CAPITOLO I :
Via Col Vento
“Aspetta,
Rhett... Rhett... Se te ne vai, che sarà di me, che
farò?”
“Francamente
me ne infischio”
“Ohh”
fu l’unico verso che riuscii ad emettere, un gemito spezzato
che si accompagnava bene ai miei poveri occhi lucidi ed alla montagna
di fazzolettini accartocciati e sparsi senza logica sopra le lenzuola
spiegazzate.
Non c’era modo
migliore di passare un sabato pomeriggio: io, una tazza fumante di the
al ribes nero e vaniglia, il lettone a due piazze di camera mia e,
ovviamente, Via col Vento.
Da buona cinefila
cresciuta a pane e Cary Grant, il classico del 1939 non poteva che
essere il mio film preferito in assoluto.
E questo non solo per la
grandissima Vivien Leigh che fin da piccola avevo idolatrato come la
dea suprema del cinema, né per tutti quegli abiti magnifici
che i protagonisti avevano indosso o per la magistrale interpretazione
di Clark Gable.
No.
Via col vento era e
sarebbe sempre stato il mio film preferito per via della sua
protagonista, Rossella, e dei drammi che lungo la sua vita dovette
affrontare, drammi ai quali era legata un’unica costante:
l’amore non ricambiato per Ashley, sentimento che si mantiene
sempre vivo negli anni e che sfuma irrimediabilmente troppo tardi.
Rossella era l’incarnazione di quel tipo di donne amanti
delle illusioni, di coloro che credono nell’amore idealizzato
e che per questo non si rendono conto dei sentimenti veri, concreti,
che altri possono provare per loro, accecate come sono da desideri
irrealizzabili.
Rossella
O’Hara era stato l’unico personaggio che avevo
subito amato ed odiato insieme. Così frivola, innamorata,
superba e al tempo stesso così fragile, disperata e
coraggiosa.
La prima volta che vidi
Via col Vento avevo dieci anni. Era estate e in televisione lo davano
tutto intero. Di solito, essendo io estremamente pigra, mi addormentavo
sempre durante il primo tempo, ma quella volta non riuscii a staccare
gli occhi dal televisore neanche durante gli intermezzi pubblicitari. E
dire che durò più di quattro ore!
Io, decenne che non
sapeva nulla dell’amore, trovai quella storia così
veritiera e così ingiusta, che non potei far altro che
incazzarmi di brutto alla fine del film.
Mi ricordo ancora oggi
che mia nonna alla fine mi chiese se mi fosse piaciuto e io le avevo
risposto abbastanza risentita: “ma Rossella è
stupida, perché andava dietro ad un uomo con un nome da
donna quando aveva un marito che l’amava?”
E mia nonna aveva
risposto con una sacrosanta verità:
“Perché, mia cara Becky, le donne sono delle
eterne sognatrici. Se pensano di amare un uomo, lo ameranno per tutta
la vita e nella loro mente lo dipingeranno come un marito perfetto,
anche se in realtà quest’ultimo dovesse essere
solo un ragazzo come un altro nient’affatto interessato a
lei.”
Io l’avevo
guardata come se fosse pazza e avevo sbuffato sonoramente.
Avevo pensato che
Rossella fosse una grande deficiente e che alla fine Rhett avesse fatto
bene a lasciarla.
Tutte le mie convinzioni
erano però cambiate quando vidi il film la seconda volta.
Avevo tredici anni ed
ero alle prese con la prima vera cotta per un mio compagno di classe,
tale Stefano Borghi che tutte le mie amiche consideravano un figo
assurdo e io, ovviamente, non potevo che concordare.
Gli ero corsa dietro in
silenzio per mesi, senza mai riuscire a chiedergli di uscire, troppo
impaurita di ricevere un rifiuto. E, per tutto quel tempo, non mi ero
minimamente resa conto delle attenzioni che un altro mio compagno di
classe, Massimo, aveva cominciato ad avere per me.
Lo giuro, in quegli anni
ero stata talmente impegnata a farmi film mentali sul mio futuro
matrimonio con Stefano, che non mi accorsi mai di nulla. Solo molto
tempo dopo, quando Stefano era ormai solo un ricordo lontano e io e Max
eravamo diventati migliori amici, quest’ultimo mi
confessò della sua cotta infantile per me e quasi non mi
venne un infarto.
Ero diventata
anch’io come Rossella: troppo intenta a idealizzare la mia
cotta per Stefano da non riuscire nemmeno a considerare il mio migliore
amico.
