Terzo
gradino della Scalata al Wolfstar.
Prompt:
Ordine della Fenice
Buona
lettura.
12,
Grimmauld Place
La
piazza era racchiusa in un perimetro di eleganti palazzi vittoriani
ormai un po' decaduti, abbandonati ad un declino malinconico. Remus
li osservò quasi senza respirare, un po' perché
il silenzio
immobile che regnava sul luogo sembrava respingere il minimo suono,
un po' perché l'emozione gli chiudeva la gola.
Anche
se gli sembrava piuttosto stupido, visti il frangente e le
circostanze che lo portavano lì. Eppure, al di là
dei fatti, gli
rimaneva incollato addosso un senso irrefrenabile di stupore, di
curiosità anche infantile. Non cambiava sostanzialmente le
cose
cercare di concentrarsi sul pensiero più impellente
– la rinascita
dell'Ordine, la ripresa della guerriglia, il ritorno dell'Oscuro
–
perché di fatto quella piazza Remus l'aveva voluta vedere
un'infinità di volte nel corso degli anni, e non l'aveva mai
fatto.
Prima perché era un ragazzino che non poteva andare
semplicemente
dove gli paresse, dopo perché a Sirius evidentemente non
sorrideva
l'idea di portarlo lì e mostrargli quel posto che era una
ferita mai
completamente cicatrizzata, e dopo ancora perché il dolore
sarebbe
stato troppo violento da sopportare.
I
suoi occhi scorrevano sulle facciate di quei palazzi, sulle finestre,
quasi tutte celate da imposte chiuse o socchiuse, sui portoni
raffinati e un po' usurati. In mezzo alla piazza due alberi e un
grappolo di panchine, deserte, sembravano voler scoraggiare i
visitatori più che invitarli.
Gli
sembrò un posto triste.
Ma
forse era solo perché lui lo collegava a Sirius, e se una
volta ai
suoi occhi Sirius era stato una figura allegra, solare e straripante
vitalità, oggi era diventato un essere opaco, spento,
straziato. Uno
che si trascinava stancamente e dolorosamente avanti in mezzo ai suoi
tarli e ai suoi fantasmi, ferito a morte, ancora caparbiamente
aggrappato a un'esistenza che ormai aveva solo le fattezze di Harry
Potter. L'unica cosa che contasse più.
Remus
lo sapeva benissimo. In qualche modo era lo stesso anche per lui: non
era più la sua vita che contava – non la era
più da parecchio
tempo, da quando era precipitata più di dieci anni prima
– ma
quella degli altri, quella dopo. Particolarmente
quella di Harry.
Sospirò
tra sé e si decise a fare qualche passo avanti, aggrottando
gravemente la fronte. Tutto quel che importava, adesso, era far
ripartire l'Ordine della Fenice, riorganizzarlo, racimolare quel che
rimaneva dei suoi vecchi membri e aggregarne di nuovi per dargli
nuova linfa e altro respiro. E se lì doveva essere,
lì sarebbe
stato.
Non
si faceva illusioni: sapeva benissimo che non sarebbe stato
semplicemente affrontare quel compito trascorrendo le giornate fianco
a fianco con Sirius, con quel Sirius che non era più Sirius,
ma che
pure era proprio Sirius, il suo grande amico, un estraneo
incomprensibile reso tale dagli anni, il compagno di sempre, amore
finito in tragedia.
Non
gli interessava questo, tuttavia. Quel che contava era l'Ordine.
Rallentò
il passo, raggiungendo le panchine per oltrepassarle, e le
osservò
di sfuggita senza poterselo impedire.
Di
certo, delle volte si era seduto lì. Forse. Con Regulus,
magari,
sotto lo sguardo severo e vigile di Walburga pronta a impedire
qualunque contatto con la sudicia feccia che appestava i dintorni.
Cercò di focalizzarlo, ancor più piccolo di come,
vagamente, lo
ricordava al tempo in cui l'aveva conosciuto. Il viso pallido, un po'
paffuto e ingentilito dall'infanzia. Occhi grigi e luminosi, ancora
troppo grandi in quel faccino di bimbo. Manine nervose, strette in
grembo, tutto un piccolo corpo contenuto nello sforzo
dell'autocontrollo, della compostezza. Se lo ricordava, all'inizio
del primo anno, come una cosetta dibattuta nel tentativo costante di
un'elegante coercizione di sé, una violenza imposta che era
diventata auto-inflitta con l'abitudine di tutta un'infanzia.
