Un tempo l’introduzione a
questa fic era più lunga.
L’ho dovuta cancellare perché
risalente a due estati fa HAHAHA ed era scritto con un patetico linguaggio da fanghèrl in calore (ora dovrei essermi evoluta).
Mi sento così sarcasticamente
concludente. E dopo due anni che tenevo sto pezzo di fic
in grembo, ricordandomi che io difatti HO un account su efp
(ricordandomi dell’esistenza di efp ingenerale), ho
deciso che è il caso di finirla una volta per tutte – decisione presa
principalmente per l’avvicinarsi della terza prova, da cui voglio distrarmi il
più possibile.
Perciò, tanto per dilungarmi
inutilmente, questa fic la iniziai secoli orsono e,
come molte altre fic, mai la finii. Però ora sono
decisa a finirla perché non mi dispiace come stava venendo. Volevo farla oneshot ma tanto vale postare questo primo pezzo per vedere
cosa ne pensa la ggiuènte nel mondo. Avviso che in
futuro, quando uscirà la seconda parte, se tale seconda parte sarà anche la
fine, forse le metterò insieme (‘vabbè ma chissene frega?’ Giusto) e inoltre potrebbero esserci delle
modifiche a questa parte. Ma ora chissenefrega, ce ne
preoccuperemo tutti insieme più tardi, ouiea.
(ah, in questo capitolo non
si capisce nulla, YO)
Disclaimer:
è davvero necessario? Voglio dire, si chiamano FANfictions,
e la logica della parola stessa dice che sono fatte dai FANs,
perciòòò… Vabeh, non
possiedo Sora, non possiedo Roxas, non possiedo nulla di Kingdom Hearts se non il cosplay di Sora.
Se lo possedessi, l’Organizzazione XIII esisterebbe per un altro scopo e
spiegherei il motivo per cui di solito si abbrevia in ‘Orgy
XIII’. Possiedo, però, un account su FFnet che mi ha
permesso di sviluppare, tramite la lettura di migliaia di fic,
il perfetto carattere che secondo me Roxas avrebbe se
la Square Enix si fosse
preoccupata di approfondire un po’ il suo personaggio (prima di 358/2, a cui
non ho giocato. Un po’ mi faccio schifo.)
Hah,
ho accennato al fatto che io sfortunatamente non ho mai giocato a Kingdom Hearts, Final Fantasy e nessun gioco per playstation? *scappa*
Avanti con la fic :D! MARLUSCIA!
x-x-x
Tutto iniziò con quell’incidente.
Fu strano sentire la notizia al telegiornale della
sera, ascoltare la voce, tinta di preoccupazione, della giornalista, mentre
annunciava con forzata calma che il volo diretto a Parigi e partito alle
quattro e un quarto di quel pomeriggio era improvvisamente scomparso dai radar
della stazione aerea verso le sette e dieci
mentre sorvolava il Pacifico, che si temeva fosse precipitato in acqua,
e che, proprio in quel momento, si stava cercando di capire dove fosse caduto
esattamente.
Fu strano avvertire la sua presa sul piatto, pieno di
cibo appena cucinato, allentarsi sempre di più, e sentirsi scivolare il
bicchiere tra le dita, ma non udire il suono della ceramica e del vetro che si
infrangevano contro il pavimento.
Fu strano ritrovarsi per terra, coi brividi lungo la
schiena, gli occhi sbarrati, lo sguardo fisso sul televisore e un vago dolore
alle ginocchia e solo dopo capire che le sue gambe avevano inaspettatamente
ceduto sotto il suo peso, e che nella sua mente c’era spazio solo per una
parola, ripetuta all’infinito, in un’unica, dolorosa litania, e sentire il
suono di quella parola intorno a lui, raggiungere le sue orecchie e inghiottirlo,
e poi rendersi conto che le sue labbra si stavano muovendo.
No. No. No. No. NO.
A notizia finita, la giornalista picchiettò
distrattamente il suo blocco di fogli sulla sua scrivania immacolata e annunciò
brevemente che dall’indomani fino a tre giorni dopo, si sarebbero susseguiti
una serie di violenti temporali estivi su tutta la regione.
x-x-x
I corpi dei passeggeri non furono ritrovati.
Rimasero per sempre prigionieri di quegli abissi scuri,
e nessuno seppe mai cosa era davvero successo, dato che non fu localizzato
neanche l’aereo – se non per un’ala e la coda. Esistevano solo supposizioni.
“Mi dispiace molto, ragazzo,” gli avevano detto con
tono rammaricato, dopo avergli riferito che, sì, i suoi genitori e sua sorella
erano saliti su quel maledetto aereo quel pomeriggio e, sì, era da dar per
certo che fossero tutti morti.
Morti. Morti. Morti.
Morti. MORTI.
Ma non poteva essere così.
Sua mamma gli raccontava sempre dei fantastici mondi
che andava a visitare durante i suoi viaggi di lavoro, delle sue eccitanti
esperienze, degli esotici posti in cui era stata, e in cui un giorno sarebbe
ritornata con lui e sua sorella, perché anche loro, diceva, avevano il diritto
di vederli. Gliel’aveva promesso.
Era come sognare a occhi aperti; ogni sua parola si
stagliava nella sua mente come una vivida immagine, tanto distinta e perfetta
da sembrare reale.
Ma niente di
tutto quello era reale. Non aveva visto ancora niente.
Gliel’aveva promesso.
Promesso.
Gli adulti dovevano
mantenere le promesse.
Sul muro bianco davanti a lui, una mosca continuava a
fluttuare, sfiorando la superficie intonacata ogni pochi secondi e rialzandosi
in volo altrettanto velocemente.
“Hai dei parenti che si possano prendere cura di te?”
avevano domandato a un certo punto nel flusso costante del loro discorso a
senso unico. La loro voce era quasi un sospiro, come se avessero avuto paura di
svegliarlo dalla sua trance silenziosa. Distolse lo sguardo dalla parete.
Sul pavimento di legno era inciso un graffio abbastanza
profondo, e una macchia leggermente più scura del resto lo affiancava a pochi
centimetri di distanza.
“Bene, andremo subito a chiamarli,” avevano concluso,
prima di voltarsi e allontanarsi dalla loro sedia di ferro, avendo, a quanto
pareva, ricevuto una risposta che non si era accorto di aver dato. Le sue mani
strinsero i bordi della sedia convulsamente. Le sue nocche diventarono bianche.
Bene. Bene. Bene. Bene.
Cosa diavolo stava andando bene?