Almeno il finale della
mia storia non era così infelice, visto che io e Max abbiamo
capito fin da subito che non avremmo mai potuto essere
nient’altro che amici.
Inutile dire che
rivalutai completamente il mio giudizio su quella povera ragazza,
etichettandola come ‘romantica idealista’ e
provando un po’ di pena per lei.
Gli anni sono passati,
ma sono sempre rimasta legata a Rossella O’Hara e ogni volta
che mi sento triste, delusa o amareggiata, mi chiudo in camera mia e mi
riguardo Via col Vento, sola con i miei fazzoletti e le tapparelle
abbassate, incurante della vita che va avanti fuori dalla mia finestra.
Ogni volta che lo rivedo
mi comunica qualcosa di diverso, noto particolari o sfaccettature prima
nascosti, ma se c’è una cosa che non cambia mai
è il mio impossibile desiderio di poter cambiare il finale.
Se Rossella si fosse
accorta anche solo un minuto prima di quanto irreale fosse stato il suo
amore per Ashley e quanto vero, sebbene certamente più
complicato, quello per Rhett, sono sicura che sarebbero restati insieme
e che miliardi di fazzoletti sarebbero ancora impacchettati sugli
scaffali di qualche negozio.
Purtroppo
però nella vita non capitano solo storie a lieto fine.
Ma di una cosa sono
rimasta convita in tutti questi anni: se mai troverò il mio
Rhett, sarò più sveglia di Rossella e non me lo
farò scappare.
Il bussare insistente
alla porta di camera mia mi svegliò di soprassalto.
Lo schermo era fisso da
tempo sul menù di Via col Vento e dalle casse, a volume
minimo, si poteva sentire la bellissima colonna sonora composta da Max
Steiner.
“Cazzo
Rebecca, ti decidi a rispondere?”
La solita finezza
espressiva di mio fratello mi fece storcere il naso.
D’accordo,
anch’io ero una ragazza piuttosto scurrile, ma lui proprio
non riusciva a dire una frase senza inserirci dentro una parolaccia!
“Gnomo, io
rispondo quando cazzo
mi pare!” risposi allora io con lo stesso tono esasperato.
“Bene, allora
dirò a Jessica che ti stai schiacciando i tuoi numerosissimi
punti neri e che farà meglio a richiamarti fra un secolo,
quando avrai finito!”
Alzai gli occhi al cielo
cercando di non mandarlo a quel paese e raggiunsi velocemente la porta
che separava il mio regno fatto di pace e cinema dalla
realtà nella quale il mio fratello cerebroleso era,
ahimè, una presenza costante.
Dietro di essa, tutto
impettito come una guardia svizzera, stava quello sfigatissimo
sedicenne con il quale condividevo il DNA.
In mano aveva il
cordless nero e me lo stava sventolando davanti con aria annoiata.
“Non sono il
tuo segretario, la prossima volta alza quel culo cellulitico e vieni a
rispondere tu”
Ma
razza di stronzo!
“Senti, Frodo, sei alto un
metro e un barattolo e potrei schiacciarti come un moscerino, quindi ti
conviene stare zitto e passarmi il telefono”
In realtà era
alto solo qualche centimetro in meno del mio metro e settanta e di
sicuro aveva molta più massa muscolare della mia, ma se la
prendeva sempre parecchio quando qualcuno gli diceva che era basso e
ovviamente, da brava sorella maggiore, negli anni avevo collezionato
battute memorabili su quel tasto dolente.
“Stronza”
“Microbo”
Gli strappai il telefono
di mano senza tanti complimenti e gli sbattei la porta in faccia.
E dire che agli occhi di
tutti sembrava proprio un angioletto, con quei capelli biondo scuro e
quegli occhi verde bottiglia che madre natura gli aveva generosamente
dato. In realtà era solo un insospettabile ruffiano
leccaculo e l’unica che pareva essersene accorta ero io!
“Ahah, tuo
fratello è uno spasso!”
E la mia migliore amica
Jessica, ovviamente.
“Un giorno o
l’altro lo affogo” dissi a denti stretti,
ributtandomi a pesce sul letto.
“Mi pare
difficile, tesoro. Siamo in Lombardia.”
“Anche il
Lambro va bene!”
“Se vuoi farlo
resuscitare con tre teste allora credo che, sì, possa
andare”
Sbuffai ancora
inferocita.