Erano
bastate poche settimane a Grifondoro per spazzare via tutta quella
facciata e lasciar straripare il vero Sirius. A ripensarci, adesso,
gli sembrava di aver assistito allo sbocciare di un qualche fiore,
uno di quelli che la sera sono ancora boccioli verdognoli e il
mattino dopo eccoli lì, apoteosi di petali e colori.
Quanto
l'aveva amato, quel fiore scombinato.
Scosse
la testa, tornando ad osservare la linea dei palazzi di fronte a lui.
Era cominciato tutto su quella piazza, lì dov'era nato
Sirius.
Riprese
a camminare fino a raggiungere il marciapiedi opposto, e lì
aggrottò
la fronte e fece ondeggiare lo sguardo sui numeri civici. Dieci,
undici, tredici. Lì, nel mezzo.
Si
prese ancora due secondi, due soltanto, per due pensieri sgorgati da
soli. Un cane nero addormentato sul pavimento freddo della Stamberga
davanti al suo sguardo ancora appannato dal sonno e dalla stanchezza
successiva alla trasformazione, e poi la faccia di Frank mentre la
sua voce tremante gli annunciava la morte di James e Lily.
Strizzò
gli occhi.
L'Ordine
della Fenice si trova al numero dodici di Grimmauld Place, Londra.
Ed
era lì.
Un
vecchio portone imponente, austero. Una maniglia in ottone lavorato,
che sembrava quasi minacciarlo. C'era un'aria di rifiuto su quella
facciata di palazzo raffinato e qualcosa di freddo. Ma Remus si
limitò a scrollare le spalle, stabilì che non
fosse necessario
bussare e afferrò con decisione la maniglia, facendola
scattare.
Quindi, dopo aver infilato la testa all'interno e constatato che
l'atrio era immerso in una penombra silenziosa, si avventurò
dentro.
“Sirius?”
esordì.
E
poi iniziò.
“LURIDA
FECCIA! VERGOGNA DEL MONDO MAGICO! COME OSI, TUUU, LERCIO
IBRIDO...”
“Zittaaa!
Per Merlino, zitta!”
Il
tè fumava nelle tazze.
Remus
cercava di non sembrare troppo incuriosito mentre si guardava intorno
con, per la verità, un'insopprimibile curiosità,
appunto.
Era
una bella cucina, o almeno doveva esserla stata. Mobili lavorati,
eleganti, suppellettili pregiate. Era sicuro che, con una bella
pulita, quel posto sarebbe stato anche troppo raffinato.
“Beh...”
mormorò.
“Spero
tu ora comprenda meglio perché non ti ho mai presentato in
famiglia,” osservò ironicamente Sirius, tagliente.
Remus
annuì pacatamente.
“Me
n'ero fatto un'idea, ma l'esperienza è stata
illuminante,”
confermò, azzardando un sorriso.
L'altro
non lo ricambiò. Remus lo sapeva inquadrare con uno sguardo,
ma quel
giorno a chiunque sarebbe bastato quello per indovinare che Sirius
era di un malumore leggendario. Non si sarebbe stupito se da un
momento all'altro avesse preso a ringhiare al vuoto, e a giudicare
dall'espressione della sua faccia scavata, contratta in una smorfia
di rabbia nemmeno troppo repressa, non era del tutto improbabile che
lo facesse davvero.
Una
volta, durante una delle sue settimane più colleriche della
loro
permanenza a Hogwarts, James aveva attaccato al suo baldacchino un
cartello, scritto di suo pugno con un inchiostro incantato, luminoso.
Attenzione, morde.
Remus
soffocò un principio di riso nostalgico, a quel ricordo.
A
Sirius non sfuggì.
“Che
c'è da ridere?” brontolò.
Il
licantropo scosse blandamente la testa.
“Non
mi fai visitare la magione?” domandò a sua volta,
glissando.
Sirius
gli lanciò uno sguardo sospettoso, come valutando se lo
stesse
sottilmente sfottendo o meno. Dovette optare per la seconda soluzione
e si strinse nella spalle, alzandosi con uno sbuffo.
“E'
tutto sporco e disgustoso, ma se ci tieni,”
borbottò torvo.
Remus
annuì fermamente.
“Veramente,
sì,” confermò serio.