Sotto le sue dita, c’era una vite che sporgeva
leggermente verso l’esterno. Era appuntita, fredda, quasi gelida, come l’aria
troppo ventilata di quella stanza. Premette il dito contro il ferro affilato e
il dolore pungente pulsò nella falange.
‘C’è qualcosa che
non va’, pensò, prima che tornassero da lui per dirgli che i suoi zii
stavano arrivando.
x-x-x
La sua famiglia non aveva mantenuto un buon rapporto
con gli zii dopo che sua mamma si era sposata, nonostante abitassero nella
stessa, piccola città. Lui non aveva mai capito perché. Si erano visti poche
volte dopo la sua nascita, e non era neanche sicuro di ricordarsi bene il loro
aspetto. L’unica volta che aveva tentato di scoprire qualcosa su passati
avvenimenti, sua mamma era rimasta zitta per un’intera mezz’ora, prima di
riprendere a sorridere come suo solito.
Non aveva mai più tirato fuori l’argomento.
Perciò, quando la sorella di sua madre si presentò
nell’ufficio sempre più gelido, accompagnata dal marito, un uomo basso e
robusto che indossava un cappello alla francese – ‘C’è qualcosa che non va, sul serio’ –, quasi non la riconobbe.
“Vieni a casa con noi ora,” la voce di sua zia era
tagliente e, come il suo aspetto, non aveva niente, niente in comune con quella di sua mamma.
E fu quella stessa notte, dopo essere arrivati nella
sua nuova casa, che realizzò cosa non andava.
Mentre si infilava sotto il letto nella stanza degli
ospiti, spalancò gli occhi e si irrigidì. Balzò sul pavimento e cominciò a
tastare i suoi vestiti, sparsi per terra, e quando trovò il cellulare, lo tirò
fuori dalla tasca dei pantaloni e lo aprì febbrilmente.
L’immagine di una stilizzata paperella bianca gli
sorrideva deridente dal piccolo schermo e gli illuminava fiocamente il viso
nella semioscurità della stanza.
“Non hanno chiamato,” aggrottò le sopracciglia. Compose
rapidamente un numero, per poi schiacciare il tasto ‘chiama’. Subito,
dall’altra parte della linea, la monotona voce registrata della segreteria
telefonica gli comunicò che il telefono della persona chiamata era spento o
irraggiungibile.
“Non sono ancora arrivati?” si domandò perplesso.
Non sapendo che altro fare nell’attesa di ricevere
notizie, si infilò nel letto, e si tirò le coperte fin sotto il mento.
“Dove sono mamma e papà?”
x-x-x
Quando i suoi parenti gli chiesero, con tono
leggermente scocciato, se voleva provare a rivolgersi a uno psicologo, lui rise
e rispose: “Per cosa?”
Avrebbero dovuto capirlo.
x-x-x
La prima volta, capitò al mare.
La casa della zia distava pochi chilometri dalla
spiaggia.
Lui si era alzato dal suo asciugamano steso sulla
sabbia, ed era entrato in acqua con insolita calma, un passo alla volta, lo
sguardo fisso sulla linea dell’orizzonte. Si era immerso fino al collo,
dopodiché avevo messo sotto anche la testa, tenendo chiusi gli occhi.
E una volta riaperti in acqua, ignorando il dolore
pungente, i suoi profondi occhi blu si erano illuminati, e un sorriso si era
schiuso sulle sue labbra.
Ed era rimasto immerso. Ancora. Ancora. Ancora. E ancora.
Quando riprese i sensi, si accorse di essere disteso
sulla sabbia bollente, e da sopra di lui parecchie paia di occhi lo fissavano,
preoccupati, attoniti, infuriati.
E quando sentì due larghe mani sul suo petto, realizzò
di non poter respirare. Cominciando a tossire violentemente, cercò di girarsi,
ma non ce l’avrebbe fatta se due braccia forti non l’avessero aiutato e
sostenuto. Con la testa ora verso il basso, prese a vomitare e sputare acqua su
acqua, così tanta che si chiese se non avesse bevuto l’intero oceano, il gusto
di salsedine che gli bruciava la gola e i polmoni.
Venne bruscamente tirato su, la sua vista offuscandosi
per un attimo, per ritrovarsi faccia a faccia con sua zia.
“Cosa diavolo stavi tentando di fare?!” le parole
uscirono da quella bocca ad un volume troppo alto, gli rimbombarono nella testa
per qualche secondo, mentre con sguardo vacuo osservava gli occhi castani che
sembravano esprimere solo disprezzo. E constatava, per l’ennesima volta, che, no, quella donna non assomigliava in niente a sua madre.
Intorno a lui, gli sembrò vagamente di sentire qualcuno
rimproverare la zia ferocemente, ma non riusciva a seguire il discorso.
“L-Lei… mi ha detto che… potevo respirare…” la sua
voce era rauca, e la gola bruciava più che mai, mentre i polmoni si rifiutavano
di funzionare correttamente, e il suo respiro usciva in rantoli affannati.
Gli occhi castani si spalancarono, mentre la bocca si
muoveva di nuovo, le labbra tremanti, ma questa volta lui non udì alcun suono,
e continuò a parlare.
“Potevo respirare sott’acqua come lei, la sirena dai capelli
rossi… Io potevo,
io stavo respirando…”
L’ultima cosa che vide prima di svenire fu
l’espressione terrorizzata di sua zia.
x-x-x
Per settimane, i parenti ignorarono ogni cosa che
succedeva proprio davanti ai loro occhi, in casa loro.
Non parlarono mai dell’incidente, e di quello che era
successo dopo. Non parlarono mai di nulla. Ignorarono l’evidenza con tutte le
loro forze.
D’altronde lui l’aveva sempre detto che zia e madre non
avevano niente in comune.
x-x-x
La seconda volta, capitò a casa.
Era seduto sulla sedia girevole davanti alla scrivania,
in camera, a riempire con furia le pagine del suo diario di inchiostro e
parole. E, all’improvviso, aveva sollevato la testa, lasciandosi scivolare la
penna dalle dita. Aveva guardato verso la finestra, la luce del pomeriggio che
passava da uno spiraglio tra le tende tirate. Si era alzato, tenendo gli occhi
fissi su quel sottile raggio di sole che illuminava una piccola frazione del
tappeto. Aveva allungato le mani, e spinto con incertezza le tende a lato del
vetro.
