Luce di stelle
Starlight
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Disclaimer: I
personaggi che si formano di loro spontanea volontà in questa storia, purtroppo
non mi appartengono. Sono un po’ come i figli, li puoi crescere ed educare
finché vuoi, ma alla fine ti sfuggiranno.
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1. Starlight
L’appartamento
all’interno era completamente buio.
Non una presenza, non
un rumore. Regnava un silenzio incontrastato.
Si respirava quell’aria
d’attesa, di tremula eccitazione, di quando sta per accadere qualcosa
d’importante. La luna fremeva per poter filtrare attraverso le persiane chiuse;
i lampioni spandevano curiosi la loro luce gialla fino al secondo piano, fino a
quell’angusto appartamento nel centro di Londra.
Erano due rampe di
scale: si avvolgevano su se stesse, come una grande e pesante chiocciola,
finché sbucavano proprio davanti alla porta di quell’appartamento. Sul
campanello campeggiava un nome a caratteri cubitali. Kirk. A sinistra,
una finestra con un’immensa vetrata rasserenava il piccolo ingresso e
concedeva, di sfuggita, la vista incantevole e meravigliosa della città.
Quella sera, era
probabilmente il 7 di luglio, nel palazzo non c’era anima viva.
Qua e là si sentiva
sussurrare che tutti si erano catapultati giù per le scale alle sei del
pomeriggio, in modo da non mancare il grande appuntamento allo stadio. Concerto
dei Radiohead. Per gli inquilini del palazzo doveva essere qualcosa di
importante, perché non era rimasto proprio nessuno.
Il silenzio era totale,
immobile e irreale.
Rimaneva soltanto
quella febbrile eccitazione, in quell’appartamento al secondo piano, con la
grande finestra, il campanello. E il nome Kirk.
Verso l’una di notte,
cominciarono a sentirsi i primi rumori.
Fu inizialmente uno
scalpiccio fuori dalla finestra. Erano due passi, due andature diverse ma simili:
uno agitato e svelto, l’altro nervoso e più lento. Percorrevano Madison
Street nella solitudine, nella notte e nel silenzio.
Dopo i passi,
cominciarono i mormorii. Erano frasi spezzate e appena percettibili, risalivano
la scala precedendo di poco i passi e precedendo di miglia le bocche da cui
provenivano. Le voci si alternavano l’una all’altra, si sovrastavano e a volte
interrompevano la loro cantilena.
Davanti alla porta
dell’appartamento, arrivarono così due passi, due voci.
Due persone.
~
Aprì la porta con uno
spintone, sfilando la chiave appena in tempo per non spaccarsi il polso.
Che fretta Dominic.
Lo tenni per me, ma
avrei voluto dirglielo in faccia, tanto per vederlo arrossire alla luce dei
lampioni che proveniva dalla grande finestra all’ingresso.
Lo agguantai per i
fianchi, strinsi con forza il suo bacino e lo feci aderire al mio.
Sentirlo mugolare mi
mandò in fibrillazione, come sempre.
Riuscii a bestemmiare
soltanto mentalmente – sapevo che non sopportava quel genere di cose. Ma era
quello che di più eccitante potesse esistere, con quelle labbra carnose e
rosse, consumate dai miei stessi baci, schiuse, e quella camicia alla moda
aperta fino a scoprire il petto liscio.
Mi permisi un attimo
per osservarlo, perché sapevo che poi non sarei stato più in grado di farlo, né
di controllarmi.
Scesi con gli occhi dal
suo mento alle sue spalle, dalle spalle al petto, dal petto all’ombelico,
perfettamente rotondo, dall’ombelico al cavallo dei pantaloni, fin troppo
stretto.
Sorrisi, constatando quale
effetto provocavo in lui.
- Non mangiarmi con gli
occhi; mangiami e basta.
La sua voce, bassa,
raggiunse il basso ventre prima delle orecchie.
Risi, appoggiandomi su
di lui; avvicinai la bocca al suo orecchio.
- I cannibali non ti
spaventano?
Sentii il suo petto
fremere in un tentativo di risata.
- Per niente.
Assaggiai il lobo del
suo orecchio. Rabbrividì.
In un attimo si era
sciolto come cera tra le mie mani calde.
- Non hai paura?
- No -, insistette.
E sapevo che non ne
aveva, perché era come me.
Ma mi concessi ancora
qualche secondo di lucidità per divertirmi.
- Dovresti averne -, lo
avvertii.
Infilai una mano
direttamente nei suoi jeans, lasciando soltanto i boxer attillati a dividermi
dalla sua eccitazione evidente. Fu scosso da uno spasmo involontario per il mio
gesto, lanciò un gemito.
Chiusi gli occhi e mi
avventai sulle sue labbra, incontrando la sua lingua al primo impatto.
La mia mano libera gli
strinse i capelli, artigliò la sua testa e spinse la sua fronte contro la mia, costringendo
i nostri nasi a cozzare.
Il suo corpo perfetto
aderiva al mio, lo completava.
Sentii i brividi
percorrermi dalle gambe al collo. Era irresistibile.
Niente e nessuno era mai stato in grado
di farmi impazzire fino a quel punto di non ritorno. Di dipendenza
irreversibile ed eterna.
Solo lui.
Solo Dominic Howard.
La luce mi infastidiva,
penetrava le palpebre e raggiungeva la mia mente dove avrebbe dovuto esserci
soltanto intenso e spasmodico piacere. Allontanai per un attimo la gamba destra
dal suo posto tra quelle di Dom.
Con un colpo secco,
chiusi la porta dell’appartamento.
Vederlo rivestirsi era
una delle cose più belle.