Non era possibile che
quell’Hobbit stesse fuori tutto il giorno a cazzeggiare con
quegli sfigati tamarri che lui chiamava ‘amici’ e
poi riuscisse comunque a prendere buoni voti a scuola e a rendere fieri
i miei genitori! Era decisamente assurdo e ingiusto!
“Sei dei
nostri stasera?” mi chiese Jes con il classico tono annoiato.
Raramente qualcosa la entusiasmava.
Ci pensai un attimo su.
Per ‘nostri’
ovviamente intendeva lei e Massimo e ‘stasera’
non poteva significare altro che ‘birra alle nove e mezza da
Guns and Rock’, il locale che da due anni era la nostra meta
fissa.
“Si
può fare” dissi accondiscendente,
benché in realtà non avessi molta voglia di
uscire. Erano gli ultimi giorni prima dell’inizio del
temutissimo primo semestre e volevo arrivare estremamente riposata al
primo giorno di lezione. (l’ho già detto che sono
pigra, vero?)
“Sai, domani
vado a farmi il nuovo tatuaggio” esordì poi la mia
bionda amica con una strana nota contenta nella voce. Mi correggo, non
era contenta ma sadica.
Jessica Sandrini avrebbe
potuto benissimo ottenere il ruolo dell’adolescente difficile
in ogni scadente teen drama americano.
Aveva tutto per essere
contenta: due genitori che l’amavano (sebbene, lo ammetto, a
volte un po’ troppo severi e iperprotettivi), un aspetto
mozzafiato, un’intelligenza nella norma, uno spiccato talento
per l’arte, flotte di ammiratori da tutte le parti.
Eppure, fin dal primo
momento in cui la conobbi in prima liceo, si era sempre ostinata a fare
la parte della teenager allo sbando, la ragazzina incompresa da tutti
con dei genitori asfissianti che non la accettano e che quindi riversa
tutto il suo rancore nell’autolesionismo.
Come non ricordare di
quella volta in cui fu sospesa per una settimana dopo che la beccarono
a fare sesso nei bagni della scuola? E di quella volta in cui non
pronunciò nemmeno una parola per una settimana? E di quando
la sorpresi con una scorta di pillole illegali in camera da letto? E
dei mesi passati alla fame forzata? Per non parlare di quando fu
portata al pronto soccorso perché era svenuta a una festa
dopo aver bevuto decisamente troppo.
Insomma, Jex provava con
tutte le sue forze ad essere una ragazza difficile. Ma, per come la
vedevo io, i suoi dovevano essere proprio dei santi a non averla
rinchiusa già da tempo in qualche centro di salute mentale.
Ed ora
l’ultima follia di Jex erano diventati i tatuaggi e i
piercing: in neanche un anno si era fatta incidere un grande tribale
sulla scapola destra, una frase in cirillico alla base della schiena
(sottolineo che nessuna delle due conosce nemmeno l’alfabeto
cirillico, figurarsi sapere cosa diavolo c’è
scritto!), un sole stilizzato sulla caviglia e un cavalluccio marino di
fianco all’ombelico!
“Jex, non ti
sembra di esagerare?” provai a dirle, sapendo già
di combattere una battaglia persa in partenza.
“Ti pare?
È solo l’inizio! A proposito: tu hai scelto cosa
fare?”
Alzai gli occhi al
cielo, cercando di non sbuffare.
Tempo prima avevo
promesso alla mia amica che avrei fatto anch’io un tatuaggio,
ma ancora non avevo trovato il soggetto adatto e non ero il tipo che si
faceva incidere cose a caso sul corpo solo per accontentare
un’amica incontentabile.
“Non
ancora” dissi atona.
“Bene, ma
almeno cerca di esserci stasera. Mi sono procurata delle
canne” mi rispose lei e sapevo per certo che aveva stampato
in viso quel ghigno luciferino che aveva sempre prima di fare una
boiata.
“Jex, lo sai
che non mi va”
Mi sdraiai a pancia
all’aria sul comodo materasso. Com’era possibile
che Jessica rimanesse sempre uguale a sé stessa? Non aveva
mai un minimo di cambiamento, un’evoluzione, una nuova idea
(tranne ovviamente quelle autolesioniste).
“Oh andiamo,
sappiamo entrambe che l’estate scorsa abbiamo fatto cose ben
peggiori insieme!”
“Hai detto
bene, l’estate scorsa.”risposi a denti stretti.
Possibile che mi rinfacciasse sempre quell’estate allo
sbando?