Il sole, alto nel cielo, riscaldava piacevolmente la
pelle delle sue guance e si rifletteva in occhi blu oceano, davanti a cui
ricadevano alcune ciocche di disordinati capelli color cioccolato. Aveva
aggrottato la fronte, e scrutato all’esterno, prima di mettere la mano sulla
maniglia e tirarla verso il basso. La finestra si era spalancata. E lui aveva
sorriso di nuovo, con l’espressione eccitata di un bambino che la mattina di
Natale scopre sotto l’albero una marea di regali indirizzati solo a lui.
Aveva messo un piede sul davanzale, aggrappandosi agli
stipiti per tenersi su, e al primo piede era seguito il secondo, finché, con un
ultimo sorriso e un sospiro, aveva steso le gambe e si era lanciato in avanti.
x-x-x
All’ospedale dissero che se fosse caduto da un punto
più alto della finestra della sua stanza, collocata al primo piano della casa,
sarebbe quasi sicuramente morto.
Sua zia questa volta non chiese nulla; furono i dottori
a farlo, mentre controllavano la gamba e il braccio appena ingessati.
“Lei mi ha rivelato che il segreto per volare è
crederci veramente,” rispose sorridendo, il volto illuminato da una gioia mal
repressa, “E ho volato! Avete, visto,
no? Ho volato!”
I dottori lo guardarono stupefatti, poi preoccupati,
ansiosi, e infine uscirono dalla sua stanza, rimanendo nel corridoio del
reparto per discutere, e invitando i suoi tutori ad unirsi.
Per tutto il tempo, la zia aveva tenuto nascosti i suoi
occhi con la mano guantata di nero, come se si fosse
vergognata anche solo a guardarlo.
x-x-x
I dottori avevano alla fine deciso di non considerarlo
un tentato suicidio, ma chiesero alla zia di contattare uno psicologo, per
essere sicuri che un incidente del
genere non capitasse ancora una volta – calcarono la parola ‘incidente’ in modo
fastidioso.
“Non parla, non si vuole far aiutare. Posso fare solo
supposizioni. Rifiuta di tentare il trattamento con l’ipnosi,” confessò lo
psicologo dopo le prime sedute tenute in ospedale. “Ma posso dire con certezza
che questo problema non è appena nato, ed è fondato credere che la sua comparsa
risalga persino alle settimane consecutive all’incidente in cui, mi avete
detto, è stata coinvolta la sua famiglia. Mi stupisce che non abbiate preso provvedimenti
prima di ora…”
Sua zia fece una smorfia di disgusto, ma rimase zitta.
“L’unica cosa che si è lasciato sfuggire,” continuò
l’esperto, “è che ha promesso di
‘tenere la bocca chiusa’, poiché questo
mondo non deve venire a sapere dell’esistenza degli altri.”
x-x-x
La zia iniziò a raccogliere informazioni dai suoi
amici. Una mattina, gli chiese l’elenco telefonico di classe.
Dall’umore che aveva quando, alla fine della giornata,
smise di fare telefonate a tutti i compagni, o almeno a quelli che non erano
già partiti per le vacanze estive, era certo che non apprezzava quello che
aveva scoperto. O che non aveva scoperto. O che le conversazioni avevano
confermato. Parlò a lungo con suo marito, quella sera, e lui, da dietro la
porta semichiusa alla base delle scale, ascoltò ogni parola.
“Nessuno sa ancora dei suoi genitori, dato che è
successo più di due settimane dopo la fine della scuola. Svariati immagino
siano già partiti, dato che non rispondono; quelli che sono ancora in città, mi
han detto che l’hanno chiamato spesso al cellulare per invitarlo ad uscire con
loro, ma lui ha accettato solo le prime due volte, e a quanto pare non ha fatto
parola dell’incidente. Hanno detto che quando era con loro era sempre allegro e
vivace come suo solito, anche se… ogni tanto sembrava
parlare da solo. Ma dopo quelle due volte, non sono più riusciti a contattarlo,
il suo cellulare era spento e a casa non rispondeva nessuno.”
“Non si sono insospettiti di nulla?” chiese lo zio.
“Ovvio che sì,” sospirò la donna. “Erano preoccupati,
probabilmente non sapevano neanche che avesse una zia qui in città. Alla fine
hanno cominciato a chiedermi se gli è successo qualcosa, e se sta bene. Io ho
risposto di sì, che non è a casa sua perché i suoi genitori sono dovuti andare
in Europa per qualche tempo con Selphie. Non ho
dovuto dire altro, credo abbiano dedotto il perché da soli. Se non l’ha detta
lui la verità, non capisco perché dovrei dirla io. Hanno chiesto il nostro
indirizzo, ma non gliel’ho dato… Vada lui da loro,”
finì con stizza.
Lo zio si grattò il mento con espressione pensosa:
“Questo quindi non risponde alla nostra domanda, allora: cosa va a fare in giro
quando dice di uscire con i suoi amici?”
Sua zia cominciò a stringersi le dita di una mano con
quelle dell’altra, mentre si mordeva il labbro inferiore in un gesto di ansia:
“Io… non lo so. Però oggi ho incontrato la nostra
vicina, che lavora alla gelateria e sa perché il ragazzo si è trasferito qui.
Mi ha chiesto come sta, e se avesse dei problemi. Io le ho domandato cosa diavolo
intendeva, e mi ha raccontato…” lasciò la frase in
sospeso, stringendo e allentando convulsamente i pugni. Suo maritò la incitò
con un’occhiata eloquente.
“Mi ha raccontato che l’altro giorno, lui è andato a
comprare un ghiacciolo e, una volta uscito, si è seduto su una panchina isolata
ai lati del parco. Ma da dov’era, lei poteva vedere chiaramente che il ragazzo,
per tutto il tempo, ha parlato, riso e scherzato da solo.”
Il silenzio riempì la sala da pranzo, per qualche
minuto, durante il quale suo zio aggrottò la fronte e guardò minacciosamente
verso il soffitto, nella direzione della sua camera da letto, e la zia spostò
lo sguardo un po’ dovunque per la stanza, non soffermandosi mai su niente,
rendendosi conto che, se si fosse fermata e avesse accettato quello che era
appena uscito dalla sua bocca, sarebbe scoppiata a piangere.
“E io e te sappiamo che non è la prima volta che questo
accade,” concluse, con voce tremante.
E in pochi secondi, la zia era lì che piangeva e
singhiozzava disperatamente, e lo zio aveva fatto il giro del tavolo in un
attimo per andare ad abbracciarla e confortarla.
“Io non so cosa fare, quel ragazzo è pazzo, pazzo! Cosa devo fare, non lo voglio in
casa mia, non lo voglio!” La donna
stava quasi urlando, tra le braccia di suo marito, i palmi delle mani contro il
suo petto, “Non voglio, non voglio! Dannati, siano tutti dannati loro!”, lacrime scivolavano lungo le sue guance
arrossate e andavano a bagnare la camicia dell’uomo.
