La guardo.
È cresciuta la mia Karen, è cresciuta tanto
dall’ultima volta che l’ho vista.
Perché era poco più di una bambina
l’ultima volta che l’ho vista. Poco
più di una bambina. Aveva una chioma scompigliata, occhiali
spessi,
un sorriso sul volto e la voglia di ridere negli occhi. Ma questo era
anni fa.
Oggi, i segni dal cambiamento hanno ridefinito la sua figura.
È più grande, ha conosciuto il mondo. Ha
sostituito gli occhiali con le lenti a contatto, e sulla sua pelle ha
spolverato un leggero velo di trucco. Ha i capelli corti e ricci,
sicuramente più curati di allora. I suoi occhi celano una
lieve malinconia, e le sue labbra hanno conosciuto i sorrisi falsi.
Uggiolo, mentre penso a quanto le sia costato lo scontro con questo
mondo maledetto.
È già tarda notte. Pensavo di trovarla
addormentata, e invece è ancora sveglia. A
leggere e scrivere. I libri pesano sugli scaffali, e anche il suo
computer si è adattato alla sua passione per la fuga dalla
realtà. La guardo scrivere pagine e pagine di quel piccolo
schermo, allineare una parola dopo l’altra, premere i tasti
in fretta prima che l’Alba o Morfeo le rubino
l’ispirazione. È concentrata, e in quel momento
noto che è rimasta una certa morbidezza di bambina nei suoi
lineamenti. Il suo corpo invece è cresciuto, è
diverso.
È cambiata lei, eppure in qualche modo è sempre
uguale a sé stessa.
Sta distesa sul letto, e c’è un non so che di
felino nella sua posizione. È inverno, e lei ha addosso una
magliettina leggera e un paio di pantaloncini, e se ne sta accoccolata
sotto un piumone dall’aspetto caldo.
All’improvviso, smette di scrivere e affonda la testa nel
cuscino. Sospira con forza, socchiudendo dolcemente gli occhi. Stringe
tra le mani la stoffa soffice delle coperte, e una lacrima scivola
morbidamente lungo il suo viso.
Guaisco di nuovo. Se fossi davvero lì con lei, con la mia
padroncina, appoggerei il muso sul materasso facendole gli occhioni da
cucciolo, uggiolando piano e dolcemente. Lei mi guarderebbe per un
po’, e mi farebbe una carezza piccola piccola, forse anche
poco convinta, tra le orecchie. E a me basterebbe, e allora comincerei
a scodinzolare e a sporgermi per leccarle tutta la faccia, incurante
del fondotinta, magari anche saltando sul letto come il cucciolo
monello che sono sempre stato. E lei riderebbe.
--Lo sai che non dovresti essere qui, Rex?--
La voce alle mie spalle arriva come un colpo di frusta, e mi volto di
scatto. Ringhio, quando riconosco la figura che mi sono trovato a
fronteggiare. Ringhio e rizzo il pelo nella zona della collottola,
mettendomi protettivamente tra questa e la mia piccola Karen, che
continua a leggere ignara di tutto questo.
La figura ride dolcemente con la sua voce melodiosa. --Cuccia, Rex. Non
sono venuta a prenderla, non preoccuparti.--
Appoggia lentamente il suo scettro d’argento a terra e alza e
mani in un gesto conciliante.
Helìda mi guarda, con quel suo sorriso meraviglioso
disegnato sulle labbra piene e rosee. Il suo abito lungo è
del solito bianco abbacinante, talmente candido che pare quasi
rifulgere di luce propria. I lievi bagliori che emana la circondano di
un’aura calda e rassicurante, brillando come ali sulla sua
schiena. La stoffa avvolge il suo corpo esile, sottile, quasi
confondendosi con la sua pelle nivea a delicata. I lunghissimi capelli
nero inchiostro arrivano fino a sfiorarle le gambe, e l’unico
modo che ha di mostrare il viso fine e pallido è di
raccogliere
due ciocche lisce dietro la nuca. La frangetta sfilata le ombreggia
lievemente gli occhi scurissimi. Occhi inflessibili e severi, ma anche
caldi, rassicuranti e comprensivi, occhi dal taglio dolce bordati da
ciglia folte come pizzo ricamato.
La bacchetta è ancora ai suoi piedi; è un sottile
manico d’argento intarsiato di volute astratte che brillano
come cristallo, sormontato da una gemma a forma di lacrima talmente
limpida da sembrare ghiaccio. In realtà è un
diamante di colore leggermente azzurrino, un diamante purissimo, un
diamante con cui lei estrae la forza vitale delle persona che viene a
prendere.
Perché Helìda è l’Ombra
della Morte.
--Ero venuta a cercarti.-- mi spiega ragionevole, notando le mie zanne
ancora scoperte e la mia posizione difensiva. --Lo sai che non dovresti
sgattaiolare via per cercare di tornare in questa casa. Sono passati
anni, Rex.--
Il mio ringhio svanisce, e appiattisco un po’ le orecchie. I
miei occhi assumono l’espressione di un cucciolo colto in
flagrante mentre rosicchia i cuscini del divano bianco.
