Un oscuro angelo_1
[
Prima classificata al contest «Competition
for long-fic published»
indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]
Titolo: Labhair
dorchadais aingeal ris
Autore: My
Pride
Fandom: Originali
› Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: Long
fiction [ 5 capitoli ]
Genere: Romantico
(Dipende moltissimo dai punti di vista e dall’idea di
romantico),
Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Slash,
Probabilmente Non per
stomaci delicati, Lime
Nota1: Nel
corso della storia potrebbero essere presenti espressioni
come “Aye” e “Nay”, che
significano rispettivamente “Sì” e
“No” in italiano, e
“Och”, che è un rafforzativo del
“Sì”. Esse non sono un errore,
bensì una
scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale
dicitura. Tenendo
inoltre conto del luogo e dell'anno in cui la storia è
ambientata, esse
sono un’ottima
scelta linguistica, proprio come lo stile utilizzato.
Nota2: Le
immagini presenti e
con cui si apre la storia sono tratte dalle doujinshi da cui prendono
spunto i titoli, tutti spiegati accuratamente in ogni nota presente nei
capitoli successivi
Nota3: Gli
incipit con cui si aprono i capitoli sono di mia esclusiva creazione,
dunque i credits vanno a me medesima
Introduzione:
In ginocchio su quella strada
lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la
pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di
lacrime.
Non di nuovo,
pensò angustiato, non
di nuovo, per l’amor del Cielo.
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
This
work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
LABHAIR
DORCHADAIS AINGEAL RIS [1]
ATTO I: INVERNESS
› SCOZIA, 1888
GRACEFUL DEGRADATION [2]
Rigoglioso
germoglia
il
frutto del mutamento,
perdendosi tra i flutti
d’antiche
memorie.
La
pioggia autunnale cadeva fitta ormai da parecchie ore, abbattendosi sui
mille
colori della brughiera mentre vorticava nel vento che si innalzava da
essa.
In
quell’antica
magione, s’udivano suoni
cupi ogni qual volta uno spiffero
d’aria
s’insinuava nei cunicoli,
disturbando la solitaria figura accomodata su una
poltrona accanto al caminetto; con distratta
svogliatezza, osservava
il whisky
dorato che lambiva il bordo del bicchiere in cui era contenuto, con il
palmo
d’una mano poggiato sulla copertina consunta d’un
libro che aveva abbandonato
sulle cosce, entrambe nascoste dal pesante tessuto in tartan che usava
per riscaldarsi.
L’uomo
sospirò pesantemente e accostò il cristallo alla
bocca, bevendo giusto un sorso
prima di
storcere il naso mentre lo sguardo si perdeva fra le fiamme che
scoppiettavano
allegre nel camino. Il piacevole calore che trasmettevano si disperdeva
con il
lieve venticello e con qualche goccia di pioggia che entrava nel
salotto,
simbolo
che una delle grandi vetrate era
stata
lasciata socchiusa; notò difatti le tende danzare
in quella
brezza, simili a oscuri fantasmi che si perdevano
nella
penombra circostante e che creavano, come le pieghe dei più
pregiati abiti
d’una dama, invisibili archi rigonfiandosi sul davanti, quasi
fossero l’enorme
ventre d’una bestia famelica.
Non si scomodò,
però, per
andare a
chiudere la porta-finestra, abbandonando semplicemente il bicchiere per
immergersi ancora una volta nella propria lettura. Gli occhiali che
indossava erano
in bilico sul naso, ma parve non prestarvi poi molta attenzione;
se li
alzò appena con l’indice della mano destra,
ascoltando il dolce sottofondo che
la pioggia creava per lui e pochi altri che, in quel maniero, potevano
sentirla.
Dai piani inferiori, gli giungevano alle orecchie i suoni
delle vettovaglie e i richiami di qualche capo cuoco,
intento a
dar direttive alla restante servitù. Mancava poco
all’ora di cena e, poco prima
che venisse servita a tavola, uno dei suoi domestici sarebbe salito a
chiamarlo
per scortarlo nella grande sala da pranzo, ne era certo.