Lui levò lo sguardo dalla fessura, risalì le scale silenziosamente
e tornò in camera sua, richiudendo la porta dietro di sé.
Nel buio della notte, senza alcuna luce a fargli
compagnia, sorrise soddisfatto e alzò la mano in segno di saluto: “Ehi.”
x-x-x
“Spiegandolo in modo riassuntivo, il ragazzo ha
frequenti allucinazioni, visive e uditive, se non anche di altro genere. A
quanto sappiamo, sembra in grado di vedere mondi meravigliosi e interagire con
le persone che vi trova, parlare con loro e farsi condizionare. Direi che con queste… sue visioni, ha un buon rapporto – intendo dire,
non si tratta assolutamente di incubi, anzi, al contrario, di cose così
piacevoli che, come abbiamo visto negli ultimi tempi, lui preferisce e colloca
al di sopra di amici e famiglia. Posso dire con sicurezza che, mentre ha queste
allucinazioni, lui crede di essere felice. E non si tratta di una vera e
propria malattia mentale come temevate, bensì di un problema psicologico nato
in conseguenza alla morte dei suoi familiari. Quando, in una delle sedute, gli
chiesi di parlarmi di sua madre, lui non ebbe la classica reazione che ci si
aspetterebbe da un bambino che l’ha persa meno di tre mesi prima: si è lanciato
eccitatissimo e con tono adorante in una spiegazione sulla bellezza
caratteriale di sua madre. Mi ha parlato del fatto che ella usava narrare
storie di posti stupendi visitati in giro per il mondo.”
“Nonostante nelle ultime sedute abbiamo acquisito più
confidenza, è ancora evidente la sua riluttanza nel parlarmi a fondo della
situazione che ora sta vivendo e che lui stesso sa essere ‘nuova’ e per certi
versi problematica. Per ora ho potuto elaborare solo alcune ipotesi, che ci
terrei ad esporvi.”
x-x-x
La terza volta, in realtà non avvenne.
Sarebbe
avvenuta, se non fosse stato per il tempestivo intervento dei suoi due migliori
amici.
Quella sera era particolarmente afosa, sia lui che gli
altri due indossavano canottiere e pantaloncini, e tutti tenevano in una mano
il loro skateboard e nell’altra un ghiacciolo azzurro cielo.
“Ah, finalmente ti sei deciso a uscire con noi! Non ci
avevi detto che ti eri rotto una gamba e un braccio!” rise il ragazzo dai
capelli biondo sabbia, sedendosi sulla panchina e dando una leccata al
ghiacciolo, che già si scioglieva a causa del caldo. “Non ci hai neanche
raccontato come è successo! Voglio dire, se non ti avessimo incontrato oggi per
caso mentre passavamo per il parco, non avremmo saputo di te fino alla fine
delle vacanze! Perché non accendi più il cellulare?” chiese, mettendo il
broncio e mostrandosi offeso.
Il ragazzo dai capelli color cioccolato rise, e si
grattò la nuca imbarazzato: “Ah, mi sa che l’ho perso…
Comunque non ho fatto molto quest’estate, non sono andato da nessuna parte dato
che sto con mia zia e, ecco, lei non è il tipo da fare vacanze altrove quando
c’è il mare così vicino… Inoltre, non credo che abbia
intenzione di spendere per me più del minimo necessario.”
“Hah, tua mamma ti ucciderà
per la storia del cellulare,” scherzò l’amico coi capelli arancioni, anche lui
lasciandosi cadere sulla stessa panchina, “…Comunque
è vero, tua zia mi sa un po’ di arpia, lo sai? Una volta mi ha telefonato, e
non è stata molto amichevole. E poi, da come ne parli…
A proposito, quando tornano i tuoi?”
Lui sospirò, sorridendo malinconicamente e alzando gli
occhi al cielo, dove la luna piena si stagliava con limpida chiarezza sullo
scuro manto stellato: “Non so,” leccò la punta del suo ghiacciolo, “Li sto
ancora cercando.”
Entrambi gli amici si scambiarono un’occhiata
perplessa.
Un attimo prima che chiedessero spiegazioni, però, si
bloccarono, notando le strane azioni dell’altro ragazzo.
Era in piedi, davanti a loro, con un’espressione tra
l’incuriosito e il disgustato dipinta sul volto giovane, e una mano alzata
davanti ai suoi occhi, con il palmo aperto in direzione della luna, che
inondava di luce argentea i disordinati capelli scuri.
Il ghiacciolo nell’altra mano scivolò a terra senza
alcun rumore.
Mosse le dita, una dopo l’altra , lentamente, davanti
alla sua faccia, e due iridi blu intenso seguivano ogni loro movimento, come
affascinate. Alzò anche l’altra mano, e fece la stessa cosa, dimenticando
completamente la presenza dei due amici al suo fianco. Piano, i suoi occhi si
abbassarono, seguendo la sagoma delle sue stesse braccia, superando i gomiti, e
puntandosi finalmente sul suo petto.
I suoi occhi si spalancarono in stupore, e un sorriso
malsano, di felicità e spavento allo stesso tempo, si allargò sul suo viso.
I suoi amici non sentirono il suo debole sussurro, e
lui non udì il loro tono preoccupato quando chiesero: “Ehi, stai bene?”
Ma lui non rispose: portò rapidamente una mano nella
larga tasca laterale dei pantaloni, e dopo pochi secondi la estrasse,
impugnando un coltellino svizzero, che scattò aperto. I ragazzi vicino a lui
sgranarono gli occhi terrorizzati.
“Allora proviamo,” rise lui, divertito, puntando il
coltellino verso il cuore.
E mentre
l’oggetto, la cui lama luccicava sinistra sotto la luna, scendeva e si
avvicinava sempre di più al suo petto, due mani fermarono all’improvviso le sue
braccia e un altro paio lo strinsero da dietro, bloccando i suoi movimenti.
“Cosa state facendo?!” ruggì con rabbia, dimenandosi
per liberarsi dalla presa ferrea, “Lasciatemi! Lasciatemi!”
“Cosa cazzo stai facendo tu, idiota!” urlò il biondo, che ancora tentava di strappargli
l’arma dalle mani. “Ti stavi per ammazzare! Che diavolo volevi ottenere?! ‘Proviamo’?! Sei pazzo?!”
