Parole a strisce
Let
her go places that we’ve never been
Neil
Gaiman (Blueberry Girl)
Il cacciatore piantò la lancia nella
sabbia e chiuse gli occhi per concentrarsi sul richiamo. Aveva
sentito bene: coot, coot, coot, gracchiava una voce
in
lontananza. La voce di un uccello giovane e petulante, un uccellino
di un altro mondo. Coot, coot, coot.
Rispose a suo modo, con un chiocciare
più profondo.
A conferma del codice, il primo verso
sgraziato trillò in un cinguettio prima di tacere, in
attesa.
“Verrà?”
“Verrà, mamma.”
Con le mani ancora avvinghiate all'arma
e le sopracciglia corrucciate come a fronte di una giocata d'azzardo,
Achenar decise di lasciare la lancia lì, in bella vista
sulla
spiaggia di Haven, col rischio che un karnak impertinente scendesse
in picchiata e se la portasse via, e saluti a mesi di lotta
territoriale. Poter tornare a far base sulla costa sarebbe stato
importante – farsi vedere dal suo uccellino senza sangue
fresco
sulle mani lo era di più. Conficcò l'arma con
più forza nel
terreno. Il vento era calmo nonostante la stagione delle piogge;
l'acqua rossastra dell'Era si accaniva sugli scogli, ma non avrebbe
raggiunto la sua posizione. A scanso dei maledetti karnak, l'avrebbe
ritrovata al ritorno.
Achenar sguazzò a riva per ripulirsi
alla buona mani e piedi. Tentò più volte di
passarsi le dita fra i
capelli ricci, preso dall'ansia di non essere abbastanza in ordine
per la sua sorellina che profumava di sapone, di carta e di acqua
dolce. I nodi persistenti nella chioma incolta ebbero la meglio.
Achenar era Achenar, si sussurrò, sconfitto: Achenar sapeva
di
salmastro e di uragano.
Con lo scemare dell'ansia, andata via
come un riflusso di marea, nella sua testa iniziarono a farsi strada
le storie degli ultimi giorni che le avrebbe raccontato. Erano scoppi
d'immagini, frammenti sconnessi ancora ben lungi dall'essere espressi
in parole: quelle le avrebbe trovate sul momento, si diceva, anche se
finiva spesso per raccontarle più a gesti e urla e
accozzaglie di
sillabe legate solo da una tenue parvenza di sintassi. Ma Yeesha
stava ad ascoltarlo e gli sorrideva, con quella faccetta da una che
ha visto tutto e capito tutto e ascolta di buon grado cose che
già
sa.
Achenar non era sicuro di come si
facesse ad avere una faccia simile a sette anni. Sirrus non ci
riusciva a trenta, e non per non averci provato.
Con una violenta strattonata alla
camicia, per lisciarla un poco, si avviò verso la gabbia
metallica
da cui era giunto il richiamo. Una cupola, due sedie e una fila di
sbarre: la prigione al contrario che era l'unico punto di accesso ai
mondi e alle vite che da sedici anni scorrevano lontano da lui.
Yeesha lo aspettava compunta nella sua
metà di cella, di fianco al libro per Tomahna. Ma non era
sola.
Catherine le appoggiava una mano sulla testa, guardando per terra
come al solito, con le spalle curve come al solito e l'espressione
triste di una che ha visto tutto e Achenar sapeva che in quel tutto
le cose peggiori gliele aveva fatte vedere lui. C'era sempre sangue
sulle sue mani, troppo secco per venir lavato, e così Yeesha
lo
stava vedendo.
Fece un passo indietro.
“Via”, disse. “Via!”
“Pensavo che... lei voleva...”,
tentò di spiegarsi la bambina.
“Via!”
Yeesha obbedì, spaventata. “Scusami”,
mormorò prima di appoggiare il palmo sull'immagine del libro.
“Madre”, salutò truce quando sua
sorella fu svanita del tutto, ancora sull'eco del suo collegamento.
Catherine non sembrava avere intenzione
di andarsene. E ancora non lo stava guardando. Indicò un
piccolo
involto appoggiato sul vano mobile che permetteva loro di scambiarsi
piccoli oggetti. “Perdonami. Ma questa va mangiata calda... e
non
sapevo altrimenti quando l'avresti trovata.” Si
girò verso il
libro. Aveva sempre gli occhi bassi.
Il profumo di zucchine e formaggio
colpì diretto allo stomaco di Achenar, che si
avvicinò con una
cautela tutta ferina al pacchetto, quasi fosse dubbioso che non si
trattasse di una trappola. In un certo senso lo era, concluse fra
sé,
quand'era a tre passi dal poterlo afferrare – e, con lo
stesso
gesto, dal dichiararsi domesticato.
Per lunghi secondi, tutto quel che
esternò dei suoi dubbi fu un ringhio.
“Non di nuovo!”, disse infine a
voce troppo alta per quelle pareti così strette, stringendo
un pugno
a vuoto.”Basta! Dimenticateci!”
Catherine rimase immobile. “Non
posso.” Dopo una breve riflessione aggiunse, a bassa voce:
“Neanche
Atrus. Volevo dirti solo questo: neanche Atrus.”
