L’avvenimento che mi accingo ora a raccontare
è forse il più sentito di tutta la mia intera
esistenza. È un avvenimento che ricordo con amaro piacere,
dettato forse dal fatto che non si ripetè più.
Tutti – o meglio, tutti coloro che si sono avvicinati con una
certa fedeltà ai miei scritti – sanno che cosa
accadde alla fine di giugno del 1902, quando io e il mio fedele
compagno, Holmes, cogliemmo con le mani nel sacco colui che si era a
noi presentato come John Garrideb, mentre in realtà era
niente di meno che Evans il Killer.
Rimasi lievemente ferito alla gamba, e se già di per
sé il dolore che provavo non era assolutamente paragonabile
a quello che avevo provato in guerra, quando mi ferirono la spalla, la
reazione del mio amico mi fece del tutto scordare la mia, seppur lieve,
pena.
Per un attimo il suo viso si era trasfigurato in una maschera di puro
terrore; i suoi occhi si erano come sciolti, rivelando la sua natura
umana, di solito nascosta sotto lo strato superficiale, ironico, del
suo genio.
Dopo essersi accertato che stavo bene, il suo sguardo era tornato su
Evans; ricordo che le sue parole sicure, dure come la pietra, rivolte a
colui che mi aveva appena sparato, mi procurarono una strana sensazione
alla bocca dello stomaco.
Decisi di accantonare i miei pensieri in un angolo della mia mente e
dedicarmi solo all’uomo che avevamo davanti.
Così lo avevamo scortato a Scotland Yard insieme a Lestrade
e ai suoi uomini, e poi Holmes aveva insistito affinché io
andassi a farmi visitare – cosa che giudicai allo stesso qual
tempo tenera, perché mostrava di nuovo di essere preoccupato
per me, ma anche offensiva, dal momento che sarei stato in grado di
curarmi da solo.
Ma decisi di accontentarlo, anche se il vero motivo di questa mia resa
non mi era del tutto chiaro, o meglio, volevo che non fosse chiaro.
L’avvenimento che tanto mi sconvolse interiormente, e che
ancora oggi mi sconvolge, accadde durante il tragitto tra
l’ospedale e Baker Street, in una carrozza.
Io e il mio caro amico eravamo seduti ai lati opposti. Io guardavo la
strada che scorreva oltre il vetro, cercando di fare ordine nei miei
pensieri confusi e di capire le cause di quella strana sensazione di
cui sopra.
Stranamente, quando Holmes aveva rivolto a Evans una neanche poi tanto
velata minaccia di morte, io mi ero sentito al sicuro, come se niente e
nessuno avrebbe potuto ferirmi finché fossi stato col mio
amico.
Dico stranamente perché in realtà i fatti mi
avevano appena dimostrato il contrario. Ero con lui ed ero appena stato
ferito.
Il perché di questi miei sentimenti mi tormentavano, e
andavano a legarsi indissolubilmente a tante altre sensazione di simil
natura che a volte sentivo. E tutte riguardavo lui, Sherlock Holmes, il
mio più caro amico.
Fino ad allora non ero rimasto spaventato da certi pensieri, appunto
per la loro natura confusa e non ben definita.
Ma quel giorno, ripensando ai fatti appena avvenuti, sentendo il suo
sguardo su di me, ebbi paura. Ebbi paura perché ero
finalmente riuscito a dare un nome ai sentimenti che mi agitavano
l’anima ogni qual volta mi trovavo vicino a Holmes.
E me ne vergognai anche, profondamente.
Mi mossi a disagio, attirando la sua attenzione.
“Mio caro amico, spero che lei stia bene.”
Mi guardava con gli stessi occhi freddi che sempre lo avevano
contraddistinto, così diversi da quelli che si erano posati
su di me solo poche ore prima.
Il suo sguardo mi ferì come non mai, incrementando la mia
sensazione di disagio.
“Sì, è tutto a posto.”
Risposi, guardando un punto imprecisato oltre la sua spalla.
Guardarlo negli occhi in quel momento avrebbe significato fargli capire
la natura dei miei sentimenti.
Un pensiero mi attraversò improvvisamente, lasciandomi senza
fiato.
Come potevo essere certo che lui non lo avesse già capito,
lui sempre così attento a ogni minimo dettaglio?
E se lui sapeva, perché non aveva fatto in modo di farmelo
capire, come era sua abitudine quando non capivo qualcosa?
Il suo sguardo ora era indirizzato fuori dal finestrino, annoiato.
Ebbi così la possibilità di osservarlo, per la
prima volta conscio dei miei sentimenti per lui.
Erano anni ormai che lo conoscevo, anni durante i quali eravamo
invecchiati insieme. E mai, lo avevo guardato come in quel momento.
Non potevo più mentire a me stesso, il mio interesse per
Holmes non era di natura prettamente morale. Non so dire quando era
cambiato, da quanto tempo andasse avanti così, ma non ero
più in grado di controllare il mio sguardo che percorreva la
sua figura.
Un pensiero senza nessuna logica si impossessò della mia
mente, impedendomi di pensare razionalmente ad altro.
Mi chiedevo per quale motivo si fosse agitato tanto, se il suo
interesse nei miei confronti potesse essere di natura simile al mio.
Mentre tiravo le tendine del mio finestrino, continuando a guardarlo,
avrei dovuto pensare che avevo Sherlock Holmes davanti a me, e che se
c’era già una vaga e minima possibilità
che provasse qualcosa per me, di certo l’avrebbe considerata
scorretta.
