveva strappato il violino di mano. Aveva torturato lo
strumento per mezz'ora prima di romperlo, frustrata dai suoni orribili
che produceva.
Poi avevano cambiato casa.
Erano andati a vivere ad Okinawa, in campagna, e lì la sua
vita era cambiata.
Michiru non era mai stata tanto terribile come quando li sfiorava un
tifone o
tanto calma come quando c'era bel tempo. Nel nuovo appartamento suo
padre aveva ritrovato la bambina della spiaggia, quella capace di
rimanere tale senza impazzire più tanto spesso e,
occasionalmente,
guardandola con un sorriso, l'aveva chiamata 'La mia Michiru del mare'.
Era un luogo che Kyochi aveva imparato ad amare e detestare. Aveva
cominciato a portarla lì quando desiderava passare in pace
un po' di tempo con lei, ma sapere che era un posto e non lui
a renderla felice lo aveva sempre straziato.
Michiru sapeva bene che la delusione di lui aveva origine
nelle lunghe ore passate a cercare di sedarla inutilmente. A volte,
senza la minima soddisfazione, aveva la piena coscienza di essere stata
lei a sconfiggere suo padre.
Da grande non avrebbe voluto chiedergli 'Perché?',
benché finalmente sapesse che era quella la domanda che
aveva creato un'infinita tristezza dentro di lei.
Con gli anni si era risposta da sola.
Suo padre non aveva cercato in lei la donna che l'aveva data alla luce
e che era morta l'anno successivo in un incidente. Non aveva cercato
neppure
la figlia perfetta. Aveva desiderato solamente una bambina
con
cui potersi relazionare, da poter amare con semplicità.
Non era mai stato bravo con le persone, ma questo lei lo aveva compreso
solo molti anni dopo, ricordando i suoi sorrisi forzati e le sue lunghe
esitazioni nel rispondere alla gente. Da bambina gli aveva chiesto come
fosse stata sua madre e lui aveva risposto...
"Come un lago."
Ed era ciò che Michiru aveva cercato di diventare. Come un
serenissimo lago, anche quando il mare era in tempesta.
Aveva imparato a domarlo con la musica, col nuovo violino che le aveva
comprato Kyochi.
Ogni nota imitava il movimento di un'onda sferzata, rendendola padrona
del proprio carattere. Quando fuori diluviava, per sfogarsi e
trattenersi lei creava una musica terribile, dolorosa per le sue stesse
orecchie per la violenza dei suoni strappati alle corde. Man mano che
la tecnica migliorava - velocemente - la sua musica diventava sempre
più cruenta. Riusciva a non gridare più, anche
se,
silenziosamente, piangeva ancora di rabbia. Il progresso era
notevole.
Durante l'ultimo anno in cui erano stati insieme, Kyochi aveva annuito
sempre più spesso. "Hai imparato a controllarti quasi
sempre. Sapevo che potevi farcela, Michi."
Michi.
Era un nome tenero, pensato per una figlia cara.
Per allora, per i suoi nove anni, lei era diventata abbastanza
complicata da non poter essere la bambina semplice e dolcissima che
Kyochi avrebbe potuto amare con l'unica semplicità di cui
era stato capace.
Grazie a tutto ciò che aveva dovuto superare, era diventata
abbastanza adulta da preoccuparsi non solo di stessa.
"Grazie papà" gli diceva, sapendo che parlarsi in quel modo
faceva bene ad entrambi.
L'ultima domanda importante che gli aveva fatto era stata, "Come pensi
che
sarà il mio futuro?"
Pur con tutta la sua maturità, era stata pur sempre una
bambina con una sola àncora a cui aggrapparsi, sempre
più in ansia per un mondo con cui non aveva mai imparato a
legare troppo bene.
Kyochi l'aveva osservata in silenzio. "Quando hai timore di qualcosa,
suona." Aveva toccato l'album da disegno nuovo che le aveva regalato.
"Oppure disegna e dipingi, ora che hai imparato." Imparato a stare
calma abbastanza da passare ore con una matita in mano, intendeva lui,
e
senza pasticciare il disegno al primo segno di follia. "Sei molto
brava in queste due cose" aveva concluso suo padre, lasciandola
insoddisfatta.