Gli
occhi grigi di Sirius si sollevarono dritti su di lui, stranamente
vivi in quel corpo fiacco e magro. Lo studiarono per qualche secondo
gravemente, molto meno annebbiati di quanto si aspettasse. Poi le sue
labbra si piegarono in una sorta di sorriso rassegnato, amaro.
“Ci
tieni da vent'anni.”
Una
constatazione a mezza voce, detta quasi con tono di rimprovero.
Remus
si strinse semplicemente nella spalle.
“Sei
nato qui,” commentò logicamente.
Sirius
sembrò per un istante trovarlo quasi divertente.
“Già,”
commentò, con un'incomprensibile ilarità che
subito si fece tetra.
“E sarebbe stato da capire subito che non poteva venirne
niente di
buono, da uno nato qui dentro,” aggiunse, sputando quasi le
parole
con livore. “Vieni.”
Remus
preferì non commentare quell'ultima affermazione,
limitandosi a
seguirlo.
Le
tazze rimasero lì, abbandonate.
Era
una casa ricca, bislacca. Remus non aveva mai messo piede in un luogo
tanto Pureblood, e si stupì della
quantità di marchingegni e
di oggetti che proclamavano quella superiorità di sangue.
Tutto
indicava uno sfarzo ormai perduto, sommerso dalla polvere e
dall'abbandono, ma permaneva una certa parvenza di ordine.
“Hai
pulito?” chiese, scorrendo il dito su un ripiano quasi
spolverato.
Sirius
scosse la testa, infastidito.
“Kreacher,
l'Elfo di mia madre. Vive ancora qui, ma dev'essersi nascosto per la
tua puzza di inferiore, il piccolo bastardo,”
spiegò sprezzante.
Salottino,
corridoio, servizi, la cucina che aveva già visitato.
“Lì
c'è la biblioteca, ma preferisco che tu non ci entri prima
che Albus
le abbia dato un'occhiata per identificare gli incantesimi di
protezione,” annunciò Sirius, indicando una porta
chiusa.
“I
libri potrebbero aggredirmi?” s'informò Remus.
“O
peggio.”
C'era
un arazzo dall'aria solenne, nel salotto del primo piano. La nobile
e antichissima Casata dei Black faceva bella mostra di sé
sulla
parete, severa. Remus si trattenne ad osservarlo, meditabondo.
Accanto
al nome di Regulus Black c'era una piccola bruciatura appena
visibile, uno stralcio di realtà cancellata.
“Eri
qui,” osservò, sfiorando quella cicatrice del
tessuto con un dito.
“Sì.
E qui,” confermò Sirius, portando la propria mano
appena accanto
alla sua, “c'era Andromeda. E lo zio Alphard, te lo
ricordi?”
aggiunse, con un accenno di sorriso, puntando il dito sopra il suo.
Remus
annuì.
“L'hanno
cancellato per causa mia, sai. Per tutti quei soldi che mi
ha...”
“Mi
ricordo,” confermò Remus.
Sirius
trasse un respiro profondo.
“Quanti
danni per un solo uomo,” mormorò.
Remus
deglutì pesantemente.
Non
solo danni. Non solo quelli.
“Magari
non gli dispiace. Essere stato cancellato, intendo,”
osservò
conciliante.
“Già.
E tutto il resto magari non dispiace a James.”
Le
parole di Sirius furono seguite da un silenzio denso, affilato.
Rimasero
lì fermi davanti all'arazzo, condividendo lo stesso disagio.
James.
“Non
so perché l'ho detto,” ammise infine Sirius
sottovoce.
“Hai
sempre avuto questa tendenza a parlare più in fretta di
quanto
pensi. Lo diceva anche Snape,” minimizzò Remus,
sollevato da quel
nuovo intervento.
Sirius
schioccò la lingua, levando gli occhi al cielo.
“Buono,
quello.”
Remus
ridacchiò, appena forzatamente.
Sirius
riprese a camminare, continuando la visita affrettata. Saltò
un paio
di porte passandole sotto silenzio e spalancò la terza,
facendogli
segno di entrare. Remus eseguì, seguendolo, e nel momento
stesso in
cui varcava la soglia si rese conto di qual era quella stanza, per
l'odore, o l'aria, o qualcos'altro, e rimase immobile senza quasi
riuscire a guardarsi intorno.