“Oh scusa,
suor Rebecca! Non mi ricordavo di quanto fossi diventata
noiosa” mi disse sarcasticamente.
“Jex, non
seguire le tue stronzate non significa essere noiosi”
La discussione stava
prendendo una brutta piega, ce ne eravamo rese conto entrambe;
così la mia migliore amica fece ciò che
più le riusciva meglio: fare finta di nulla e cambiare
argomento prima di una delle nostre solite litigate epiche nelle quali
lei diventava la povera vittima e io ottenevo il ruolo della frustrata
bacchettona.
“Come vuoi.
Vado a piastrarmi i capelli, mettiti il top nero che ti ho regalato, ti
fa due tette da urlo! Ah e già che ci sei passa a prendermi,
mi sono ricordata che non ho la macchina! Avverto io Max” mi
disse fintamente contenta lei, prima di riattaccarmi il telefono in
faccia.
Alzai gli occhi al
cielo, cercando di trattenere una serie infinita di insulti.
Dio, prima o poi avrei
smesso di preoccuparmi per lei e l’avrei tagliata fuori dalla
mia vita.
Io e Jessica eravamo
sempre in disaccordo su tutto, ma ultimamente stavamo veramente ai
ferri corti.
Il fatto,
però, era che non riuscivo proprio a staccarmi da lei.
Negli anni del mio
snobbissimo liceo artistico, lei era sempre stata l’unica
persona interessante, particolare e fuori dagli schemi che avevo
incontrato. Io, una ragazza piuttosto peculiare che non aveva mai amato
i gruppetti e le etichette, mi ero trovata particolarmente bene con
Jessica, la persona più pazza che avevo mai conosciuto.
All’inizio,
dopo due mesi di assoluto isolamento da quelle oche giulive che erano
le mie compagne di classe, mi ero ritrovata ad essere la vicina di
banco di Jessica più per convenienza che altro. Anche lei,
come me, se ne stava sempre in disparte e non amava perdersi in
chiacchiere, sebbene a differenza mia lei fosse in tutto e per tutto
una ragazza stupenda, una di quelle che i ragazzi fanno la fila solo
per salutare.
Dopo qualche tempo,
però, avevo convenuto che la bionda fosse l’unica
persona in grado di capirmi, la sola ragazza in tutta la classe che non
si metteva a strillare per un’unghia spezzata, la sola che
preferiva i Pearl Jam a David Guetta, l’unica con qui potevo
discorrere di concetti un po’ più profondi di
ragazzi fighi e collezioni invernali di Marc Jacobs.
All’inizio non
era neanche così fuori di testa. Certo, amava far incazzare
i suoi per ogni piccola cosa, si tingeva i bellissimi capelli biondi di
nero e viola, diceva di essere satanista e amava disegnare figure
impiccate.
Però era
stato un periodo della sua vita come un altro. Andiamo, chi non ha mai
fatto esperienze goth al giorno d’oggi?
Il problema era che
negli ultimi mesi questa sua disperata ricerca di problemi era
diventata una vera e propria fissazione, l’unico vero
obbiettivo della sua vita e gli esiti spesso risultavano decisamente
troppo eccessivi.
Il solito insistente
bussare mi riscosse improvvisamente dai miei pensieri.
“CHE VUOI
ANCORA?” mi misi a urlare esasperata. Jessica mi stava
veramente prosciugando!
“Mi serve il
telefono, vecchia!”
Aprii la porta di scatto
e davanti a me trovai la solita bassa figura del sedicenne
rompiscatole, questa volta però vestito di tutto punto.
“Dove vai
conciato così?” chiesi cercando di non ridergli in
faccia e dando uno sguardo veloce all’orologio. Era quasi ora
di cena e neanche me n’ero resa conto.
“Al
diciottesimo di Simo; il riccone ha prenotato la sala
all’Insomnia” mi rispose lui senza il minimo
entusiasmo. Simone era il ragazzo più truzzo che avessi mai
incontrato e il fatto che avesse quasi la mia età mi faceva
sempre rabbrividire.
Storsi il naso.
L’Insomnia era il classico locale per fighetti del paese, un
discopub con una sala privata che solitamente veniva prenotata per
feste ed eventi speciali. In tutti i miei diciannove anni di vita non
ci avevo mai messo piede e ne andavo estremamente fiera. La clientela
era quanto di più odioso si potesse immaginare, ricchi figli
di papà con la puzza sotto il naso che ci provavano tutto il
tempo con le povere cameriere e che sniffavano coca da mattina a sera.
