Anima di ghiaccio
Capitolo primo: Fredda indifferenza.
“Un
anima…?Non so se ne sono mai stato in possesso…
In realtà, non credo
di sapere nemmeno cosa sia con certezza. E poi… si può
possedere un anima?
Non è nulla di
tangibile, è un essenza. Qualcosa in grado di
racchiudere sentimenti e emozioni, di camuffare
piaceri e gioie in dilemmi e preoccupazioni, qualcosa di incerto e
paradossalmente potente nella sua debole entità, o almeno, abbastanza per
annientare la mente di qualunque essere.
Maggiormente
se si tratta di un umano; l’essere più debole. Individuo sciocco, insulso, che si aggrappa a questa nebulosa e
sfocata coscienza di se, annebbia i propri sensi nell’oblio che essa concede e
abbandona il senno della propria mente per perseguire la fittizia strada che si
snoda dalle inutili e false sensazioni che agli uomini piace chiamare: ‘emozioni’.
È una sciocchezza.
Solo una sciocchezza.
Una
stolta invenzione di cui mi è impossibile sentire la mancanza.
Non ne ho bisogno.
La tua, dunque, è una
domanda stupida.
Non ho bisogno di
nessun intralcio simile, non ho bisogno
di nessun anima.”
*
Pioveva, come sempre del resto. Tra i suoi ricordi le
giornate di sole erano rare e sbiadite, almeno come lo erano quelle da lui
vissute in quegli anni cupi e gelidi. Probabilmente era inverno; ricordava un
freddo pungente avvolgerlo e derubarlo di ogni
pensiero. Ne era grato poiché stava piangendo e voleva
dimenticarne il motivo che lo spingeva insistentemente a farlo, per porre fine
a quell’azione ridicola, che odiava terribilmente.
Aveva sei anni, forse prossimo a compierne sette, orgoglioso e testardo come un uomo adulto, era lì,
rintanato, nascosto sotto il pino mediterraneo, che resisteva con prepotenza
alle temperature del nord Europa almeno quanto lui stava cercando di respingere
le lacrime, premendo con forza le piccole mani sugli occhi nascosti dai capelli
lievemente lunghi.
L’imponente albero era affiancato da un
altalena vecchia e arrugginita, decadente come lo era l’edificio di
fronte ad essa, inerpicato su una lieve collina, spoglio e grigio come il
cielo. Le imposte delle finestre, scrostate e rotte, cigolavano
accompagnate dal vento, cantando una lenta nenia, triste e dolorosa,
mescolandosi con il rumore della pioggia che cadeva.
Disturbato da quella leggera brezza che spostò sul terreno le foglie bagnate,
lasciate sparse qui e là del trascorso autunno, alzò lo sguardo verso
l’entrata.
Rivoli di lacrime rigavano ancora il suo volto dolcissimo,
candido, che accoglieva un paio di grandi occhi velati leggermente d’acqua ma
pur sempre profondamente assorti nel nero più intenso, come i capelli d’ebano
che scendevano fin sopra le delicate guance. Tirò su con il naso, reprimendo un
singhiozzo.
Soffermò lo sguardo sulla scritta, ormai praticamente
illeggibile, che compariva appena sopra il portone d’ingresso. Le lettere si
susseguivano sulla parete crepata e formavano le parole: orfanotrofio regionale. Con un espressione
di rammarico e tristezza rituffò la testa tra le braccia e altre lacrime
cominciarono a scendere sul viso.
Dannazione! Tutti lo odiavano, lo scansavano, lo guardavano
con disprezzo, con superiorità. Gli altri bambini si tenevano alla larga da
lui, avevano timore dei strani piccoli avvenimenti che
lo riguardavano. Temevano di potersi ferire con i pezzi di vetro dei bicchieri
che sembravano rompersi magicamente ogni volta che era di cattivo umore per
qualcosa. Tutti i bambini erano spaventati nel veder spegnersi improvvisamente
la televisione, o staccarsi tutti i cartelloni dai muri delle aule di scuola
inaspettatamente, quando il bel bambino dal comportamento indifferente a tutto
e tutti cambiava d’umore.