"Non penso di poter suonare o dipingere per sempre" gli aveva detto.
Kyochi aveva guardato fuori dalla finestra, in direzione del mare. "Sai
una cosa?"
Michiru aveva creduto che non stesse parlando con lei.
"Io penso... che tu sia nata per fare grandi cose."
Non era stata una convinzione né un augurio. Michiru lo
aveva compreso solo dopo la morte di lui, ma suo padre in quel momento
aveva semplicemente sperato che fosse così. Che tutte quelle
sue stranezze avessero avuto uno scopo ultimo, meraviglioso e
incredibile, che magari
valesse il sacrificio che lui aveva fatto nel perdere una figlia che
non aveva mai avuto.
Lei aveva percepito il sentimento dietro le sue parole e lo aveva
sfidato. "Io sarò... gigante.
Come l'oceano."
Guardandola, suo padre le aveva creduto. "Sì, Michi." Le
aveva accarezzato la frangia. "Dormi bene."
Era morto in modo stupido e improvviso. Non si era alzato dalla sua
scrivania, nel suo ufficio, portandosi una mano contro il petto
dolorante.
No.
Si era alzato, aveva roteato gli occhi ed erano franato a terra.
Un ictus, le avevano detto.
Michiru non aveva voluto trattenere neppure un briciolo di tutta la
calma che si era guadagnata negli anni. L'aveva sfogata contro l'uomo
che era il padre di suo padre e l'aveva odiato. Lo aveva
detestato come nessun essere vivente al mondo, perché
abitando per due sole settimane con lui aveva capito: era stato lui a
fare di suo padre un uomo debole, incapace di amarla come un padre
vero, coraggioso e indomito.
Suo nonno l'aveva mandata in un collegio per bambine.
Lei lo aveva ringraziato con un calcio.
La morte di Kyochi non aveva avuto alcun significato per quelle stanze
pulite, ordinate, per quei lunghi corridoi vuoti e silenziosi.
Lì dentro non era mai esistita nessuna Michiru strana,
nessun
urlo da contenere dentro il petto, nessun padre che aveva smesso di
aspettarsi che lei diventasse magicamente una persona diversa.
Lì dentro
cosa c'era? si era chiesta nelle prime ore in cui
si era trovata in collegio, dopo aver tenuto lo sguardo basso con tutti
coloro che aveva incontrato.
Michiru,
aveva sussurrato una coscienza ignota dentro di lei.
In quel luogo, in quel nuovo inizio, lei era stata solo Michiru. La
Michiru che desiderava essere, che poteva plasmare a suo piacimento,
ora che
ne aveva la forza.
Per farsi coraggio e salutare ogni ricordo di Kyochi, aveva cercato di
dire addio anche alla vecchia se stessa, agli scatti d'ira che ancora
si era lasciata sfuggire occasionalmente, a ogni incertezza.
Nella sua nuova vita aveva portato con sé il violino e la
propria mano, per dipingere.
Un caro ricordo d'affetto era permesso a tutti, si era detta.
E, quando aveva incontrato gli occhi della sua prima compagna di
classe, le aveva comunicato che lei era immensa.
Michiru la grande, l'imbattibile. Bella, brava e calma.
La migliore.
Senza amiche.
Aveva trascorso il primo anno a costruire la propria pelle in
solitudine, ad
accertarsi di avere sempre e comunque il controllo di sé.
Era il mare, per allora lo aveva ormai compreso. Era il mare il suo
demonio e la sua gioia.
Non sopportava le tempeste che arrivavano dal mare e non le piacevano
neppure le cascate - quando erano andate in gita a vederne una, era
dovuta scappare a nascondersi per riuscire a non urlare.
Se il mare era destinato a controllarla per tutta la sua vita, se
lei doveva realmente esserne preda senza possibilità di
scampo,
allora avrebbe controllato la Michiru del Mare, la folle che
minacciava di gridare sempre al mondo la propria presunta furia e
potenza.