Indecenti.
“Bene, mi
sembra inutile dirti che io non ti ci accompagno” dissi senza
il minimo interessamento. I miei lavoravano per una grande azienda
farmaceutica ed erano andati a Berlino dove era in corso una grossa
acquisizione, per cui non sarebbero tornati prima della settimana
successiva.
Il nano mi
guardò in tralice.
“Lo so che sei
stronza, mi serve il telefono per chiedere a Paolo un
passaggio”
Guardai mio fratello
attentamente e giunsi alla conclusione che eravamo davvero
incompatibili. E dire che quando eravamo piccoli ci volevamo
così bene!
“Dai, non fare
l’idiota. Ti porto io. A che ora?” dissi, in un
insolito slancio di gentilezza.
Lui mi scrutò
per qualche secondo, come se volesse capire se fosse una trappola o
meno.
“Nove e mezza.
Non mi prendi per il culo, vero?”
“No. Ma prima
passiamo a prendere Max e Jex” dissi sbuffando, chiudendogli
di nuovo la porta in faccia.
Avevo ancora
un’oretta per prepararmi.
Spalancai il mio
armadio, afferrai l’indumento che Jex mi aveva quasi
obbligato a mettere e lo guardai con aria critica, prima di sospirare:
“top nero sia!”
Un’ora dopo
uscii dal bagno di camera mia e osservai attentamente il risultato
nello specchio a figura intera di fianco alla porta: non ero poi
così malaccio.
Certo, non avrei mai
potuto competere con la bellezza stratosferica di Jessica, ma almeno
sembravo meno bambina del solito.
Ero piuttosto bassa e
magrolina, quindi era molto comune scambiarmi ancora per una
quindicenne acqua e sapone. Molto spesso, quando incontravamo dei
conoscenti dei miei fuori a cena, venivo puntualmente scambiata per la
sorella minore e non avete idea di quanto tutto questo mi abbia sempre
fatto arrabbiare!
Quella sera
però, forse per il top nero che riusciva a valorizzare le
mie – poche – curve o forse per le
decolté in vernice che aggiungevano una decina di centimetri
alla mia altezza, apparivo in tutto e per tutto quale la classica
diciannovenne che ero. Mi sistemai i capelli castano chiaro in una coda
alta e mi passai un filo di mascara sulle ciglia già lunghe.
Certo, mio fratello aveva ereditato gli occhi di quel verde intenso che
adoravano tutti mentre a me erano toccate le classiche iridi nocciola,
ma perlomeno le mie ciglia erano lunghe anche al naturale!
Presi al volo la borsa
nera lucida e afferrai le chiavi della mini blu dal piattino sistemato
al centro del tavolo in cucina.
Mio fratello stava
ancora facendo zapping spaparanzato sul divano.
“C’è
della posta per te” mi annunciò annoiato, mentre
spegneva la tv e si lisciava la camicia bianca.
Alzai un sopracciglio
interrogativa.
Sarà
il libro che ho ordinato.
Ma appena raggiunsi il
tavolino di fianco all’ingresso notai che vi era solo una
piccola busta con su scritto il mio nome.
In preda alla
curiosità l’aprii in mezzo secondo e cacciai un
urlo eccitato.
“OMMIODDIO NON
CI POSSO CREDERE!”
Cominciai a saltellare
in giro per casa, ma la smisi subito quando in un eccesso di
felicità quasi non mi slogai la caviglia atterrando
malamente su quei trampoli che avevo al posto delle scarpe.
“Che diavolo
hai? Finalmente la razza aliena che ti ha concepito è
tornata a prenderti?”
Ero così
contenta che il sarcasmo di mio fratello non mi toccò
minimante.
“Lo sai che ho
fatto domanda per il corso di regia a Los Angeles per
l’estate prossima?” chiesi retoricamente, non
smettendo per un attimo di urlare.
“Come potrei
dimenticare, dopo tutti quei giorni passati a filmare il tuo stupido
documentario in giro per casa” mi rispose lui, per nulla
contagiato dalla mia euforia.
“Beh, la
novella Hitchcock qui presente è stata accettata!”
“Itci
che?” mi domandò quell’ignorantello.
“Hitchcock!!
Il regista di Psycho, Vertigo e un milione di altri film! Ma dove
vivi?”