Voltò pagina e si ravvivò dietro
alle orecchie qualche ciuffo di capelli scuri, castigati in una lunga
coda che
gli ricadeva morbidamente sulla spalla opposta a quella nascosta dallo
scialle.
Sbadigliando, accavallò con disinvoltura le gambe, vedendo,
con la coda
dell’occhio, il barlume d’un lampo lontano solcare
il cielo.
Lo sciabordio della pioggia
divenne
più fitto e scrosciante, picchiettando insistentemente
contro i vetri di
tutta la magione. Quando minacciò d’inondare il
pavimento del salone, l'uomo si alzò, lasciando il libro
e gli occhiali
sul tavolino, proprio accanto al bicchiere mezzo pieno. Non fece caso
alla
coperta in tartan che cadde in terra, avviandosi verso il balcone senza
fretta, dove scostò le tende e si innamorò di
quella vista spettacolare e terribile al tempo stesso. Ogni
chioma,
ramo o cespuglio era sferzata dal vento che soffiava furente, mentre le
goccioline d’acqua mulinavano in una danza infinita insieme
alle
foglie che si
staccavano dagli alberi; la visibilità non era né
scarsa
né ottima, ma si riuscivano
vagamente a scorgere le luci delle lanterne della città
lontana. Carrozze
cercavano di risalire le stradine scoscese e fangose, tutte simili a
piccole
formiche che si muovevano laboriose.
Per qualche minuto, la figura
si
concentrò su quel trionfo di suoni e cupi colori,
perdendosi a sua volta
in esso. Gli sembrava che fossero passati anni da quando si era
ritrovato ad
osservare, con una tranquillità che non avrebbe mai
creduto possibile, la
bellezza terrificante della natura: il rombare dei tuoni, il sibilo
sferzante del vento tra gli anfratti e i cunicoli, le folgori
che
squarciavano la volta oscura del cielo; tutto ciò gli
riportava alla mente un
solo ed unico istante, vecchie memorie e
rimembranze d’un ragazzo
che ancora non sapeva nulla della vera vita e delle crudeltà
che essa aveva in
serbo continuamente.
Un sorriso amaro gli si
disegnò
sulle labbra sottili, poi chiuse la vetrata del balcone con lo sguardo
ancora perso nel vuoto.
Un suono
dietro di sé richiamò la sua totale
attenzione, facendolo voltare, anche se
di poco, verso la soglia del soggiorno. Proprio lì,
immobile, si trovava un
ragazzo dalla capigliatura mora che, in silenzio, l’osservava
con i suoi occhi
profondi e azzurri, come se attendesse un suo consenso per qualsiasi
cosa. Fu
difatti con esitazione che fece qualche passo avanti, entrando
completamente
nella stanza solo quando gli venne fatto appena un cenno con la testa.
Indossava il suo stesso vestiario, ma con una o più
varianti: non portava con
sé lo sporran [3],
né
tanto meno portava drappeggiato sulla spalla il suo solito scialle,
facendo sì
che la bianca camicia non fosse nascosta alla vista. Il kilt [4],
tenuto fermo da una cintura borchiata dalle rifiniture in argento, era
invece
in tinta unica, privo dei ricchi ornamenti e senza i colori che
indicavano
l’appartenenza del ragazzo a quel nobile e antico casato.
Proprio lui si stava
tormentando le mani, quasi avesse timore di parlare. Anche la vena
pulsante del
collo, che l’altro osservava con velato interesse dal punto
in cui si trovava,
sembrava dare la stessa identica impressione. «Vi stiamo
attendendo
per la cena, m’Athair [5]»,
disse sottovoce, il tono simile al pigolio d’un pulcino
abbandonato nel nido.