Tra il direttore e le altre maestre dell’istituto
vociferavano perfide voci di irrazionalità
stupefacente. Quell’uomo grassottello, dall’espressione seria e autoritaria più
di una vola consigliò ai coniugi che venivano a
chiedere l’affidamento del bimbo di tornare sui propri passi, ripensarci, di
prendere con loro un altro orfanello.
“é figlio del diavolo vi dico,
signori miei! Vi sto facendo un favore! Non lo prendete con
voi, accadono cose terribili intorno a quel bambino! È
frutto di Satana!” ripeteva sempre, con sguardo spaventato e in tono
confidenziale, e tutte le coppie scappavano via, scandalizzate, portando con se
un altro bambino.
Perché? Cosa
aveva fatto di male? Si impegnava in tutto. Aveva sei
anni e studiava lezioni di ragazzi delle scuole superiori alle sue. Apprendeva
tutto con semplicità e riusciva in ogni cosa. Era educato e con i signori che
lo venivano a trovare per parlare con lui era sempre gentile e disponibile. Eppure, nessuno lo voleva.
Era solo. Maltrattato dai ragazzi più
grandi, che lo prendevano di mira e lo picchiavano per sfogarsi delle proprie
oppressioni. Evitato da tutti. E soffriva.
Soffriva maledettamente.
- Sei sempre il solito, sapevo di
trovarti qui!- esclamò improvvisamente una voce femminile, infantile, che
spinse il bimbo moretto ad alzare gli occhi verso la proprietaria, apparsa
davanti a lui. Una bambina un po’ più grande di lui gli era davanti. Teneva fra
le mani un ombrello color giallo canarino, consunto sul manico di legno,
intonato con gli stivaletti arancioni di gomma che indossava ai piedi, nascosti
in parte da un paio di jeans lunghi e strappati in più punti. La bimba era
coperta da un pesante maglione di lana azzurro, eccessivamente grande per lei,
decorato con un orsacchiotto di peluche sul davanti un po’ spelacchiato. Due
simpatici codini le spuntavano da sotto un cappello a forma di papero,
anch’esso giallo, decisamente rovinato, che si posava
con la visiera di traverso sul capo della bimba.
- C-cosa vuoi?- singhiozzò di rimando il bambino, mentre si
strofinava con veemenza maggiore il volto nel tentativo di nascondere le
lacrime.
- Ma guarda che moccioso! Come al solito fai finta di niente davanti agli altri, sembra che
niente ti tocchi e poi vieni sempre a piangere qui, sotto questo albero!-
rispose lei, saltellando con gli
stivaletti in una pozzanghera.
- Non chiamarmi moccioso! Hai solo due anni in più di me! E poi io non piango affatto! E comunque
non sono affari tuoi!- urlò il moretto, alzandosi in piedi di scatto con le
sopracciglia corrucciate.
- Ahahah, che faccia buffa che hai! Sei tutto sporco! Hai pianto, si vede!- rise la bimba, guardandolo in viso e indicandolo
con il dito.
- Dai, andiamo dentro, sei tutto bagnato, e non hai nemmeno
un maglione addosso!- soggiunse vedendo gli occhi neri del suo interlocutore
irrigidirsi di rabbia.
- No! Vai tu se vuoi! Io non ti ho chiesto nulla! Capito? Vattene!- sbraitò osservandola con astio.
- Uff… allora rimango qui anche io- concluse
con semplicità la piccola, sedendosi sotto l’albero vicino a dove era seduto
poco prima il bambino e cominciando a fischiettare spensieratamente. Il bimbo
la osservò sempre con la stessa espressione adirata, e si rimise a sedere,
qualche passo lontano da lei.