Non ci potevo davvero
credere! Io, la ragazza cinefila con il sogno di diventare regista, ero
stata presa ad uno dei corsi di regia cinematografica più
famosi al mondo!
Avevo letto
l’annuncio qualche mese prima su un giornale di cinema a cui
mi ero abbonata. Da sempre avevo sognato di partecipare a un corso
estivo di regia e il fatto che quello si tenesse a Los Angeles non
aveva fatto altro che acuire ancora di più la mia
curiosità.
Bisognava solo inviare
il modulo di iscrizione con tutti i dati personali necessari e un
documentario amatoriale riguardante una settimana tipica
dell’interessato. I posti per gli studenti stranieri erano
solo quindici e sapevo di per certo che non sarei mai stata
accettata.
E invece ecco la lettera
di conferma!
La mia gioia si
tramutò ben presto in panico quando vidi una nota di vitale
importanza in fondo al biglietto: Si
ricorda che l’istituto pagherà solamente le
lezioni, tutte le altre spese saranno a carico
dell’interessato.
Oh
merda!
E dove li trovavo io
tutti quei soldi?
I miei avevano mi
avevano già pagato la macchina e la retta
dell’università, di sicuro non avrebbero sborsato
altri soldi per me, non dopo che mio fratello aveva ottenuto il
permesso di fare un viaggio con i suoi amici in Spagna!
Il campanello di casa si
mise a suonare interrompendo i miei ragionamenti e la mia ansia.
Becky, calma. Ci penserai dopo,
mi dissi e riposi il volantino nella mia borsa.
Cinque secondi
più tardi eravamo seduti in macchina: Io, mio fratello e il
motivo per il quale in tutti quegli anni non avevo ancora strozzato
Jessica, ovvero il mio migliore amico Max.
Il moro era il ragazzo
più amabile che avessi mai avuto la fortuna di conoscere.
Era intelligente, sarcastico, sempre sorridente e, cosa incredibile,
riusciva a calmare quella bionda isterica della mia amica.
Eravamo vicini di casa
dalla nascita, ma non l’avevo mai calcolato fino alle medie,
quando eravamo finiti in classe insieme ed eravamo diventati subito
inseparabili.
Ci eravamo separati un
po’ il primo anno di liceo, quando lui aveva deciso di fare
il classico mentre io avevo decisamente optato per
l’artistico, ma eravamo comunque rimasti uniti negli anni e,
forse anche per il fatto che i nostri istituti fossero gemellati, ci
eravamo ritrovati spesso agli stessi eventi.
Era sempre attorniato da
una miriade di ragazze e, per questo, molti idioti invidiosi avevano
messo in giro la voce che fosse gay.
La cosa strabiliante era
stata che Massimo non aveva mai negato quel pettegolezzo, dicendo che
la sua sessualità era solamente affar suo. Questo, unito al
fatto che mai in cinque anni aveva avuto una ragazza fissa e che si
vestisse sempre in modo impeccabile, aveva fatto sì che
ormai tutti lo considerassero omosessuale al cento per cento.
Dal canto mio, quelle
voci non mi erano mai interessate. Etero, gay, puffo, unicorno, per me
sarebbe rimasto sempre Max, il vicino di casa che mi aveva tenuto
delicatamente la testa mentre vomitavo l’anima dopo la mia
prima sbronza, il ragazzo con un raffinatissimo gusto musicale che mi
ha introdotto ai Doors, Dire Straits, Pixies e David Bowie, il ragazzo
che aveva avuto una breve cotta per me. Insomma, il mio migliore amico.
E, se proprio vogliamo
dirla tutta fino in fondo, il modo in cui il suddetto migliore amico
aveva sbavato guardando la quarta di reggiseno di quella troietta di
Valeria all’ultima festa post-maturità faceva
presumere che fosse tutto fuorché gay!
Jessica abitava qualche
isolato più avanti e non appena accostai davanti a casa sua
la trovai già fuori ad aspettarmi, impeccabile nel suo
vestitino verde acqua.
Come era possibile che
una ragazza dalla bellezza così adulta e raffinata fosse in
realtà una bimba immatura?
Aprì di
scatto la portiera e squadrò velocemente i presenti per poi
rivolgere la sua attenzione allo specchietto per sistemarsi il
lucidalabbra.
Jessica non salutava mai.
Dopo neanche due secondi
tirò fuori dalla borsetta rossa un pacchetto di Marlboro
light e ne sfilò una sigaretta, pronta a fumarla.