Sarebbe stata la Michiru del mare di Kyochi, quella che era calma come
il sussurro delle onde che andavano a riposare sulla sabbia.
Sono Michiru, si diceva, mentre imparava a sorridere con
dolcezza agli
altri e scopriva che vi era bellezza nell'essere gradita alla gente.
Michiru, la sorgente della propria pace.
"Ti ammiro così tanto" le aveva detto un giorno una sua
compagna di classe, sigillando la sua vittoria.
Prendendo coraggio un'altra ragazzina si era avvicinata a sua volta.
"Sì. I tuoi disegni sono meravigliosi. Come fai?"
Le pennellate d'azzurro e verde, colori della serenità,
erano una conquista. Questo avrebbe voluto dire loro, per spiegare che
non vi erano personaggi meravigliosi usciti dalle favole, anche se loro
aveva cominciato a guardarla come se lei facesse parte di uno di quei
racconti.
Se n'era rimasta in silenzio, a lasciare a loro le illusioni
che desideravano e a riempirsi lei stessa della nuova
identità che nessuno le avrebbe più portato via.
Quella nuova identità che non era nuova e non era estranea.
Quella era Michiru, la vera Michiru che aveva sempre cercato di vincere
sull'altra.
Piano piano si era riavvicinata con più sicurezza anche ai
bacini d'acqua.
C'era stato un anno in cui, pur di non andare in montagna con le altre,
si era fatta venire apposta la febbre. L'anno successivo aveva preso
coraggio e non aveva più avuto paura del torrente che
scorreva accanto all'amena località di villeggiatura.
Un pomeriggio, allontanandosi dalle sue compagne, era andata apposta ad
osservarlo. Aveva sentito l'energia delle acque fredde scorrere dentro
di sé, mentre si dirigevano a valle, a ricongiungersi al
mare da cui provenivano.
Non aveva più permesso loro di turbarla e comandarla e,
straordinariamente, aveva percepito una loro prima e timida obbedienza.
Era stato solo l'inizio.
"Voglio una scuola normale" aveva detto all'avvocato di suo nonno,
quando lui era venuto a comunicarle che era appena diventata l'unica
erede dei cospicui averi dell'unico parente che le era rimasto fino a
qualche giorno prima.
L'avvocato era stato nominato suo tutore ed era venuto a trovarla per
capire che tipo di bisogni lei potesse avere.
Era bastata a entrambi un'unica conversazione per comprendere che lei
non aveva alcun bisogno o desiderio diverso da quello di stare da sola
e fare esattamente ciò che voleva.
L'avvocato Kobiyama aveva comunque preso le proprie precauzioni. Le
aveva comprato un appartamento in uno stabile in cui conosceva un
inquilino - un'ex-fidanzata, a quanto aveva capito Michiru -
così come l'uomo
che lavorava alla portineria. Aveva convissuto con lei per una
settimana, solo per accertarsi di non avere a che fare con una bambina
che non sapeva nemmeno prepararsi un pranzo. Le lezioni di economia
domestica del collegio erano state ottime e l'avvocato era potuto
tornare con suo gran sollievo dalla propria famiglia, sviata per sette
giorni con una scusa: non aveva mai detto a sua moglie di aver
accettato la custodia legale di una minorenne sconosciuta.
La ragione erano i soldi, ovviamente, e Michiru era stata grata al suo
defunto nonno per quell'accorgimento.
In quale altro modo avrebbe potuto essere affidata ad un adulto che non
voleva costringerla a vivere con lui o lei?
L'avvocato aveva paventato - con suo gran terrore - la
possibilità di portarla a vivere a casa sua, ma Michiru non
gli aveva dato motivo per ricorrere a quella soluzione estrema.
E così si erano salutati pochi giorni dopo, con la promessa
che per guai grossi lo avrebbe chiamato; ad un numero telefonico
diverso da quello della sua abitazione, naturalmente. C'erano sempre
Ritsuko-san
e Kayomi-san
per lei, le aveva assicurato. L'avvocato aveva avuto una coscienza e le
aveva promesso che, se si fosse trovata davvero male da sola, avrebbe
potuto venire a stare con la sua famiglia.