- Ehi! Vieni qui vicino così ti
riparo con l’ombrello- disse la bimba osservando i capelli nerissimi e bagnati
di lui, agitando l’ombrello per fargli segno.
- No!-
-Ti prenderai un raffreddore!-
- Chissene!-
- Scemo!-
- Stupida!-
-Piagnone!-
-Non è vero!-
Silenzio. Il rumore della pioggia riecheggiava per il
piccolo cortile sgombro.
- Jane…- interloquì improvvisamente il moretto, dopo qualche
attimo di silenzio. L’acqua scorreva gelida su tutto il suo corpo. La bambina
si voltò a osservarlo.
- Cosa dicono gli altri bambini di
me?- proseguì il piccolo, lo sguardo puntato assente verso il suolo fangoso e
il tono leggermente ombreggiato di tristezza.
- Che sei un tipo strano. Hanno tutti paura di te.- rispose Jane, guardando lontano con
assenteismo e battendo i piedini nell’acqua sul terreno.
- Paura?- chiese il bimbo, concentrando d’improvviso due
occhi sbalorditi sulla volto della bambina di fianco a
lui.
- Si… sei sempre per i fatti tuoi, in silenzio, fai tutto
benissimo e non sbagli mai. E poi alcuni dicono che
non sei tutto normale. Dicono che non sei tutto umano.-
continuò a dire la bambina,
guardandolo negli occhi, ostentando sempre un espressione di dolce ingenuità.
- Ah si…?- domandò il bimbo, colto nuovamente da un espressione di gelo distacco. La bimba non rispose. Lo
osservava con la semplicità di un bimbo.
Altri attimi trascorsero in silenzio.
- Tom…- esordì Jane, rompendo di nuovo il rumore monotono
dell’acqua che cadeva dal cielo.
- Io non so se sei normale o no. Ma non fa niente, mi sei
simpatico.-
- Simpatico, io?- chiese nuovamente stupefatto il bimbo
dagli occhi e i capelli corvini, tornando a fissare la bimba con espressione
accigliata.
- Si. Penso anche che non dovresti piangere per quello che
pensano di te gli altri bambini, perché tu sei il più straordinario, sei molto
più in gamba e intelligente di tutti loro messi insieme, quindi non devi cedere
alle loro prepotenze.-
Il bambino di nome Tom la guardava con la bocca leggermente
dischiusa, colta dallo stesso stupore di prima. Poi, cautamente, tornò a
fissare con disattenzione la terra davanti a se. Jane era arrivata
all’orfanotrofio da pochi mesi, era stata trasferita da un altro che era fuori
città, si vestiva sempre con colori appariscenti e vestiti particolari, era
solita, quando arrivava i nuovi vestiti per i bambini, tuffarsi a scegliere
quelli che Tom giudicava i più strani, e sembrava
divertirsi molto nel farlo.
Sorrise tristemente. Poi si alzò e guardò verso l’edificio
davanti a loro, sotto lo sguardo indagatore della bimba.
- Ho fame, vado a rubare qualcosa
dalla cucina- disse, seguitando a guardare avanti.
- Sei pazzo? Se ti scoprono? Lo sai
che ti puniranno!- chiese sbalordita la bimba mentre
lo vedeva incamminarsi sotto la pioggia, verso l’entrata. Tom non rispose, Jane
si alzò e fece una piccola corsa per affiancarlo. Sorridendo lo coprì con
l’ombrello.
- Non pensare a me, sono zuppo ormai!- disse il bimbo sempre
con lo stesso tono aspro mentre insieme raggiungevano l’entrata.
- Fa niente!- esclamò Jane, sorridente, entrando per prima
nell’edificio.
Tom si voltò a vedere il punto dove prima si trovava insieme
a Jane, sfocato dalla pioggia che cadeva davanti ai suoi occhi.
Non avrebbe più pianto. Lui era superiore, non era come
quelle persone intorno a lui, che lo giudicavano dai suoi silenzi.
Era solo… ma in fondo, cosa c’era di male nell’essere soli?