La guardai male.
“Jex, non in
macchina” l’ammonii. Cazzo, era la milionesima
volta che glielo ripetevo!
Anch’io fumavo
ma i miei si arrabbiavano da morire se l’auto poi puzzava!
“Dai Jessy,
cinque minuti e siamo arrivati” le disse gentilmente Massimo
dal sedile posteriore e lei con uno sbuffo rimise la sigaretta al suo
posto. Chissà perché il mio amico riusciva sempre
a farla ragionare!
Pochi minuti
più tardi fermai la macchina nel grande parcheggio in centro
a quello che tutti i ragazzi chiamavano ‘viale dei
pub’, che alla fine altro non era che una lunga
via dove risiedevano i locali più frequentati della zona.
Senza neanche farlo
apposta il Guns and Rock era proprio di fronte all’Insomnia
per cui mio fratello mi salutò con un cenno del capo e
attraversò velocemente la strada.
“All’una
e mezza ce ne andiamo, quindi vedi di essere qui fuori per
quell’ora perché io non ti aspetto!” gli
urlai dietro. Benché fossi certa che mi avesse capito
benissimo, non mi fece alcun segno e si rintanò in quel
postaccio da cui arrivava forte e chiaro il tunz tunz di quella
fastidiosissima ‘musica’ house.
“Che
tamarro” mi lasciai sfuggire con disapprovazione prima di
seguire i miei amici all’interno del mio posto preferito in
assoluto: il grande pub in stile rock degli anni d’oro famoso
per le sue pinte di ottima birra a poco prezzo, per le luci soffuse e
per della vera
musica, altro che tunz tunz!
Come sempre ad
accoglierci c’era Linda, la mia cameriera preferita: una
venticinquenne con un grande senso dell’umorismo e un sorriso
contagioso. La sua sola presenza attirava decine di clienti e questo
Teo, il proprietario, doveva averlo capito, visto che la faceva
lavorare quasi sempre!
“Ciao ragazzi,
solito tavolo?” ci chiese subito e noi annuimmo. Da anni
avevamo un tavolo che consideravamo ‘nostro’ e
ormai le cameriere erano abituate a lasciarlo sempre a noi.
Una volta accomodati ci
diede le liste e passò a prendere le ordinazioni di un
gruppo di ragazzoni in fondo alla sala.
In sottofondo si
potevano chiaramente distinguere i Nirvana e questo mi fece rilassare.
Decisamente il Guns and Rock era il posto adatto a me.
“Ragazzi, devo
dirvi una cosa” dissi entusiasta, non appena la canzone
finì.
“Cosa, hai
deciso di farti suora?” mi rispose la bionda piccata,
probabilmente ancora incazzata con la sottoscritta per la discussione
al telefono di quel pomeriggio.
Come al solito ignorai i
suoi commenti acidi e concentrai la mia attenzione su Max che mi
osservava incuriosito.
“Mi hanno
preso al corso di Los Angeles!” dissi tutto d’un
fiato per poi mettermi a battere le mani come una cretina.
“Cazzo!”
esclamò sempre in maniera fine e posata la mia amica, mentre
il moro si limitò ad abbracciarmi.
“Non mi
stupisco, dopo tutti quei giorni passati con la telecamera in
mano!”
“Sì
ma non credo ci potrò andare” dissi amaramente,
estraendo il foglietto informativo dalla borsa.
I due si misero a
leggerlo subito e, come avevo fatto io, scossero increduli la testa
quando arrivarono a quella maledetta frase.
“Ma
è inaccettabile!” trillò Jessica, al
colmo dell’indignazione.
“Beh,
però non vuol dire che non ci andrai” disse
rassicurante Max.
“E dove li
trovo i soldi per l’aereo, il dormitorio, il cibo, le
assicurazioni, le spese extra? Ho via un po’ di risparmi ma
non basteranno mai per tutti e tre i mesi!” asserii
mestamente.
Linda arrivò
per prendere le ordinazioni, veloce ed efficiente come sempre, e ci
lasciò lo scontrino sul tavolo prima di tornare ai suoi
doveri. Quella sera il posto era particolarmente affollato!
“Perché
non ti trovi un lavoro?” chiese pensieroso il mio amico
qualche minuto di silenzio dopo.
“E come
faccio? Di giorno ho i corsi!” ero stata presa a Scienze
delle comunicazioni e, costi quel che costi, sarei stata una
studentessa modello!