Le iridi
dell’altro, gelide e austere, lo fissarono attento e gli
fecero
correre un brivido lungo la schiena; gli venne quasi spontaneo chinare
il capo
e indietreggiare, come se la sua sola presenza potesse irritare il
possessore
di quegli occhi che continuavano ad osservarlo in silenzio. A malapena
sentì i
passi leggeri che aveva compiuto per avanzare verso di lui,
accorgendosi della
sua vicinanza solo quando una gelida mano gli sfiorò appena
il viso. Tremò
senza poterne fare a meno, socchiudendo le palpebre. Ma non gli
sfuggì
l’esitazione che si impadronì subito dopo di
quell’arto, allontanato dal suo
proprietario che parve quasi sospirare sebbene non avesse emesso alcun
suono.
«Vi raggiungerò fra poco, Jason»,
rispose
infine, semplicemente, voltandosi ancora una
volta verso il balcone come se nella stanza fosse solo.
Senza aggiungere altro, il
ragazzo si
congedò frettolosamente, ritrovandosi in poco nel corridoio
freddo e
parzialmente illuminato. Si gettò giusto uno sguardo alle
spalle, quasi temesse
d’esser seguito. Fu deglutendo che tornò a
guardare avanti, massaggiandosi le
braccia per riscaldarsi come poteva. Ormai da un paio d’anni,
l’uomo che aveva
considerato alla stregua d’un padre non era più
colui che aveva conosciuto ed
imparato ad amare.
Ricordava bene il giorno in cui
l’aveva
preso con sé,
allontanandolo da Londra per portarlo in quel vecchio maniero ai
limitari di
Inverness; quel giorno, per lui, era stato come ricominciare a vivere.
Senza
casa e senza famiglia, si era rassegnato a quella vita passando da
orfanotrofio
ad orfanotrofio. Un’infanzia infelice e grama, per un bambino
di appena sei
anni. E poi era arrivato, inaspettatamente, quel giovane uomo che
l’aveva
accolto e trattato come un figlio dato che non avrebbe potuto mai
averne,
nemmeno risposandosi. Da quel momento aveva imparato a sorridere
davvero, ad
amare ogni singola cosa del mondo circostante: si divertiva ad andare a
caccia
con lui durante la stagione della lepre, lo ascoltava attentamente
quando gli
narrava imprese eroiche o gesta d’uomini che erano passati
alla storia; tutte
piccole cose che assimilava e apprendeva, beandosi del calore e dei
sorrisi
sereni che riscontrava nel suo volto e in quello della
servitù. Ma, come ogni
cosa bella, non poté durare. Fu durante la sua
quattordicesima estate, poco più
di tre o quattro anni addietro, che le cose cominciarono radicalmente a
cambiare. Le mattinate o i pomeriggi passati insieme si ridussero a non
più di
qualche ora, così come le gran feste di gala a cui, di tanto
in tanto, amavano
partecipare per conoscere uomini di culto e gente nuova che si riuniva
ogni
anno prima dell’inverno. Il suo tutore passava infinite
giornate chiuso nel suo
studio, ordinando ai domestici di non disturbarlo assolutamente se non
necessario. Ne usciva solo quando era ormai sera tarda, cenando
velocemente in
sua compagnia prima di lasciarlo nuovamente solo e tornare a
rinchiudersi in
quella stanza che era ormai divenuta il suo mondo.