Si voltò nuovamente, entrò
nell’ingresso, freddo quanto l’esterno.
Era solo… ma l’alternativa sarebbe
stata stare insieme a quegli sciocchi che lo scansavano senza nemmeno
conoscerlo, che lo giudicavano dalle dicerie del direttore e lo guardavano con
disgusto e disprezzo.
Era solo… ed era meglio così.
*
Presto il piccolo bambino che a quasi sette anni piangeva,
distrutto, sotto la pioggia gelida accanto al pino, crebbe.
La fredda indifferenza che persino a sei anni dimostrava
verso ogni cosa che gli accadeva intorno, ora era ancor più forte in lui. Aveva
imparato ad amare la solitudine, a starsene presso il medesimo pino sotto il
quale un tempo versava lacrime, seduto a leggere libri su libri, ad ascoltare
il dolce silenzio che era diventato il suo amico più stretto, e ad osservare
con superiorità le persone che aveva intorno e che ora avevano imparato ad
ammirarlo, oltre che a temerlo.
Il bel volto di Tom non era più stato toccato da nessuna
sorta di lacrima, i suoi occhi non si erano più velati di tristezza ne di altri sentimenti. Erano freddi. Freddi e distanti come
quelli di un rettile. Sembrava quasi essersi creato un muro tra lui e il mondo,
spesso e invisibile, che lo tagliava fuori da tutto e
che lo poneva in un posizione di intoccabile indifferenza.
In realtà egli era cosciente che non erano certamente state
le parole della bimba dai codini buffi a farlo reagire a quella situazione.
Forse erano stati gli sguardi disgustati e accusatori dei genitori adottivi che
venivano a prendere gli altri orfanelli, forse quelli del direttore e delle
altre insegnanti, forse le voci dei bambini che si sussurravano: “Non è un
bambino normale…”. Fatto stava che lui era cambiato, quelle parole non potevano
più ferirlo. Niente poteva più.
I ragazzi più grandi che un tempo
lo picchiavano, ora non gli si avvicinavano più, non da quando compresero che
quel bambino indifeso era scomparso e al suo posto vi era un ragazzo dagli
occhi di ghiaccio che era perfettamente in grado di affrontarli e batterli
anche da solo. Le insegnanti non potevano fare altro che lodarlo per i suoi
risultati e anche se non si dilungavano molto nel farlo, poiché non lo avevano
molto in simpatia, a lui non importava. Non importava di essere lodato da
quelle stupide donne di mezza età, dedite a accaparrarsi
le attenzioni del direttore che passava tronfio per i corridoi dell’istituto
esibendo pesanti orologi d’oro, ogni volta diversi. Sarebbe presto andato via
da quel posto, ancora qualche anno, e se ne sarebbe andato, a costo di dover
vivere per strada.
*
Era una di quelle tiepide mattine di sole che Tom avrebbe potuto contare sulla punta delle dita e che
preannunciava l’arrivo dell’estate. I ragazzi dell’istituto erano tutti fuori,
nel cortile, a divertirsi, godendosi i raggi solari che illuminavano la
giornata. E lui… bè, lui era lì: semi sdraiato sul
letto arrugginito che gli apparteneva fin da quando aveva messo piede in quel
posto. Nella grande stanza che accoglieva i letti dei bambini non c’era nessun altro. Tom aveva lo sguardo perso sul soffitto
ammuffito, le mani dietro la testa e i capelli davanti il volto. Silenzio.
Stavolta nulla lo avrebbe infranto, quella rompiscatole se n’era andata diversi
anni prima, due o tre, non ricordava, ma almeno
ora non lo avrebbe più importunato con
la sua esuberanza immotivata. Jane infatti era stata
adottata da una coppia di signori piuttosto vivaci che erano entrati
nell’istituto sorridendo allegramente, indossando abiti appariscenti e molto
colorati che concorrevano alla pari con quelli della ragazzina, e che non
appena la videro, le si avvicinarono e poco dopo andarono a parlare con il
direttore per l’affidamento.