“Non mi stavo ammazzando, io non posso morire, imbecille!” continuò a scalciare, a divincolarsi,
a riavere il controllo del suo coltello. “Non vedevi?! Io non posso morire di notte, sono uno scheletro! Sono maledetto! Non posso! LASCIAMI! Lui mi ha detto che
è la nostra maledizione!”
E allora si accorse delle facce sconvolte dei due amici
disperati che lo tenevano fermo e che tentavano di tirare fuori i cellulari per
chiamare aiuto.
x-x-x
“Io temo, signora… che il
ragazzo abbia subito un tale trauma che la sua mente ha cancellato il ricordo
della morte dei suoi parenti.”
x-x-x
Lo psicologo gli prescrisse dei medicinali.
“È per farti stare calmo, ragazzo,” gli fu spiegato.
Nei giorni seguenti si sentì particolarmente vuoto e
privo di energie.
All’ospedale i suoi amici avevano scoperto dove viveva,
insieme ad altre cose.
“Ci dispiace per i tuoi, noi…
non lo sapevamo,” mormorò il biondo, con la testa china verso il basso.
Occhi blu oceano scrutarono le due persone sedute sul
letto: “Cosa?”
Il biondo alzò la testa, lo sguardo triste: “Lo sai... Non… Non so cosa
dire, se hai… bisogno di qualcuno, noi siamo qui
per—”
“Andate via,” sussurrò, abbassando lo sguardo e
fissando il suo tappeto come se meritasse la sua piena attenzione.
“…eh?” entrambi i ragazzi lo
guardarono ansiosi.
“Andate via. Andate via. Andate via. Andate via,” ripeté più volte con maggior
forza.
Il biondo aprì e chiuse la bocca, senza emettere alcun
suono, indeciso su cosa dire: “Ehi, noi volevamo solo—”
“Andate. Via.”
I due gli lanciarono un’ultima occhiata preoccupata,
prima di alzarsi e uscire silenziosamente dalla stanza. Il ragazzo si alzò
dalla sua sedia vicino alla scrivania, e si lasciò cadere pesantemente sul
letto, la schiena contro il materasso.
Lentamente, sorrise. Alzò una mano verso il soffitto e
allargò le dita: “Ah, alla fine siamo davvero rimasti solo io e voi a
cercarli,” ridacchiò.
Ma sentì subito un’inusuale stanchezza invaderlo per
l’ennesima volta, e fu costretto ad abbassare il braccio. Rimase in quella
posizione per parecchio tempo, e il suo sorriso cominciò a scivolare via,
sostituito da una smorfia di paura.
Nella solitudine della sua stanza, i sogni si
tramutarono lentamente in incubi.
x-x-x
“È come se il fatto di non essere riuscito a compiere
la dimostrazione di ciò che le sue allucinazioni gli assicuravano, a differenza
dei successi delle altre volte, l’avesse ulteriormente tramortito. E sembra non
abbia più certezze, gli stessi mondi che vedeva prima, ora più spesso gli
appaiono come reali minacce. Probabilmente, allo sblocco di questa fase del suo
problema, ha contribuito la presenza all’evento dei due amici, inizialmente all’oscuro
di tutto. Ora come ora si trova in uno stato di totale vulnerabilità
psicologica. Da quello che mi hanno riferito i ragazzi, sembra non solo
convinto che i suoi genitori siano ancora vivi, ma anche che si trovino in qualche… mondo esotico e fantastico, che lui sta
disperatamente cercando. Ma allo stesso tempo, l’inconscio, a differenza del
suo attuale stato mentale, è consapevole della morte dei genitori; perciò, su
quel livello, credo stia sfruttando questa ricerca come ‘scusa’ per raggiungerli… In parole povere, il desiderio che
inconsapevolmente nutre nel suo cuore è quello di morire.”
x-x-x
C’era una mela rossa davanti al suo piatto, sul tavolo
da pranzo.
La cena era stata trascorsa in silenzio, come ogni
singola cena, se non per i piccoli dialoghi tra la zia e lo zio. Stava
canticchiando a bassa voce, con un sorriso stampato in faccia, quando sua zia
era tornata dalla cucina con il vassoio di frutta. Arrivata la frutta, era
arrivata anche quella mela.
Cominciò a urlare.
“Cosa diavolo ti prende?!” strillò sua zia, tenendosi
ancora una mano al cuore per lo spavento, “Smettila, ragazzo! Smettila, ora!”
Si coprì le orecchie. Lo zio si precipitò dal suo posto
fino a dietro di lui in pochi secondi, prendendogli il braccio e strattonandolo
giù dalla sua sedia.
“È avvelenata! È avvelenata! Non mangiarla, zia!” urlò
disperato, tendendo un braccio verso la donna, mentre l’altro veniva tirato
verso le scale.
“Non dire idiozie! Smettila di gridare, i vicini ti
sentiranno!” ribatté violentemente l’uomo, dietro di lui, prima di voltarsi
brevemente verso sua moglie, “Gli hai dato le medicine oggi?!”
“Non sto scherzando, quella mela è avvelenata, lo
giuro! Lei l’ha creata apposta!” continuò, non dando il tempo di rispondere,
mentre lacrime minacciavano di scendere dagli occhi. “Zia, ti prego!”
scongiurò.
Sorprendentemente, alla base delle scale, riuscì a
liberarsi per un attimo dalla presa dello zio, e sfruttò il momento per
scattare in avanti verso il tavolo, afferrare la mela, e lanciarla verso la
finestra del soggiorno.
La finestra si infranse con un rumore assordante, e
migliaia di frammenti di vetro, taglienti come lame di spada, precipitarono a
terra uno dopo l’altro, alcuni sul tappeto e altri sull’aiuola sottostante.
Smise di gridare, e cominciò ad ansimare per la fatica. Non fece in tempo a
realizzare che, sì, dannazione!, era
riuscito a liberarsi di quella mela, quando sentì un dolore bruciante alla
guancia. E finalmente le prime lacrime caddero.
“Non ti azzardare. Mai più. A fare una cosa del genere.
Ne ho abbastanza di te e dei tuoi giochetti da moccioso, è chiaro?” sua zia era
davanti a lui, con la mano ancora alzata, e stava piangendo, se dallo spavento
o dalla rabbia non l’avrebbe saputo dire. Le sue labbra era chiuse in una linea
sottilissima, e i suoi occhi castani ardevano come braci, colmi di odio.