Tutto ciò era
cominciato dopo un
incontro di lavoro, quando un uomo dall’aspetto giovane e
aristocratico aveva
fatto loro visita in quell’antica dimora. S’era
presentato come un annoso amico
di famiglia - sebbene non dimostrasse più di ventidue anni
-, affermando
d’esser lì per riscuotere un vecchio debito. Dopo
varie ore passate fra una
chiacchiera e l’altra, s’era scoperto che tale
giovane aveva conosciuto il
padre dell’attuale padrone di casa, anche se la cosa
risultava quasi
impossibile. Fatto stava che, da quando era comparso quel giovane nelle
loro
vite, nulla era rimasto più come un tempo. Il ragazzo vedeva
il padre adottivo
passare svariate ore in compagnia di quel misterioso ospite, rivolgendo
unicamente a lui le sue attenzioni o i suoi sorrisi. E tutto
ciò avveniva senza
che si capacitasse del perché. Nemmeno i domestici, che lo
conoscevano sin da
quando era bambino, riuscivano a spiegarsi questo repentino
cambiamento. Giorno
dopo giorno, anno dopo anno, il loro signore diveniva sempre
più pallido e
stanco, sebbene conservasse quello sguardo fiero e quei lineamenti
decisi che
l’avevano sempre caratterizzato. Avevano sperato che, con il
passar del tempo,
tutto sarebbe tornato come una volta, ma tutt’ora
quegl’incontri non erano
affatto diminuiti; non passava un mese o un mese e mezzo senza che
quell’uomo
venisse a far loro visita. Ed era quasi giunto il giorno del suo
arrivo. Forse
era per tale motivo che, al ragazzo, il tutore appariva più
distaccato e
lontano.
A sguardo chino, il giovane
discese le scale che
lo separavano dai piani inferiori, attraversando quel vasto disimpegno
mentre
gli sembrava di sentire su di sé lo sguardo degli uomini
raffigurati nei quadri
lì presenti. Deglutì ancora, adocchiandone uno di
sfuggita; mai
come quella notte, forse a causa del temporale che stava avendo luogo,
quegli
occhi obliqui - così simili a quelli del padre adottivo -
gli sembravano freddi
e saccenti, quasi dotati di vita propria. Aumentando il passo,
stornò lo
sguardo, concentrando l’attenzione
solo e unicamente sulla
strada che stava percorrendo. Alle orecchie gli giungevano, lievi, gli
ultimi
preparativi dei domestici, affaccendati a mettere in tavola calici e
posate.
Arrivato alla grande sala, vide uno di loro riempire il bicchiere che
un
uomo
già accomodato gli stava porgendo, prima di chinare il capo
e dileguarsi alla
volta delle cucine.
Il ragazzo
s’avvicinò al tavolo e
salutò con un cenno del capo, vedendo suo zio Seamus alzare
lo
sguardo dal
giornale che aveva dinanzi per puntarlo su di lui. Sembrò
squadrarlo,
forse saggiando il suo vestiario. «Quanto ci farà
attendere, stavolta?»,
domandò, quasi disinteressato, lasciando su una piccola
catasta d’altri
giornali quello che stava studiando per allungare una mano verso il
calice. Non
bevve, osservando solo il vino oscillare al suo interno.
Con un sospiro, Jason si
sedette
a sua volta, poggiando le mani sulla tovaglia che nascondeva il
pregiato legno
d’ebano nel quale la tavola era intagliata. Senza guardare il
suo
interlocutore, sebbene fosse conscio della sgarbatezza, si
concentrò solo sui
movimenti dei domestici che vedeva di tanto in tanto. «Non lo
so, nobile zio»,
rispose in un mormorio mesto, alzando lo sguardo per osservarlo.
L’uomo si carezzò i
baffi curati con
fare pensoso, prima di portarsi il bicchiere alle labbra e bere un
sorso; lanciò un’occhiata
al giovane e soppesò ancora una volta il suo abbigliamento,
poggiando una mano sui giornali posti a lato del tavolo
prima di
togliersi gli occhiali che indossava. «Come mai ti sei
cambiato d’abito?», gli
porse un altro quesito - forse per cambiare argomento -, attento a
nascondere i
titoli che svettavano con inchiostro nero.
Il giovane si strinse
nelle spalle, sistemandosi la camicia.
«M’Athair preferisce che applichi
le vecchie usanze almeno in casa, nobile zio. Dovresti
saperlo», rispose con
semplicità, voltando appena lo sguardo quando
sentì l’avvicinarsi d’una cameriera
che portava con sé i primi piatti. Li poggiò in
tavola rivolgendo ad entrambi
un cenno formale del capo, allontanandosi mentre un’altra
donna portava le
restanti porzioni.