È vero, non è la prima volta che cerco di tornare
qui. Ci tenevo a vedere come sta la mia padroncina, ci tenevo troppo.
Avrei voluto essere il suo cucciolone in questi anni, e vorrei essere
ancora con lei. Sarei un vecchio cane stanco, forse anche un
po’ sordo e impigrito, ma almeno ci sarei.
Ricordo quando si stendeva sul pavimento accanto a me, da bambina, e
appoggiava la sua testolina sul mio fianco. Leggera, facendo attenzione
a non pesarmi.
Ricordo il modo sincero in cui rideva quando appoggiavo io il naso tra
i suoi capelli scompigliati, annusandoli con forza e facendole il
solletico.
Ricordo le sue carezze e la sua voce dolce, dopo i duri colpi di catena
e le urla di suo padre.
Ricordo il suo dolore nel vedermi stanco e mogio, ricordo il suo calore
quando restava a coccolarmi fino a tardi, durante quei giorni in cui il
mio tempo aveva cominciato a scadere senza che lei lo sapesse.
E ricordo le immagini che Helìda mi ha permesso di vedere
quando Karen ha ricevuto la notizia da sua madre Nelly, dopo
l’Ombra aveva preso la mia forza dall’involucro
freddo che mi sono lasciato alle spalle. Lo shock nei suoi occhioni
scuri, di bambina, era stato seguito da una reazione da adulta: poche
lacrime silenziose erano sfuggite al suo controllo. Ma non un urlo, non
un pianto isterico. Perché semplicemente soffriva troppo
sapendo di avermi perso, talmente tanto che non poteva esprimerlo in
alcun modo che non fosse il silenzio.
--Dobbiamo andare, Rex.-- mi richiama dolcemente l’Ombra.
Raccoglie lo scettro. Io ringhio, già
sull’attenti, e lei si allontana. Aspetto che sia a distanza
di sicurezza, e poi mi volto ancora verso Karen.
Comincio a guaire. Non la voglio lasciare. Voglio stare qui con lei a
proteggerla, come non ho potuto fare in vita. E invece non posso fare
nulla, non posso toglierle dal viso la traccia di quella lacrima che ha
versato poco fa.
Chissà se mi pensa, qualche volta.
Helìda disegna un cerchio sopra la sua testa, e dal nulla
appare un passaggio che mi porterà lontano da questa
realtà. È circondato di fiamme nere da questa
parte, ma dall’altro lato vedo un bagliore dorato e caldo che
mi aspetta. Karen si passa una mano tra i ricci corti, e io mi chiedo
se anche lei possa in qualche modo percepire l’aura
struggente emanata da quella specie di portale, un’aura che
sa di pace e di malinconia insieme.
Mi avvicino al letto e lascio un buffetto impalpabile sulla mano della
mia piccola, accoccolata tra il piumone e i cuscini come quel gattino
rosso a cui volevo tanto bene, quello che dormiva tra le mie zampe.
Mew, si chiamava. E qualcosa, nella mia Karen, me lo ricorda tanto.
Uggiolo un saluto, poi m’incammino verso il passaggio. La
testa bassa, le orecchie flosce, la coda tra le zampe.
--Era per te, quella lacrima.-- mi sussurra Helìda.
Io la guardo, incredulo e speranzoso, e le mie orecchie si risollevano
appena.
--Non ti ha dimenticato. Ti pensa. Forse stasera ti ha sentito
più vicino in qualche modo.--
Scodinzolo timidamente, e la versione canina di un sorriso intenerito
sboccia sul mio muso. Con gli occhi scuri un po’
più sereni, spicco un balzo e mi tuffo attraverso il portale.
Me ne torno sulla mia stella, lassù nella volta celeste, da
dove ti osserverò. Ti penso, lo sai? Ti voglio bene,
padroncina.
E poi, l’eco delle parole che l’Ombra ha
pronunciato prima di seguirmi attraverso il passaggio mi raggiunge:
--Scriverà di te.--
Grazie, piccola Karen.
Grazie, piccola mia.
Grazie per non avermi dimenticato.
Angoletto.
Non so
esattamente da dove salti fuori questa storia. So solo che frulla in
testa da qualche settimana. So solo che è venuta tutta
giù oggi, in un colpo solo, durante la lezione di spagnolo e
quella di storia. So solo che è una cosa che avrei dovuto
scrivere già otto anni fa rotti.
È
per il mio cucciolone, è per il mio Jack.
Perché
non l'ho mai dimenticato, anche se adesso ci sono Demon e Ice.
Perché
lui è ancora il mio cucciolone mai cresciuto.
Un bacio a chiunque abbia letto questa storia,
e uno ancora più grande a chiunque l'abbia capita.
Clarisse
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