“Infatti
pensavo a qualche impiego serale. Ho saputo che all’Insomnia
si è appena licenziata una cameriera. Magari hanno bisogno
di una mano”
Fortuna che le birre non
erano ancora arrivate, altrimenti mi sarei strozzata di sicuro.
“MA SEI FUORI?
Io in quel postaccio non ci lavoro!” ribattei indignata.
Anche solo il pensiero di quel pub mi faceva star male, figurarsi
lavorarci!
“Eddai, come
sei schizzinosa! Devi solo lavorarci, non sarà
così male”
“Oppure
potresti rapinare una banca. Se vuoi ti aiuto” disse Jessica
con nonchalance. Fosse stata qualsiasi altra persona a parlare,
probabilmente mi sarei messa a ridere, ma con Jessica era quasi certo
che quelle non fossero solo parole al vento.
“No Jex,
niente galera.” Lei alzò le spalle disinteressata
mentre tirava fuori dal borsellino i soldi per pagare. Di solito
dividevamo sempre in tre, ma per qualche mese Jex era rimasta senza un
euro e ora aveva un po’ di arretrati da saldare.
“Lo sapevo che
non era destino” aggiunsi melodrammatica qualche minuto dopo,
prendendo dal piatto appena arrivato una patatina e addentandola
famelica.
“Certo che sei
scema! Pensavo fossi disposta a tutto per quel corso!”
Massimo era incredulo e
aveva ragione ad esserlo. Non avevo mai rinunciato a nulla in tutta la
mia vita, ma quando si parlava di Insomnia non riuscivo proprio a
ragionare! Quel posto era l’essenza di tutto ciò
che non avrei mai voluto essere. Lavorarci avrebbe significato essere
una grandissima ipocrita!
Scossi la testa con
decisione. No, avrei cercato da qualche altra parte.
“Becky, almeno
pensaci!”
“Lo
farò. Ma ora non voglio più sentire nominare quel
posto, chiaro? Piuttosto, chi si fa dopo un giro di tequila con
me?”
E, almeno per quella
sera, la discussione terminò.
Citazioni e Chiarimenti:
Via col vento
è il grandissimo film del 1939 diretto da Fleming in cui
recitano Vivien Leigh e Clark Gable. In breve: la Leigh ha la parte
della protagonista, Rossella, che è innamorata, senza essere
ricambiata, di Ashley, felicemente sposato con Melania. A causa di vari
episodi, Rossella si sposa due volte, succedendo presto ad entrambi i
mariti, fino a quando non decide di sposare Rhett (Gable), realmente
innamorato di lei. Le cose però non vanno bene per i due
perché Rossella, Rhett lo sa bene, vive
nell’illusione di poter prima o poi sposare Ashley. Alla fine
però Rossella capisce di amare Rhett, ma ormai
quest’ultimo si è deciso a lasciarla. Se non avete
visto questo capolavoro, dovete assolutamente rimediare! (dura quattro
ore, quindi ritagliatevi un intero pomeriggio!)
Frodo è
uno degli Hobbit
del Signore degli Anelli, una razza che si distingue per i loro piedi
pelosi e per la bassa statura.
Il Lambro è
un fiume lombardo che scorre a Milano.
Il Guns and Rock e
l’Insomnia
sono due locali assolutamente immaginari, creati dalla sottoscritta,
così come anche tutti i personaggi di questa storia.
Angolo
dell’autrice:
'Giorno a tutti! :)
Lo so che
ho già un’altra storia in corso e so anche che non
la sto aggiornando da un bel po’, ma in questo periodo tutta
l’ispirazione che avevo ha partorito solo
quest’idea, quindi, lettori di It’s Hard to Live in
the Country, abbiate fede: aggiornerò presto!
Parlando della storia:
recentemente ho cominciato a lavorare nel bar vicino a casa mia per
racimolare un po’ di soldi per farmi una vacanza decente e,
proprio durante il lavoro, mi è venuta l’idea per
questa storia! Il punto di vista sarà sempre quello di
Rebecca e la storia avrà come location principale
l’Insomnia, anche se non mancheranno alcune scene in altri
luoghi. Non so ancora quanti capitoli ci saranno, né come si
evolverà il tutto. Ho solo una idea generale che potrebbe
anche cambiare nel corso della scrittura, quindi aspettatevi
l’inaspettato!
Mi piacerebbe sapere
cosa ne pensate, quindi se volete lasciatemi pure un commento! ^^
Un bacione!
Rox
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