Nuovamente soli, Seaums
fissò il nipote. «Come
sta?», chiese, lasciando trapelare dalla voce la
preoccupazione che cresceva, in modo viscerale, dentro di lui. Era da
oltre un anno che
lasciava la
tenuta che possedeva a Londra per passare uno o due mesi in loro
compagnia,
forse per tener sotto controllo le instabili condizioni del padrone
che, di
tanto in tanto - nonostante i suoi domestici l’implorassero
più volte di non
muoversi, preoccupati per la sua salute -, si recava a sua volta in
quella zona
per chissà quali affari di lavoro. Come tutti in quella
casa, anche lui
conosceva il padrone sin da quando erano entrambi bambini; avevano
passato
insieme già i primi anni della loro infanzia, divenendo nel
corso del tempo più
simili a due fratelli che a degli amici. Crescendo, poi, il loro
rapporto si
era consolidato. Sebbene a quel tempo - e tuttora, c’era da
aggiungere -
abitassero lontani l’uno dall’altro, si scrivevano
molto spesso, quasi
suscitando l’ilarità, ma anche la gioia, dei loro
genitori. Il rivedersi
durante eventi mondani o cene di famiglia erano i momenti che
più attendevano;
dopo cena salivano nelle stanze ai piani superiori e, proprio come
fratelli, si
raccontavano ogni cosa, tenendosi informati su tutto. Avevano condiviso
pianti,
risate. Giorni felici ormai divenuti un ricordo sbiadito. Perso
com’era nei
suoi tristi pensieri, quasi non sentì la risposta del
ragazzo, scusandosi
immediatamente per la sua distrazione.
«Sta come tutti gli
altri giorni»,
ripeté paziente lui, rigirandosi una posata fra le dita.
«A volte mangia, altre
no... sembra che nemmeno gli interessi il fatto che salta i
pasti». Aveva
tenuto gli occhi azzurri bassi, senza avere il coraggio di incontrare
lo
sguardo dell’uomo. Il solo trovarsi lì, per lui,
equivaleva a dare allo zio
spiegazioni che avrebbe preferito fossero rimaste sepolte. La sua
attenzione
cadde, per chissà quale motivo, sui giornali che proprio lo
zio cercava di
tener nascosti come poteva. «Li hai
portati da Londra o da Inverness, nobile zio?», fu il suo
turno di chiedere e
cambiare argomento, alzando finalmente lo sguardo sul volto intristito
di lui.
Quando lo zio era arrivato, poco più di qualche ora prima,
il ragazzo non aveva
fatto poi tanto caso a ciò che aveva con sé.
S’era semplicemente soffermato
sulla valigia, non potendo chiedergli nulla dato che era stato
accompagnato dai
domestici nelle sue stanze. Ma adesso che aveva trovato un pretesto per
distrarsi, la curiosità e il sapere avevano sostituito per
poco la solita
maschera preoccupata che indossava da anni.
Seamus, seppur colto
un po’ alla sprovvista dal quesito, si limitò ad
annuire, cercando comunque di
occultare i titoli. «Purtroppo sono tutte cattive notizie,
Jason», gli rispose
con voce spenta, prendendo la catasta di giornali per poggiarsela sulle
gambe.
Così facendo evitò al ragazzo di leggere anche
per sbaglio, ma gli fece
corrugare le fini sopracciglia scure dall’angoscia.
«Quali cattive
notizie?», chiese
immediatamente, insistente.
Lì, ai limitari del nulla, non
avevano i mezzi per tenersi informati su ciò che accadeva
nel mondo. Era raro
che i loro domestici, quando lasciavano il maniero per rifornire le
dispense e
dirigersi ad Inverness, pensassero a comprare un giornale o a chiedere
qualcosa
alla popolazione. Le notizie, quindi, riusciva ad
assimilarle solo
quando, come in quel momento, era lo zio a pensare a ciò.