Era
quella lì. Quella stanza aveva sentito i primi vagiti di
Sirius, i
suoi primi pianti, forse la sua prima risata. Aveva visto i suoi
primi passi, ascoltato i primi litigi, racchiuso la sua rabbia e la
sua ribellione finché non erano diventate troppo grandi per
restare
imprigionate dai suoi muri.
Il
pezzo mancante all'immagine che Remus aveva avuto di lui, all'epoca
in cui Sirius era la cosa più importante della sua vita, ce
l'aveva
adesso, finalmente, davanti agli occhi.
Quella
stanza non era mai stata pulita, né sistemata, e si vedeva.
Solo il
letto era stato rifatto di fresco, forse perché l'animagus
aveva
ripreso a dormirci. Tutto il resto era sporco e consunto. Uno
scrittoio scuro, un armadio a tre ante, una sedia, una poltroncina,
tutto spoglio, impersonale. Eppure quella camera ripeteva il suo
nome.
“E'
rimasta roba tua?” chiese a mezza voce.
Sirius
annuì noncurante, indicando l'armadio.
“Avevano
bloccato la porta.”
Remus
già non lo ascoltava più. Aveva socchiuso un'anta
e spinto lo
sguardo all'interno. Qualche vecchio vestito da bambino, alcuni libri
ingialliti, antiquati giocattoli con la vernice scrostata. Un
mantello piccino, appeso alla meglio.
“Le
Avventure di Klaus il Vampiro,” mormorò,
afferrando quel volumetto
dimesso e rovinato. “Adoravi questo libro.”
Se
lo ricordava. Gliel'aveva regalato James la prima volta che avevano
festeggiato il Natale da amici, e Sirius aveva passato gli anni
seguenti a rileggerlo a tempo perso, anche quand'era diventato un po'
troppo grande.
“Sì.
Mi sembra assurdo che l'avessi lasciato qui,”
commentò Sirius,
pensoso.
“Quando
abbiamo traslocato in mansarda lo cercavi,”
affermò Remus di
soprassalto, rammentando il giorno in cui erano andati a vivere
insieme. Gli tornò in mente vivida l'immagine, Sirius in
mezzo a
scatole disfatte, nel caos creativo della loro mansarda in
condivisione, corrucciato, esasperato. “Ma insomma, dove
cavolo è
finito Klaus?” sbottava, buttando libri qua e là.
“L'ho
cercato per quattro anni, ma non mi ha mai sfiorato l'idea che fosse
qua. Ero sicurissimo di averlo preso,” aggiunse Sirius,
guardandolo
sfogliare distrattamente il libro. “Pensavo fosse in qualche
vecchia aula di Hogwarts. L'altro ieri quando l'ho trovato ci sono
quasi rimasto secco.”
Remus
visualizzò rapidissima l'immagine di Sirius che, alla vista
del
libriccino, tratteneva il fiato con un gemito strozzato e lo
afferrava di slancio, stringendoselo al petto tra i singhiozzi
convulsi. Gli tremò la mano e la vista gli
s'offuscò leggermente.
“Merlino,”
sussurrò.
Tornò
a guardarsi intorno prendendo fiato. La finestra si affacciava sui
cortili interni dei palazzi, e quel davanzale doveva aver ospitato un
bel po' di volte il sedere di Sirius mentre fumava di straforo.
Sirius
che, al momento, si sedette sul letto imitando con gli occhi la sua
panoramica sulla stanza.
“Te
l'aspettavi diversa?” chiese.
Remus
aggrottò la fronte.
“Non
lo so. Non riuscivo a farmi davvero un'immagine di questo
posto.”
“C'erano
poster, e caos dappertutto,” precisò l'animagus.
“Questo
lo so benissimo. Ho vissuto con te per dieci anni,” gli
rammentò
ironicamente Remus.
“Ogni
volta Kreacher veniva incaricato di riordinare, e dopo due ore era
tutto uguale a prima,” continuò Sirius, assorto.
“Ha
tutta la mia comprensione,” fece Remus accorato.
Sirius
sorrise di sbieco.
“Eri
il mio Elfo Domestico.”
“Spero
che un Kelpie ti divori, Black.”
Il
sorriso di Sirius divenne una rauca risata, a cui lui si unì
silenziosamente, per non coprirla.
“Vieni,
di là c'è Becco.”