Dopodiché, lui venne trascinato finalmente in camera
sua. Lasciando la luce spenta e ignorando deliberatamente il letto, si
rannicchiò in un angolo, si portò le ginocchia al petto e stette lì, tutta la
notte, tremando.
x-x-x
Quella non era stata la prima volta, e di certo non fu
l’ultima.
x-x-x
“Ci stiamo trasferendo,” annunciò secca la zia, “Tuo
zio ha ricevuto un’offerta di lavoro, e l’ha accettata. Partiremo tra qualche
settimana.”
Lui non rispose, non diede alcun segno di aver sentito,
e proseguì la sua colazione.
“E… ho trovato un posto,
cercando su Internet. Nella città in cui ci trasferiamo c’è un centro
psicologico, dove accettano persone con problemi psicologici gravi. Se verrai accettato,
cosa che accadrà con una visita e la richiesta del tuo attuale psicologo,
l’anno prossimo non andrai a scuola. Starai nel centro, pagheremo per un anno
intero. Vedi di sfruttare l’occasione per mettere la testa a posto.”
x-x-x
“Sora Hikari,” lesse la
dottoressa sul primo foglio del fascicolo che teneva in mano.
Aerith Gainsborough
era una donna bella, elegante, raffinata. Aveva i capelli lunghi e castani, una
pelle liscissima e degli occhi verde smeraldo che riflettevano un’immensa
gentilezza. Sedeva composta sulla sua sedia dietro la scrivania, e sorseggiava
ogni tanto del caffè bollente da una tazza di ceramica bianco perla. Ne aveva
offerto anche ai due adulti che accompagnavano il ragazzo, che avevano
rifiutato scuotendo la testa con fare stizzito.
“Allora, vi siete appena trasferiti, a quanto ho
capito,” continuò Aerith. “Com’è la tua prima
impressione di Radiant Garden, Sora? Ti piace?”
Sora scrollò le spalle: “Non so proprio, non mi hanno
quasi dato il tempo di vedere la nuova casa.”
La dottoressa si passò un dito affusolato lungo il
mento, non distogliendo lo sguardo da lui, ma lasciandosi sfuggire una lieve
smorfia: “Capisco. I tuoi zii mi hanno brevemente parlato di te,e ho già
ricevuto informazioni dallo psicologo da cui andavi. L’idea di stare qua ti
spaventa?”
“Può venire a partire da questa stessa sera?” li
interruppe bruscamente la zia.
La dottoressa le lanciò un’occhiata stupita, ma si
ricompose, sollevando ancora una volta la tazza di caffè: “Ma certo, non ci
sono problemi… Sora, potresti andare un attimo di là
e sederti su uno dei divanetti e aspettare qualche minuto? Voglio scambiare
un’ultima parola con i tuoi zii.”
Il ragazzo si alzò senza dire una parola, si voltò e
uscì dallo studio, richiudendo la porta dietro di sé. I divani della saletta
d’attesa erano piccoli, ma comodi, ricoperti in morbida pelle rossa.
Qualche minuto dopo, la porta si riaprì, e ne uscirono
tutti e tre gli adulti, prima gli zii, e in seguito la dottoressa, che aveva
stampata sulla faccia un’espressione palesemente insoddisfatta.
Su zia si rimise sulla spalla la borsetta, e con
movimenti bruschi si riaggiustò lo scialle intorno al collo. Dopodiché si voltò
verso di lui, degnandolo di uno sguardo indecifrabile.
“Sora, noi andiamo. Comportati bene. Non fare nulla che
possa spaventare la gente. Ci vediamo tra… qualche
settimana.”
Detto ciò, prese la mano di suo marito, e si incamminò
verso l’uscita.
Sora sentì una mano posarsi sulla sua spalla, un tocco
gentile e una stretta incoraggiante. La dottoressa era in piedi accanto a lui,
che gli sorrideva, tendendogli l’altra mano e invitandolo ad alzarsi.
Ella camminava per i lunghi corridoi dai muri appena
imbiancati con lentezza, i suoi tacchi ticchettavano sul pavimento freddo di
piastrelle, ma era un suono rilassante, cadenzato. L’odore di vernice invadeva
le narici, e la mano pallida era ancora stretta alla sua. Il camice bianco
svolazzava dietro di lei, la treccia di lunghi capelli castani oscillava
delicatamente tra una scapola e l’altra.
“Mi dispiace per l’odore,” disse lanciando un’occhiata
apologetica verso di lui, “Spero non ti dia troppo fastidio, hanno finito di
riverniciarli proprio ieri.”
“Non è un problema.”
La dottoressa Gainsborough
sorrise leggermente, dopodiché si fermò davanti a una porta, liscia e anonima,
dotata di una finestrella che mostrava un spicchio d’interno e di un numero,
‘14’, affisso ad essa in sottili ed
eleganti caratteri argentati.
“Dato che immagino tu sia stanco, inizieremo domani
pomeriggio con le nostre attività, d’accordo?” chiese gentilmente. “Quindi,
questa è la tua stanza, i tuoi bagagli sono già dentro. Domani ti porteranno a
fare un giro del Centro e a conoscere alcuni altri ragazzi che sono qui e hanno
più o meno la tua stessa età.”
Frugò in una tasca del camice, e tirò fuori una chiave
d’argento. La infilò nella serratura, la quale scattò aperta dopo un unico
giro. La porta si aprì sotto la spinta della mano sulla maniglia, mostrando
l’interno della camera. La dottoressa si spostò di lato per lasciarlo entrare:
“La sveglia è alle 8.00, la colazione alle 9.00. Verrà una ragazza ad aiutarti
a trovare la strada quindi non preoccuparti. Ora puoi fare quello che vuoi,
andare a letto subito o iniziare a disfare le valigie, alle 23.00 qualcuno
arriverà a controllare che sia tutto a posto, d’accordo?”
Annuì velocemente. La dottoressa si appoggiò allo
stipite della porta con la schiena, incrociando le braccia sul petto. Il suo
perenne sorriso gentile si fece improvvisamente più triste, ma scomparve subito
sostituito da una serenità forzata: “Sora… non ci
conosciamo ancora, e tu sei appena arrivato, ma voglio che tu sappia che andrà
tutto bene. Non preoccuparti ora, qui staremo sempre con te, se mai avessi
bisogno di qualcosa, vieni a cercarci senza esitazioni.”
Sora annuì con poca convinzione. La dottoressa sorrise
ancora una volta, e se ne andò, chiudendo la porta dietro di sé.
Le pareti della stanza erano bianche, e il pavimento
era ricoperto di piastrelle bianche e alcuni tappeti dalle trame semplici. Una
libreria e un armadio erano collocati lungo il muro, mentre un comodino
fiancheggiava un lato del letto. Camminò verso il letto, lasciandosi cadere
sulle coperte. L’unica finestra della stanza era posta in alto, e da essa si
intravedevano folte chiome verdi.