Con un aggraziato inchino, Michiru lo aveva invitato a prendere la
porta.
Quindici anni, una scuola nuova - una scuola vera, pubblica, con
ragazzi e ragazze - e una casa tutta sua.
Per la terza volta, una nuova Michiru.
Una sorgente non più di sola pace, ma di un po' di allegria.
Non aveva avuto più motivo di essere arrabbiata col mondo e
nemmeno col mare - non tanto, almeno. Egli non si era quietato, ma
aveva ridotto il suo tormento ad un braccio di ferro sempre in stallo,
una situazione che le permetteva di distrarsi continuamente,
considerato quanto era avvezza allo sforzo.
Aveva imparato a essergli grata, a modo suo. Possedeva una forza
d'animo straordinaria grazie a lui e in futuro l'avrebbe utilizzata a
proprio vantaggio. Non avrebbe mai potuto diventare la Michiru che era,
senza il mare.
Tokyo era natura addomesticata, benché l'oceano fosse ad un
passo da lei. L'uomo aveva piegato il territorio, invadendolo con
strade e case.
A Tokyo, lei non avrebbe più avuto bisogno di tentare di
piegare il mare. Avrebbe cercato di convivere con lui in mezzo ad altri
uomini e donne, per essere come tutti loro, normale ma sempre speciale
nella propria unicità.
Oh, e aveva di nuovo una vasca. Quale migliore modo di fare pace con
l'acqua che non tanti bei bagni caldi pieni di schiuma?
Lo sai cosa sei, Michiru?
Calma bella brava violinista pittrice figliadiKyochi forte indipendente
simpatica altera elegante brava bella calma.
Non solo tutto questo, le precisò un anno dopo una voce, nel
primo di una serie di incubi orrendi.
Lo sai cosa sei, Michiru?
La fissarono due occhi blu profondi, la guardò in faccia la
Michiru del Mare folle e scatenato, con un gioiello sulla fronte che
nel buio brillò di potenza oceanica.
Sei questo!
le urlò, facendola svegliare in un bagno di sudore.
Una settimana dopo nacque per la quarta volta, per diventare realmente
un unico essere con se stessa.
Non fu la trasformazione a cambiarla, non fu il costume a darle una
nuova identità.
Fu il maremoto, quello che fece partire dalle mani con un pensiero.
Fu una bolla di luce in cui concentrò la potenza del mare
odiato e amato, in cui focalizzò la rabbia di anni e tutta
la forza che era nata
per sprigionare.
Michiru,
sorgente. Sorgente di Nettuno, signore del mare. Kaiou.
Sollevò le braccia, i palmi a coppa, sopra la testa.
Non preda del mare,
si sussurrò, mentre le onde lottavano tra le sue mani.
No, lei era Sailor Neptune, lo era sempre stata.
Urlò, col pieno controllo di sé, per colpire.
E fu il mare ad essere la sua preda.
FINE
NdA -
Un giorno di diversi mesi fa, mentre scrivevo la mia
storia principale su Sailor Moon, ho fatto entrare in scena anche
Haruka e Michiru. Parlando di sé - anche se è
più o meno la stessa interpretazione che ho dato di Haruka -
Michiru pensava le poche righe che ho scritto all'inizio di questa
storia. Stavo cercando un'interpretazione del personaggio che potesse
essere un po' originale o comunque personale.
Da un po' gioco con l'idea di parlare dell'inizio del rapporto tra
Haruka e Michiru, sempre con riferimento a ciò che
è accaduto nel cartone animato, ma per ora mi limito a
questa one-shot, un mio studio sul personaggio che spero risulti
attinente alla Michiru originale, nonostante le stranezze che ci ho
inserito.
Il nome Kyochi per il padre di lei l'ho inventato io. Non conosco
nemmeno la sua storia familiare, non so se vi siano in giro versioni
ufficiali. Ho inventato tutto di sana pianta ;)
Se avete commenti sulla storia, sarò molto felice di
sentirli, di qualunque tipo siano.
ellephedre
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