E l’avrebbe considerata scorretta non tanto per
l’immoralità di per sé, ma
perché provare dei sentimenti, per lui, avrebbe
rappresentato un nemico per la sua mente logica e fredda. La passione e
il sentimento non erano adatti per la sua persona, né
tantomeno l’amore.
Tuttavia in quel momento non pensai lucidamente a tutto questo, e
cominciai ad avvicinarmi a lui; non pensai che il mio gesto avrebbe
avuto conseguenze catastrofiche per il mio spirito.
Holmes notò subito la luce del mio lato che veniva a
mancare. Aprì la bocca, sicuramente per dire qualcosa, ma si
bloccò, osservandomi.
Accostai anche la tendina del suo lato.
Ero davanti a lui ora, seduto sul bordo del sedile, di modo che ci
fosse pochissima distanza tra i nostri due corpi.
“Amico mio, che cosa ha intenzione di fare?”
La sua voce era ferma, velata di ironia come sua abitudine, ma i suoi
occhi tradivano una certa preoccupazione.
Non volevo che avesse paura di me. Non lo avrei forzato a fare nulla
contro la sua volontà, né ero sicuro di volerlo
io stesso.
Consideravo ancora tutto questo prettamente sbagliato e immorale, ma mi
sentivo come se una chimera si fosse impossessata della mia anima,
spingendomi in un gesto che non credevo possibile.
Sollevai un braccio e posai una mano sulla guancia del mio compagno; la
poca barba che la ricopriva, gli rendeva la pelle ruvida.
Il suo sguardo, assolutamente indecifrabile, cercava i miei occhi, per
capire – o molto più probabilmente, avere conferma
– del motivo che mi spingeva a fare ciò che stavo
facendo; ma io seguivo il movimento delle mie dita sulla sua pelle.
Mi sarei dovuto fermare, ma le mie dita continuavano a scorrere sul suo
viso. E così toccai il suo mento, e tracciai dei cerchi
intorno alle sue labbra; risalii poi sul suo naso, disegnai i contorni
dei suoi occhi, spianai le prime rughe della vecchiaia che cominciavano
a comparirgli sulla fronte.
Affondai le dita tra i suoi capelli ormai striati di grigio, mentre un
sospiro mi usciva tra le labbra. Erano incredibilmente morbidi.
I suoi occhi catturarono i miei.
Senza rendermene conto cominciai ad avvicinarmi a lui, più
di quanto non fossi già, molto più di quello che
le regole dello Stato imponevano.
Il cuore mi martellava vergognosamente nel petto, spaventato
all’idea di ciò che stavo per fare e della sua
possibile reazione; avrebbe potuto spingermi via, reagire in maniera
violenta. Ma finora non aveva dato segno di disdegnare quelle che
potevo definire con un solo termine, carezze, anche se la sua
immobilità non mi faceva ben sperare.
E infatti, non appena le mie labbra furono a un soffio dalle sue,
Holmes girò la testa di lato, fissando lo sguardo sulla
tenda.
Mi ritirai frettolosamente al mio posto, aprendo la tendina, facendo
modo che il basso sole della sera entrasse nella carrozza, illuminando
i miei occhi lucidi.
Sentii di nuovo il suo sguardo su di me e mi voltai a fissarlo. Di
nuovo, il suo sguardo divenne liquido, se possibile tenero.
Ma fu solo un attimo, un secondo di umanità su quella sua
maschera fredda.
Non parlammo mai di quel che avvenne quella sera di fine giugno del
1902. Ci comportammo come se niente fosse mai successo.
Più e più volte aveva dimostrato in che modo
tenesse alla mia persona, più e più volte aveva
tentato quello che a me era parso un goffo approccio da parte di una
persona che sapeva tutto di quasi ogni cosa, ma non sapeva nulla della
cosa più importante di tutte.
Ma io mai detti cenno di intendere i suddetti approcci, offeso dal suo
rifiuto, vergognandomi dei miei pensieri malati e impuri che mi avevano
preso durante quel viaggio in carrozza.
Senza sapere però, che me ne sarei pentito.
Ora che mi trovo qui, in piedi, di fronte alla lapide del mio amico,
non posso fare più finta di niente.
Una lacrima scivola lungo la mia guancia, dignitosa, sola. Le mie
spalle sono scosse da un fremito e mi appoggio al bastone, compagno
affidabile dei miei ultimi giorni da vecchio.
La morte lo ha preso prima di me, benché io fossi il
più anziano. La sua vita di sregolatezze, le droghe che
ingeriva, lo avevano mangiato dall’interno.
Sono due anni che ogni giorno vengo qui, e ogni volta mi pento. Mi
pento di non aver riprovato, mi pento di non aver seguito il mio cuore,
dimostrandomi di non essere poi tanto diverso da Holmes.
Trascorro i miei noiosi giorni da solo, con i sensi di colpa come unici
compagni. E conto i minuti che mi separano dalla mia prossima visita
alla sua tomba; ogni volta mi ritrovo a lasciar scivolare una lacrima
sulla mia guancia, sommerso dai sensi di colpa, dalla solitudine,
pensando a quanto terribilmente mi machi.
E prego.
Prego che la morte mi prenda adesso e che mi riporti da lui.
NdA:
Ok, partendo dal presupposto che è la prima volta che
pubblico in questo fandom e sono spaventata a morte, volevo dedicare
questa storia alla mia Ro (minnow) come regalo di compleanno! ^^
Il titolo è lo stesso di un'omonima poesia di Cesare Pavese.
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