Ancora una volta,
però, l’uomo
scosse la testa; non sembrava intenzionato a parlarne.
«È una faccenda molto
delicata», asserì con una nota flebile e accorata,
decidendo infine di
cominciare a mangiare.
«Ed è
per questo che te lo
chiedo», rimbeccò Jason, senza darsi per vinto.
Gli occhi azzurri
scintillavano
di preoccupazione e, allo stesso tempo, di voglia di sapere. Ci
impiegò tutta
la sua forza di volontà per riuscire a far cedere
l’uomo. Nonostante
continuasse a ripetere che non era il caso di venire a conoscenza di
tali
fatti, lui insisteva il più possibile, forse comportandosi
come un bambino
capriccioso. Quando infine, probabilmente esasperato, glielo disse
lasciandogli
uno dei giornali, il ragazzo si limitò ad osservare il
titolo, scioccato.
Si sentiva le labbra secche, e dovette umettarle più volte e
deglutire prima di
riuscire a parlare con un po’ di disinvoltura. «Un
assassino?», domandò con voce
spezzata, come se si fosse dimenticato della crudeltà che
imperversava nel
mondo. Nell’agio e nella felicità di quella sua
esistenza, divenuta da troppo,
ormai, un suo sogno dorato, aveva lasciato al di fuori di tutto
ciò la vita
vera, ritrovandosi poi sbattuto con forza contro tale terrificante
realtà, come
un naufrago in balia delle onde.
«Lo chiamano Jack
lo squartatore
[6]»,
rispose suo zio, interrompendo il flusso
disarticolato dei suoi
pensieri. «Ironico
quanta malvagità possa risiedere in un solo uomo, vero?
Alcuni
dicono che sia opera del Diavolo, altri pensano che siano riti pagani
tornati agli albori... io credo che sia solo uno psicopatico che ha
trovato il modo di far parlare di sé. Persino
Scotland Yard non ha nessuna pista e sta ancora
investigando».
Il ragazzo ci mise un po' per
riprendersi, sentendo la gola quasi impastata.
«È... una
cosa terribile», riuscì a dire con voce incrinata,
senza aggiungere altro. Rilesse più volte
quel paragrafo,
rendendosi sempre più conto della verità dei
fatti. Eppure, sebbene la sua
mente avesse ormai immagazzinato quelle informazioni, il suo cuore
ancora si
rifiutava di crederci. Chi poteva mai essere così folle da
ammazzare a quel
modo delle persone? Erano delle prostitute, certo, ma non per questo si
erano
meritate quella fine. Cosa poteva mai spingere un altro essere umano ad
agire
contro natura?
Immerso com’era nei suoi pensieri,
Jason sussultò quando sentì la mano dello zio
posarsi sulla sua spalla,
accorgendosi solo in un secondo momento che si era ripreso il giornale.
Sconvolto com’era dall’aver appreso quella notizia,
aveva quasi estraniato il
mondo circostante.
«Non farne parola con tuo
padre», gli raccomandò, con una
lieve inclinazione preoccupata nel tono di solito composto della sua
voce.
«Tali notizie non giovano alla sua salute».
Jason annuì
automaticamente, a sguardo chino. «Non
l’avrei fatto di sicuro, nobile zio», lo
rassicurò, fissando con poca convinzione il cibo ancora
presente nel piatto
mentre sentiva l’altro tornare al suo posto.
Cincischiò con la forchetta senza
portarsi nulla alla bocca, versandosi del vino in un calice ma senza
prenderlo
per bere. Sembrava semplicemente che facesse quei piccoli gesti solo
per
distrarsi. Gli unici suoni che si sentivano erano i loro respiri e
l’insistente
ticchettio della pioggia sui vetri o, a volte, qualche scricchiolio del
vecchio
maniero. «Nobile zio», lo chiamò
d’un tratto il ragazzo, quasi insicuro,
abbandonando per l’ennesima volta la posata nel piatto. Ma
non continuò finché
gli occhi marroni non si puntarono su di lui, attente. «Cosa
ne pensi
dell’omicidio?» chiese a bruciapelo, vedendo il suo
interlocutore dilatare gli
occhi, come se non avesse intuito il perché di tale domanda.