Ricordava vagamente come Jane, a quel tempo di 10-11 anni,
si era avvicinata a lui, sorridente e gli aveva detto:
- Spero che ci rivedremo Tom!-. Lui non aveva risposto
nulla, l’aveva guardata allontanarsi e sedersi vicino alla porta del direttore,
in attesa dei nuovi genitori.
E così anche lei se n’era andata,
fortunatamente, una seccatura in meno.
- Tom - improvvisamente un tono di voce irrigidito
e tradito da un velo di spavento arrivò alle sue orecchie. Il ragazzo
non sobbalzò, non si sorprese per nulla, si mise a sedere e guardò negli occhi
il direttore che era sulla porta con una lettera in mano e che lo guardava con
gli occhi umidi e tremando vistosamente.
Una seccatura in fine era arrivata comunque.
Il ragazzo continuò a guardare con sicurezza e senza muoversi il direttore
avvicinarsi a lui e rimanere in piedi, davanti il suo letto, a qualche passo di
distanza.
- Posso esserle utile, direttore?- chiese con tono piatto ed educato Tom, seguitando a fissarlo negli occhi.
Il direttore sembrò assumere un
espressione di disapprovazione che venne meglio identificata con puro e
semplice spavento. Quel ragazzo era davvero imperturbabile,
non si era nemmeno scomposto nel vederlo arrivare d’improvviso. Con
riluttanza porse a Tom la lettera che teneva fra le mani, non avvicinandosi più
del dovuto.
Il ragazzo la prese e, anziché stupirsi, alzò le sopracciglia infastidito, non perdendo il volto calmo e
atono.
- è uno scherzo di cattivo gusto- commentò
con semplicità, posando la lettera sul letto.
- Tu dici? Io non credo.- rispose
il direttore, guardandolo stavolta con durezza e rabbia repressa. Tom lo scrutò
da sotto i capelli corvini.
- Comunque sia sarebbe meglio se tu
andassi a questo appuntamento…-
disse, prendendo già ad allontanarsi dal letto e guardandolo torvo di lato
sempre con quell’espressione dura e autoritaria.
Il ragazzo gli lanciò uno sguardo gelido che lo fece
bloccare sullo stipite per un momento con la bocca spalancata, poi deglutì, si
ricompose e scomparve attraverso la porta il più
rapidamente possibile.
Tom posò la sua concentrazione sulla pergamena gialla che accoglievate le parole della lettera in color verde
bottiglia. Così il direttore aveva avuto occasione di liberarsi di lui. Avrebbe
potuto trovare una scusa più valida, però. Che
stupidaggine. Scuola di magia, risposta via gufo... comunque
sia ci sarebbe andato. Anche lui in fin dei conti
voleva liberarsi del direttore e di quel posto, e qualsiasi cosa avrebbe
trovato alla stazione di King’s Kross
avrebbe potuto in ogni modo prendere un treno per andarsene in qualche
altro posto.
CONTINUA…
Spero di aver colto la
vostra attenzione^^
Vi chiedo per favore di
lasciare un commento, si tratta di una fan fic che ho
scritto di getto, l’idea è quella di raccontare fatti e avvenimenti che hanno
influito sulla personalità di Tom Riddle, molti naturalmente saranno inventati
altri tenterò di basarli sulle informazione dei libri.
Credo che il prossimo
capitolo arriverà solo tra una settimana, infatti ho
saputo che nel sesto libro, che come tutti sappiamo uscirà fra pochissimi
giorni, ci saranno moltissime informazioni riguardo Voldemort e la sua vita
quindi aspetterò di leggerlo per scrivere una storia più veritiera.
Insomma sabato e
domenica per leggermelo e via^__- Grazie a tutti di aver letto!
Bacio! E uno speciale alla mia cuginetta Cry_90! ;)
-CHIBICIA-