Sembrò
cambiare tutto, dopo quel riso. Sirius lo presentò
all'ippogrifo e
gli tennero compagnia per una mezz'ora. Era buffo vedere come quelle
due creature selvatiche sembrassero essere diventate quasi simbionti,
ma dopotutto Sirius era sempre stato bravo con gli animali selvaggi,
come con tutto quel che era pericoloso. Poco mancava che Fierobecco
gli facesse le fusa. Sirius sorrideva e continuava a spiegare a
macchinetta ogni cosa sulle abitudini dell'ippogrifo, con foga,
accarezzandogli di tanto in tanto la schiena massiccia.
“...E
ha tentato di far fuori quell'imbecille del moccioso di Lucius! Non
è
un animale meraviglioso?”
Remus
ridacchiò di gusto, scuotendo la testa.
“Immagino
che ai tuoi occhi lo renda quasi un eroe,”
acconsentì.
“Puoi
anche togliere il quasi, Lupin,”
affermò l'altro con
enfasi. Poi diede un'ultima pacca alla creatura e, da accucciato che
era, si rialzò in piedi per riguadagnare la porta.
Remus
lo seguì di nuovo.
“Com'è
volare su un ippogrifo?” chiese incuriosito.
“Meno
comodo che su una scopa. Ma più stabile quando ci fai
l'abitudine.”
“Sono
molto diffidenti.”
“E
allora?”
Remus
rallentò il passo, facendosi nuovamente serio.
“Allora
non credo che Becco si sarebbe affezionato a uno che è
soltanto
troppi danni per un solo uomo,” osservò, citando
le sue parole di
poco prima.
Sirius
si voltò a guardarlo quasi ferito, stringendo le labbra.
Chinò lo
sguardo, e scosse la testa. Passandosi la mano sul viso.
“Anche
le belve sbagliano.”
“Credo
di saperne più di te, sulle belve.”
“Ma
sbagliano. Ti sei sbagliato anche tu,” ribadì
Sirius, sbuffando.
“Non avresti dovuto volermi bene. Né tu,
né James.”
Remus
diniegò con decisione.
“Non
è a te che dovevamo non voler
bene.”
Sirius
scrollò le spalle come a lasciar perdere, imboccando le
scale per
tornare al piano di sotto.
“Come
vuoi,” sussurrò.
“No,”
lo contraddisse Remus, con fermezza. “E' un dato di fatto. Tu
non...” insistette, seguendolo. “Va bene, hai fatto
le
stupidaggine più clamorosa che si possa concepire e te ne
vorrò
sempre ma...”
“Ma
che? Che cos'altro ho fatto invece di migliore? Merlino, Remus,
cosa?”
Remus
rimase lì sul gradino, impalato.
Che
aveva fatto. Gli aveva ficcato quasi di violenza in testa l'idea che
anche lui meritasse di essere amato. Gli aveva regalato una vita
normale, per tutto il tempo che c'era riuscito. Aveva dato a James il
fratello che sognava da quand'era alto mezzo metro. E tutto il resto.
Lo
guardò grave.
“Mi
hai ritrasformato in un essere umano.”
Sirius
per un istante sembrò boccheggiare di sorpresa, poi sorrise
freddamente.
“Ah
sì? Per questo hai passato dodici anni a trascinarti di tana
in tana
facendo lavori miserabili, quando sei uno degli uomini più
intelligenti d'Inghilterra?”
Remus
scrollò il capo, senza cedere.
“No.
Quello è perché Voldemort si è preso
tutta la mia vita, quella che
Peter gli ha svenduto. Peter. Non tu. Tu sei solo stato così
stronzo
da pensare che vi potessi tradire.”
“Tu
raccontavi un sacco di balle!” sbottò Sirius, con
eccessiva foga,
puntandogli un dito contro. “Non eri mai nel fottuto posto in
cui
dicevi di essere e sostenevi di essere con questa o quella persona
quando non era mai vero. Non...”
“Albus
mi aveva affidato un incarico segreto!” si difese irosamente
lui,
sdegnato.
“E
io che cazzo ne sapevo?” ringhiò Sirius, e
sembrò quasi un
lamento. “Potevi almeno dirmi questo, senza
specif...”
“Non
potevo!”
“Ero
lo stronzo con cui vivevi!”
“Così
stronzo da spacciarmi per spia! Non mi sarebbe venuto in mente di
pensare una cosa simile di te nemmeno se...”
sbraitò Remus,
perdendo le staffe.
“Ma
che cazzo ne sai? Io ti dicevo anche quando andavo al cesso!”
ruggì
Sirius, mollandogli uno spintone.