Sua madre era vecchia, alla luce fioca
della gabbia: la penombra non faceva sconti. Era vecchia sotto gli
occhi e attorno alla bocca e sulle spalle e Achenar ricordava che non
era stata così vecchia appena tre anni addietro, quando la
cupola
metallica era comparsa da un giorno all'altro incassata fra gli
scogli. Sempre più spaccata dal cuneo degli orrori suoi e di
Sirrus
e sempre più fragile, eppure continuava a imporsi alla sua
soglia
per un qualche fine noto a lei sola. Non fosse stato per sua sorella,
avrebbe murato da tempo la maledetta porta.
“Cosa vedi, madre?”, chiese.
Sorpresa, Catherine socchiuse gli
occhi. Cosa vedeva in suo figlio?
“Vedo... vedo molte cose.” Pausa.
Quante ne aveva pensate e non stava dicendo? “Vedo cascate
sulla
tua pelle e foglie umide sopra le tue mani: quest'Era è
diventata
parte di te. Vedo la solitudine che si è coagulata negli
anni. Più
di sedici. Molti più di sedici. Vedo quello che non vedevo
allora...”
Achenar capì cosa intendeva con la
cascata e le foglie e gli piacque, ma il discorso gli divenne
progressivamente meno chiaro, come era accaduto spesso in passato.
Rimase inerte di metafora in metafora fino a che la sentì
parlare
del rivedere in lui la sua patria, ripercorrendo il legame formato da
quel gesto insensato di tanti anni prima. Non lo disse con odio e
questo lo spaventò.
“Non Riven”, disse senza
preoccuparsi di specificare un verbo. “No, no. Riven
mai.”
Catherine impiegò qualche secondo per
trovare la parola perdonare al suo posto e altri
per decidere
come spiegare che i mondi non sono dipinti per assoluti in bianco e
nero. Non aveva perdonato, spiegò. Non li avrebbe mai
perdonati, ma.
Allungò una mano oltre le sbarre aprendola in segno di
carezza, ma
Achenar si ritrasse al primo tocco.
Senza demordere cercò di sfiorarlo con
le parole invece che con i gesti, ricordandogli le storie che erano
soliti raccontarsi, i posti segreti sulla spiaggia e mille ricordi
che aveva perso ma che al tatto della memoria riconosceva come veri.
Achenar disprezzò il rimpianto sul volto di sua madre, il
suo
fallimento che scorreva come una fune arpionando un aneddoto dopo
l'altro, ma scoprì di volersi riappropriare dei suoi ricordi
e restò
nei pressi dell'entrata. Fuggire era quello che avrebbe fatto una
preda.
Catherine parlava del passato toccando
ogni ferita delle proprie colpe, ma le sue labbra si bloccavano nel
passare con la stessa semplicità alle sue. “Siamo
nelle mani di un
piano più grande”, disse a un tratto come
spiegazione. E quello
non era uno dei suoi ricordi. Nei suoi ricordi, il piano più
grande
finiva in un incendio.
“Voi lo siete. Forse. Forse no. Ma se
sì, voi. Noi piccoli, noi e suo padre. Finiamo nelle nostre
Ere-bolle. Mamma”, disse, cercando un appiglio. C'erano
troppe
parole fra cui scegliere. Alla fine scandì: “Noi
ci estinguiamo
qui.” Non era una bella immagine e lui non era abituato a
pensare
così distante, ma qualcosa gli diceva che era solo un bene
che le
loro scelleratezze si spegnessero in solitudine, dimenticate da
tutti.
“No, c'è dell'altro. Qualcosa
ancora. Fidati.”
“Sì, c'è!”, tuonò.
Era così
chiaro, possibile che non lo vedesse? “Scordatevi di noi e...
e
altre parole. Torna domani.”
“Achenar...”
Ma Achenar era già uscito.
L'indomani, la pioggia batteva pesante
sulle pareti della gabbia. La torta, notò Catherine, non
c'era più.
Al suo posto trovò un foglio di carta giallastra,
spiegazzato e
pieno di cancellature furiose. Non riuscì a decifrare le
parole
sommerse dalle righe d'inchiostro; tutto quello che rimaneva
leggibile, nell'ultimo angolino utile in basso a destra, era:
Fatela arrivare dove noi non siamo
stati.
Catherine strinse al petto il foglio.
Suonò più e più volte la sirena che
segnalava l'arrivo di un visitatore, ma sapeva che latrare come un
cane alla porta di suo figlio era inutile. Le sbarre di quella
prigione erano salde in entrambi i sensi.
Lontano, nella foresta a sud, sotto il
tetto precario della sua palafitta, Achenar sentì un ululato
lontano
mischiarsi al ritmo delle gocce d'acqua. Restò a letto a
scontare il
passato.
Tre due uno tutti in coro:
] Under the sun is the bringer of
destruction.
] To the wound the bringer of pride
returns.
] But the son of the son will carry
the burden.
] And his wife will face the storm.
] Give him a pen, and he will plan.
] Give her a pen, and she will
dream.
] And a daughter will carry the
burden of her father.
] And the daughter of the daughter
will live in peace.
...manca
qualcuno? Ecco.
L'idea
originale prevedeva un discorso più organico fra madre e
figlio
riguardo al (non-)ruolo dei fratelli nella Storia, ma... Achenar?
Discorso organico? Ssssì, proprio.
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