Prima che potesse anche solo
provare
a rispondere, tuttavia, fu un suono proveniente dal vano della porta a
richiamare l’attenzione d’entrambi.
«Gradirei che non si parlasse di tali cose,
alla mia tavola», esordì il padrone di casa,
appena giunto nella sala da
pranzo. Aveva sciolto i lunghi capelli d’ebano, creando
così un forte contrasto
sulla bianca camicia bordata e sul pallido viso.
Entrò e
ignorò i loro sguardi e la
loro palese sorpresa, forse perché, proprio a causa di quel
suo presenziare o
alla luce più forte lì presente, il pallido
colore del viso risaltava ancor di
più. Quasi con eleganza prese posto a capotavola, facendo
vagare i suoi occhi
cerulei sull’abbondante cena prima di scoccare veloci
occhiate ad entrambi. Con
altrettanta grazia agitò piano una mano, come ad invitarli a
consumare la loro
cena. «Mangiate, mangiate. Non preoccupatevi»,
disse in tono
ammaliante.
E, quando incurvò le labbra in un
piacevole sorriso, gli altri due commensali non seppero spiegare la
provenienza
del brivido che sentirono all’unisono, legato probabilmente
anche al tono con
cui il padrone di casa pronunciò ben altre parole.
«La notte è ancora lunga».
[1]
Letteralmente
significa “Un oscuro angelo
parlò a lui” ed è gaelico scozzese.
[2]
Titolo
di una
doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 19 marzo del 2006.
Indica la degradazione a cui il protagonista principale va
incontro, sebbene al principio lui non sembri pensarla esattamente in
questo
modo.
[3]
Borsetta
che si indossa sopra il kilt. Realizzato in pelle o pelliccia,
l’ornamentazione del sporran è determinato dalla
formalità del vestito
indossato con esso. Viene indossato su un cinturino
in pelle o a catena, convenzionalmente
posizionato di fronte all’inguine
di chi lo indossa.
Poiché il kilt non
ha tasche, lo sporran funge da raccoglitore e contenitore per tutti gli
oggetti personali.
[4]
Indumento
maschile scozzese,
composto da tessuto in tartan indossato insieme ad uno sporran (la
borsetta di
cuoio posta sul davanti) e portato senza nulla sotto.
Anticamente veniva confezionato con un pezzo di stoffa molto
lungo, così da poter essere assicurato alla spalla con una
spilla dopo averlo
legato intorno alla vita, dando la sensazione voluminosa che richiamava
quasi i
drappi.
In tempi non molto lontani era disprezzato da chi
considerava gli Highlanders dei selvaggi, chiamati con
l’appellativo
dispregiativo “redshanks” a causa del colorito
paonazzo che assumevano a causa
del clima e delle condizioni atmosferiche alle quali erano esposti.
[5]
Padre
mio, gaelico
scozzese.
Abbreviazione ottenuta dal pronome possessivo “Mo”
(Mio)
dinnanzi alla vocale di “Athair” (Padre)
[6]
Serial
Killer
che, durante l’autunno del 1888 (Anno in cui la storia si
svolge, quindi),
commetteva omicidi nel quartiere di Whitechapel e negli adiacenti
distretti.
Prendeva di mira solo le prostitute, seguendo sempre lo
stesso modus operandi; le sgozzava e le sventrava, abbandonandole a
“opera”
conclusa.
Alla polizia e ai giornali, durante quel periodo, arrivavano
migliaia di lettere che riguardavano il caso, dov’erano molte
le persone che
cercavano di fornire informazioni sul serial killer, sebbene la maggior
parte
di tali testimonianze fossero considerate abbastanza inutili.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.
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