“Oh
ho ho, Sirius, sorpresa! Ti sei dimenticato di dirmi che non eri il
Custode, mentre parlavi della tua regolarità
intestinale!”
“Ma
vaffanculo, Moony!”
“Ma
vacci tu, pezzo di merda!” replicò lui per le
rime, sfogando un
pensiero che gli ronzava in testa da una dozzina d'anni.
“Stai
osando dire che è colpa mia
se...” continuò, arpionando la
sua spalla quasi da slogarla.
“No,
imbecille!” abbaiò Sirius divincolandosi.
“Sto dicendo che
non...non... Godric, non....”
Si
prese la faccia tra le mani, schiacciandovi i palmi ed emettendo un
suono gutturale incomprensibile.
“Lo
so,” mormorò Remus.
Gli
era scivolata via di dosso la rabbia come acqua. Svuotato,
completamente svuotato. Non era colpa di nessuno. Era colpa di tutti.
Sirius
prese un respiro spezzato e si voltò, abbandonando le mani
lungo il
corpo.
“Sai
che, domani arriva Molly Weasley. Bisogna che almeno la cucina faccia
meno schifo. Bisogna preparare per l'Ordine, è questo che
conta.
Dobbiamo...” iniziò, facendo per raggiungere la
stanza.
“No.
Sirius, no,” replicò lui, e posò di
nuovo la mano sulla spalla ma
senza violenza, soltanto trattenendolo. La sentì tremare
sotto le
sue dita. Era sottile, pelle e ossa. “Prima bisogna che ci
perdoniamo davvero.”
“Io
non ho niente da perdonarti,” fece Sirius a voce bassa,
voltandosi
comunque verso di lui.
“Io,
allora.”
Sirius
inspirò profondamente. Aveva ancora la mano di Remus sulla
spalla, e
sollevò la propria imitando il suo stesso gesto.
“Mi
dispiace, Remus. Non...”
S'interruppe
di nuovo, chinando la testa in avanti, e Remus coprì la
distanza che
li separava perché si appoggiasse al suo sterno.
“Lo
so,” mormorò. “Lo so che non volevi, e
che hai fatto del tuo
meglio. È andato tutto storto.”
Sirius
non rispose, appoggiando solo delicatamente le braccia intorno al suo
torace. Remus gli circondò le spalle con le proprie.
“Mi
dispiace,” ripeté l'animagus contro il suo petto,
e anche se era
una frase di una banalità assoluta si sentiva vibrare tra le
lettere
tutto il resto, tutto il dolore, e lo strazio, tutti lì in
quelle
due parolette insignificanti. “Per Godric, mi
dispiace.”
“Lo
so,” ripeté Remus pianissimo, piegando la testa
verso il suo
orecchio. “Ma bisognava che me lo dicessi
così.”
Sirius
sbuffò piano, sollevando leggermente il capo. Rimasero con
le guance
appoggiate, vicinissimi, ciascuno sentendo il respiro dell'altro
contro il proprio orecchio, reciprocamente ignari degli occhi chiusi,
in un abbraccio più stretto.
Mi
manchi, pensò Remus ancor più banalmente, lo
pensò così forte che
non ebbe nemmeno bisogno di dirlo, e la stretta di Sirius che si fece
un po' più forte rispose la stessa identica cosa.
Diventò
più morbido, naturale, finché le loro braccia si
iniziarono a
sciogliere quasi da sole e i loro colli si raddrizzarono. Rimasero
faccia a faccia per qualche secondo, ancora vicinissimi, guardandosi
dritti negli occhi, ritrovandoli. Occhi che si erano guardati
un'infinità di volte trovando quasi tutto nelle iridi
opposte.
E
poi Sirius accennò un leggerissimo sorriso, e Remus gli
scrollò
piano la spalla.
“E
adesso andiamo a rimontare questo Ordine della Fenice, Pad,”
affermò risoluto.
Sirius
annuì allo stesso modo.
“Gli
altri arrivano domani,” annunciò, con un'occhiata
critica alla
magione polverosa. “Diamoci sotto, Moony.”
E
si slacciarono, perché era ora di darsi da fare.
_________________________________________
Più
che sull'Ordine della Fenice in sé, mi sono concentrata
sulla sua
sue sede. Immagino non sia un grande problema, comunque. Per il
resto, non ho molto da dire. È scombinata e improbabile,
oltreché
disarticolata, ma mi è uscita così.
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