Quella notte, gli incubi oscurarono ogni luce nella
stanza.
x-x-x
Sora pensava che non ci fosse nulla di più inquietante
e, contemporaneamente, affascinante della Sala Comune.
Dopo il breve giro turistico per il Centro, intrapreso
in compagnia di una vivace e saltellante ragazza giapponese dai corti capelli
corvini e il fisico agile e snello, – “Versione
Corta della presentazione del Centro che devo fare ai nuovi arrivati. Se vuoi,
puoi sempre partecipare alle segretissime spedizioni esplorative che organizzo
con altri ragazzi, effettuabili ad ogni ora del giorno e della notte. Quando
senti il bisogno, chiamami! Ma non dirlo ad Aerith. Comunque…” – Sora aveva scoperto che l’edificio non era poi
così complicato come sembrava dall’esterno. Vi era un’ala completamente
occupata da corridoi e porte numerate – “Qui
ci sono tutte le stanze, e all’inizio di ogni corridoio c’è un tabellone con
segnati i nomi corrispondenti a ogni camera. Tu sei nella stanza 14, nel
corridoio dei giovani” –, un’altra che la Ragazza Saltellante aveva
definito l’‘Area Dottori’ – “Area poco
interessante. Non vale neanche la pena di esplorarla. E c’è sempre odore di
disinfettante. Lascia perdere, ci sono posti migliori. Tipo la mensa!” –,
la mensa in questione, - “Se riesci,
cerca di beccare come inserviente la donna grassottella: dà porzioni di cibo
più abbondanti” – e, tralasciando il cortile all’esterno, c’era infine la
Sala Comune.
Era una vasta sala prevalentemente bianca, con tavoli
rettangolari, sedie e divani sparsi qua e là, persino un tavolo da pingpong e
una televisione piuttosto grande fissata in alto nell’angolo tra due pareti,
con un divano a cinque posti rivolto verso questa.
Ma non era la l’arredamento della stanza che la rendeva
interessante, quanto le persone che l’abitavano.
x-x-x
Riku Honda, diciassette anni,
era un ragazzo che Tidus e Wakka
avrebbero definito, con la loro tipica finezza, ‘schifosamente perfetto’. O
almeno, se incontratisi in un contesto differente.
Aveva capelli argentei che gli sfioravano le spalle, e
due occhi affusolati di un luminoso verde acqua, tanto belli e rari da togliere
il fiato. Come se non bastasse, aveva anche un fisico apparentemente perfetto:
sufficientemente alto, snello, muscoli scolpiti. Sora sospettava fortemente di
un suo passato da modello.
Passava la maggior parte del tempo in cortile,
soprattutto sul campo da basket, dove partecipava anche a dieci partite
consecutive e, se non soddisfatto, si arrangiava giocando da solo. Si muoveva
con un’agilità sconvolgente, ogni sua azione era secca, studiata, mai
eccessiva, perfetta. La squadra in
cui lui si trovava vinceva inevitabilmente.
Lui e il suo ghigno erano assolutamente inseparabili,
una cosa sola. Ma la sua manifestazione di aperta superiorità, Sora notò con
piacere, si limitava a quel sorriso malizioso.
Durante il periodo mensa, Sora cominciò a chiedersi se Riku non si trovasse lì per sbaglio. Era forse stato
incastrato nel Centro da un complotto contro di lui, ordito da gente invidiosa
della sua perfezione? Era un attore in incognito che stava studiando il
comportamento dei pazzi per calarsi al meglio nel ruolo richiestogli? Era—
Un vassoio di plastica volò al di sopra di alcuni
tavoli, atterrando con un rumore assordante nell’improvviso silenzio calato
sull’intera sala, rotto solo dalle urla selvagge di qualcuno.
Sora voltò la testa verso la fonte del rumore, come
d’altronde fecero tutti i presenti.
Vicino a una ragazza dai capelli rossi dallo sguardo
spento, Riku Honda era in piedi sul tavolo della
mensa, la faccia livida, lo sguardo traboccante d’odio, i muscoli tesi come
quelli di una bestia in posizione di attacco, con una mano occupata a tenere
sollevato per il bavero un paziente e con l’altra, stretta a pugno, pronta a
sferrare un destro mortale.
Mentre due giovani infermieri, alti e, se possibile,
più muscolosi del ragazzo dai capelli argentei, si facevano largo nel trambusto
appena scoppiato e si fiondavano addosso all’aggressore, Sora realizzò, con un
certo sollievo, che la perfezione non esisteva.
x-x-x
Kairi Utada,
quattordici anni, era una ragazzina dall’aspetto dolce, dalla corporatura esile
e lisci capelli color mogano che contornavano, in un taglio corto, il viso dai
tratti delicati. Aveva grandi occhi espressivi, dall’iride castana sfumata di
un particolare viola ametista. Quando Sora la incontrò per la prima volta
quella mattina, di primo impatto le sembrò una ragazza normale. Non perfetta, come Riku,
ma semplicemente normale. ‘Normale’ andava ancora bene.
Camminava per la Sala Comune con un pigro sorriso steso
sulle labbra, si avvicinava con disinvoltura agli altri pazienti e parlava loro
con una naturalezza sorprendente, riuscendo occasionalmente a strappare una
risatina. Se non fosse stato per l’età, il ragazzo l’avrebbe facilmente
scambiata per un’infermiera.
Amava il cielo. Era chiaro, da come, seduta sulla
panchina di legno a bordo campo da basket, con i piedi dondolanti e la testa
leggermente reclinata verso l’alto, lasciava i suoi occhi socchiusi vagare per
quell’immensità azzurra che si stendeva infinita sopra di lei, e lo stesso
sorriso di prima tornava, splendente, a segnare la sua espressione.
Lei e Riku erano amici.
Dovunque lui fosse, poco distante, vi era sicuramente anche Kairi.
Era affascinante il loro modo di vivere in dipendenza l’uno dall’altro: un
momento si trovavano nella stessa stanza, a fare cose completamente diverse, un
attimo dopo uno si alzava e si spostava, e l’altro, quasi immediatamente,
interrompeva qualsiasi cosa di cui si stesse occupando per seguirlo con estrema
scioltezza. E nonostante questo, Sora non li aveva visti scambiarsi una sola
parola.
A questo punto era naturale chiedersi quale fosse il
grave difetto di Kairi che minacciava la sua facciata
di ragazza normale.
