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MARINA
Lucciole.
Bruciano nel cielo nero della notte morente, vivendo un’estate che è finita già.
Sono fatte di fuoco, piccole anime del buio,volano tra le stelle, sempre più su.
Le osserva dalla finestra, le
osserva giocare nel giardino, illuminando i fiori su cui si posano,
illuminando il nero che vige sovrano.
Si rincorrono leggere. Ignare del
correre del tempo, le lucciole volano nel fuoco, cosa che lei non
potrà mai fare, rinchiusa com’è nella grande casa
gialla, prigioniera di quattro mura e di due gambe morte.
Sola, non sa far altro che guardare e scrivere.
Dopo la morte di suo padre ha smesso anche di parlare. Che senso ha? È sempre sola in quella casa vuota.
Affida poi i suoi ricordi al vento, unico compagno che, sottile e leggiadro, diventa messaggero delle sue grida.
Vorrebbe vedere il mare, Marina.
Ne porta il nome, ma non ha mai
sentito il sapore del sale in bocca. Solo il vento, qualche volta ne
porta l’odore nella stanza sud, che guarda il porto, senza
realmente vederlo.
Alla mattina si sentono i rumori
delle barche che tornano dalla pesca e l’aria assume
l’odore dei pesci appena presi, che vengono venduti a suon di
urla dalle mogli dei pesci di terra.
Così suo padre chiamava i
pescatori, che non riuscivano a rimanere troppo tempo senza una barca
traballante sotto i piedi.
D’estate poi, il vento portava
i gridolini dei bambini della colonia, accompagnati sulla spiaggia
dalle maestre, che parlottavano, tutto il giorno, abbandonando i
piccoli alla balia della marea.
I figli dei vicini la venivano a trovare a volte. Dopo tutti quegli anni,però, non si ricorda più il loro viso.
Non erano mai più tornati dopo l’incidente.
La luce del faro illumina il
giardino, mostrando agli occhi stanchi di Marina, la fontanella di
marmo, mangiata dall’edera e dai fiori.
Non ha mai sgorgato acqua. È morta anche lei, come tutti, tranne la vecchia domestica che l’accudisce ancora.
Ma che l’ignora. Non le ha mai
perdonato la morte di suo padre Pietro, che, cadendo dalle scale con la
figlia in braccio, aveva sbattuto la testa.
Il suo grande amore.
Perduto per colpa di una ragazzina storpia.
Si prendeva cura di lei comunque,
veniva pagata ogni mese dalla madre, che non sopportava più la
sua vista e viveva in città, appena dopo il conseguimento della
maggiore età della figlia. La vita è crudele per Marina,
mai un sorriso, mai una parola dolce.
È fresca l'erba? Non se lo
ricorda più, sono almeno dieci anni che non scende in giardino.
La pioggia bagna ancora la pelle in modo sottile sottile, come se al
posto dell'acqua cadessero dal cielo mille aghi che lasciano nell'aria
la loro scia di cotone bianco?
Non se lo ricorda più.
L'ultimo acquazzone l'aveva guardato da dietro le finestre della sala,
cercando di vedere Dio scrutarla dalle stelle. Ma ha smesso di credere
anche a Dio, da quando l'abbandono ha portato altro peso sulle sue
gambe morte. Sola, Marina, si trascina in questa strada tortuosa
che è il vivere, sospesa ogni giorno tra il desiderio e la
realtà.
Ma questa notte no, Marina è
stanca. Appoggiandosi alle ruote della carrozzella, si spinge nel
corridoio illuminato da un debole raggio di luna, che colpisce
l'argento dei portafoto che sorridono nel buio del passato. Dopo dieci
anni, Marina si decide ad aprire la grande porta di mogano, che aspetta
di danzare coi cardini di bronzo reso grigio dal tempo.
Con un cigolio sempre più
forte, la porta lascia entrare l'alito caldo della notte che a
metà settembre, è ancora impregnata dei bollori del
giorno. Respirando profondamente gli umori del rigoglioso giardino,
Marina si sporge sul terrazzo pieno di fiori, che sembrano aprirsi solo
per lei, salutandola come un amico ritrovato.
Il profumo della notte le entra
velocemente nei polmoni, riempiendola di dolce miele. Sorride, come una
bambina, chiude gli occhi e ride.
Da quanto tempo la sua risata squillante non si rincorreva tra i prati della cittadina? Troppo tempo.
Dopo qualche ora, al ritorno del
marito, lasciato tornare sulla terra dalle profonde acque del mar
Tirreno, vedendo la luce spenta e la porta aperta della casa affianco,
la vicina accorre, temendo che i ladri che sicuramente, erano entrati
da Marina, sarebbero giunti nella sua villa scavalcando il muretto. La
vede arrivare, correre con la vestaglia bianca al vento, con i capelli
che scivolano come seta nell'aria della notte che si trasforma sempre
più rapidamente in alba. Il cielo sta già diventando
rosato, qualche tocco d'oro e un pizzico di dolce azzurro, la notte non
è più scura.
La vede arrivare e cade tra le lucciole.
Le piccole gocce del sole la
accolgono di nuovo nella loro casa, sotto il terrazzino che l'aveva
resa quel che era. Sorride Marina, è uscita dalla sua crisalide,
ha stelle per ali, finalmente potrà vedere il mare,
accompagnando nella traversata dell'acqua viola i pescatori che, con il
loro sorriso sghembo, la salutavano al mercato quando si arrampicava
sui banchi per rubare un gamberetto fritto.
Vola Marina, tra le onde del cielo,
spinta da una marea perpetua, spinta dalle lucciole. Vive Marina,
abbandonandosi alla brezza della sera, lasciando andare la carrozzella,
spingendosi in avanti, verso le rose.
Verso il rosso, il giallo e il bianco.
Verso il nero, ultima cosa che vede.
Verso il mare, ultimo desiderio, ultimo grido.
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