La risposta arrivò nell’istante in cui quel maledetto
vassoio di plastica volò nella Sala Mensa e atterrò sul candido pavimento
freddo, mentre contemporaneamente le urla di Riku si
levavano dal tavolo vicino al suo e altre, femminili, da un punto più lontano.
Immobile come una statua, di fianco al ragazzo non più
perfetto, Kairi Utada
sembrava completamente imperturbata da ciò che la circondava, dalle grida e dai
rumori: i suoi occhi viola erano spenti, vitrei, e puntavano uno sguardo vuoto
dritto davanti a loro. Il viso non mostrava la minima espressività, e le
labbra, dapprima piegate in quel piacevole sorriso, erano ora semiaperte e
mute.
Rimase in quello stato anche mentre gli infermieri
intervenivano per portare via Riku, e la stessa
ragazza che l’aveva portato a fare il giro del Centro accorreva sul posto,
comparendo dal nulla e spingendo Kairi con gentilezza
fuori dalla sala.
x-x-x
Namine Duane,
quattordici anni, ricordava un angelo.
Aveva un suo spazio personale nella Sala Comune.
Nell’angolo più lontano dalla porta che dava sul cortile, un piccolo pezzo di
muro risultava pesantemente sfigurato da infantili disegni grotteschi di colore
nero.
Una scatola di pastelli giaceva a poca distanza dalla
piccola figura inginocchiata sul pavimento. Più pastelli neri di lunghezze
differenti erano sparsi qua e là, mentre quelli colorati erano ancora
ordinatamente disposti per ordine cromatico nella piccola confezione.
Indossava delle pantofole azzurre e un vestito bianco
di stoffa, senza maniche, con solo dei semplici ricami a fiori lungo l’orlo
della gonna. Per gran parte del tempo rimaneva col viso girato, quindi Sora
poteva solo scorgere la pelle delle gambe e delle braccia, tanto pallide da
confondersi con il vestito stesso, e la chioma di capelli biondi che le
ricadeva in un taglio scalato lungo la schiena. In tutto quell’accostarsi di bianco bianco bianco, Sora temeva, provando un certo senso di colpa,
che se non fosse stato per la macchia nera in continua espansione lungo il
muro, forse non avrebbe notato la ragazza.
Quella si reggeva con una mano a terra, mentre con
l’altra, alzata, stringeva un piccolo pastello, nero anche quello, che era in
perenne movimento e continuava a tracciare un turbinio di linee scure sulla
parete.
Sora passò molti minuti a guardarla disegnare, persa
nella sua silenziosa bolla di solitudine, e a cercare di immaginare il suo
viso. Notò il modo affabile con cui alcuni infermieri si avvicinavano e si
sedevano vicino a lei, le parlavano, le sorridevano, mentre lei rimaneva
rivolta verso la parete, continuando a disegnare figure dai corpi sempre più
umani, e si limitava a scuotere la testa ogni tanto in risposta. Se avesse
detto qualcosa durante quei momenti, Sora non poteva aver sentito, dalla sua
postazione seduta al tavolo su cui alcuni pazienti l’avevano coinvolto in un
gioco di carte che poco lo interessava al momento.
E ancora, tutto quel bianco si addiceva soltanto a un
angelo. Il nero non era il suo colore. Perché i pastelli neri?
Andandosene
dalla Sala Comune, Sora non riuscì ancora a scorgerne la faccia, ma mentre in
mensa Riku saltava su dalla sua sedia per afferrare,
urlando, il paziente davanti a sé, e gli occhi di Kairi
perdevano la loro luce, e con essa ogni traccia di vita, un altro grido si
levava chiaro e agghiacciante nella vasta stanza, prima che scoppiasse il
putiferio.
Vicino al vassoio caduto a terra, ne cadde un altro. Namine, in piedi, era rivolta verso i tavoli, la sua faccia
finalmente in mostra. Sora aveva indovinato, sembrava proprio un angelo: la
pelle innaturalmente pallida, i lineamento dolci, le ciocche di capelli che le
scendevano gentili sulla fronte, e grandi occhi azzurro cielo.
Ma, ripensandoci, il ragazzo avrebbe preferito non
vederli affatto, se quegli occhi dovevano essere sbarrati e semplicemente terrorizzati, le dita sottili tra i
capelli biondi che minacciavano di strapparli da un momento all’altro, e la
bocca dalle labbra rosate aperta in un grido che sembrava infinito.
Gli angeli non dovrebbero soffrire.
x-x-x
“Domani comincerai a partecipare alle sedute di gruppo,
oltre che alle sedute con me. Parleremo a lungo, quindi cerca di abituarti a me
velocemente, Sora, sarò il tuo peggiore incubo.” La dottoressa Gainsborough ridacchiò e gli fece l’occhiolino. Abbassò la
sua tazza di tè sulla scrivania e accavallò le gambe, portando una mano sotto
il mento e lanciandogli un’occhiata meditativa.
“Oggi ti ho
seguito un po’,” cominciò dopo qualche secondo, “Ho visto che hai passato un
bel po’ di tempo con Yuffie, ma neanche oggi hai
parlato tanto agli altri ragazzi, anzi, direi che, sorprendentemente, stai interagendo
più con gli adulti. Non che questo sia un problema. Però ho notato che hai
osservato molto.” Il suo tono sembrava compiaciuto. “Sei il tipo silenzioso che
osserva e ascolta?”
“No, non particolarmente,” ammise Sora, “Di solito sono
quello che fa rumore, ma che ascolta i consigli.”
La dottoressa rise: “Che definizione concisa, Sora.”
Sora tentò un sorriso di rimando: “Così mi definì un
mio amico una volta.”
“Allora aspetto con ansia di poter ammirare questo tuo
lato che mostra gioia nel vivere.” Nonostante la donna avesse appena riso, la
serietà di quelle parole non sfuggì a Sora.
Perché c’è di
nuovo qualcosa che non va.
“Ah, Sora, quasi dimenticavo,” lo richiamò la
dottoressa, “Oggi il ragazzo della camera 13 non c’era, dovrebbe ritornare
stasera tardi. Domani avrai l’occasione di conoscerlo. Volevo solo dirti che… sa essere rumoroso quando vuole. Quindi, se senti
qualcosa o ti trovi in bisogno di aiuto, non esitare a chiamare qualcuno.”
x-x-x
Quella sera, poco dopo l’orario del coprifuoco, Sora
sentì dei rumori provenire dal corridoio. Alcune voci rimbombarono nel
corridoio altrimenti vuoto e silenzioso, una porta si aprì e si richiuse.
Il paziente della camera 13 era tornato.