Aveva una cura
maniacale per ogni capo d’abbigliamento: che fosse una sciarpa o il suo nuovo
paio di jeans firmati all’ultimo grido, aveva il diritto a cure e attenzioni
tanto quanto ogni altro membro del suo immenso armadio.
Così capitava che a
volte, dopo del buon sesso, si disperasse o cadesse in paranoia.
Era tipico di lui.
È colpa tua, diceva. Non so mai
dove ho la testa quando sono con te.
E non importava che gli
ripetessi che in realtà la sua testa era perfettamente a posto perché lo avevo
baciato per tutto il tempo; non coglieva l’ironia, sbuffava infastidito e
girava per la casa nel tentativo di trovare un paio di boxer, o gli occhiali, o
addirittura le sue calze preferite. Con che criterio le scegliesse, non
ero mai riuscito a capirlo. Per me le calze erano tutte uguali: bianche, nere o
colorate, ma che importava.
Bastava che fossero
calze.
Effettivamente vederlo
girare mezzo nudo per l’appartamento non era un’esperienza così negativa. Se
abbassavo il volume mentale delle sue lamentele, riuscivo a godermi lo
spettacolo di un Dom in mutande e calze, che vagava in cerca dell’ultimo
oggetto perduto.
Questa volta ero
riuscito a fargli scappare la sua adorata camicia.
- No, Matt, tu non
capisci. Ti sembra normale? Una camicia non sparisce. Dimmi dov’è, te lo
ordino.
Alzai le spalle,
cercando di spandere innocenza con ogni parte del corpo.
Non ne avevo la più
pallida idea.
Ricordavo solo di
avergliela tirata via con forza e averla gettata alle mie spalle quando ancora
eravamo sulla porta. Ma ero troppo preso da lui. Come poteva pretendere che me
ne ricordassi?
- Cazzo, Matt, almeno
aiutami!
Risi di gusto.
Era un caso perso.
Rinunciò a coinvolgermi
nella sua ricerca e tentò di sbrigarsela da solo.
Mi accesi una sigaretta
in santa pace, assorbendo tramite nicotina la tranquillità a cui avevo
rinunciato, più che volentieri, quella notte.
- A proposito -, gridò
Dom dalla stanza accanto, - stamattina mentre dormivi, i vicini sono venuti a
lamentarsi.
- Cosa? E di che?
Ma soprattutto, quali
vicini?
Tom aveva detto che
sarebbero stati tutti, vecchi compresi, allo stadio per i Radiohead.
- Non lo so, un tipo
che ha detto di essere Il-signor-Thomas-del-piano-di-sotto. L’ha
ripetuto più o meno cento volte. Ha detto di aver sentito dei ‘rumori molesti’
per tutta la notte.
Sentii la risata chiara
di Dom diffondersi nella stanza.
- Mi ha fatto
chiaramente capire che mi consigliava di andare a puttane da un’altra parte.
- Lo prendo come un
complimento!, gli gridai.
- Come vuoi…
Aspirai una boccata
dalla sigaretta e m’impegnai per creare cerchi di fumo con la bocca. Era una
cosa impossibile, ci provavo più o meno da un mese ma non mi riusciva.
Naturalmente questo non
valeva per Dom, che sapeva soffiare fuori da quelle labbra rosse anche tre
cerchi concentrici di fumo, come un vecchio indiano.
M’innervosii tanto per
l’invidia che finii per consumare la sigaretta prima del tempo. La gettai nel
posacenere, imbronciato, e mi alzai dal letto. Non riuscivo più a starci.
Diedi un’occhiata al
panorama fuori dalla piccola finestra della camera. Dom aveva spalancato le
persiane per far entrare la sana luce del sole del mattino, come la
definiva lui. Cosa che, naturalmente, mi aveva svegliato da un morbido sonno in
cui sognavo ancora il sesso della notte precedente.
Sì, forse ero un po’
maniaco; Dom doveva avere ragione su questo.
Comunque Londra era un
miraggio irresistibile quella mattina. Il sole, così raro, la accarezzava
appena con i raggi tremuli della prima mattina, accompagnando la vita frenetica
di una città multietnica e industrializzata. Il cielo era di un particolare
azzurro-grigio, come se temesse ancora la tempesta.
- Bella, eh?
Dom si era avvicinato e
aveva appoggiato il naso al vetro, per guardare fuori.
Annuii.
- Hai trovato la tua
roba?
Con faccia colpevole,
alzò le mani e mostrò la famosa camicia, appallottolata come un gomitolo e
tutta sporca.
- L’ha presa Jimmy -,
ammise.
- Dimmi che scherzi.
Scosse la testa,
probabilmente sperando che un sorriso bastasse a tenermi a bada.
- Sei tu che volevi il
gatto.
- Sì, lo so; infatti
non mi sto lamentando, come vedi.
Sperai che non dicesse
sul serio.
- Sono quarantacinque
minuti che ti lamenti, Dominic.
Il suo sorriso si
allargò e contagiò gli occhi. Conoscevo quella mossa, lo faceva quando voleva
convincermi a passare dalla sua parte.
- Mi perdoni se ti
propongo uno scambio?
- Dipende…
Lo guardai ricambiando
il sorriso con malizia.
Dom si dondolò sul
posto come un bambino dispettoso, abbassando gli occhi per fingere timidezza.
- E se io ti
promettessi tanto sesso in cambio del tuo perdono?
- Andata.
La mia mano era tesa
verso di lui prima che le parole raggiungessero il cervello.
Dom inclinò la testa da
un lato, come un cane, osservandomi a metà tra lo sconcertato e il divertito.
- Sì, tu sei un
pervertito, Matthew.
Scrollai le spalle. Non
m’importava.
Dom rise e si voltò,
dirigendosi ancora nell’altra stanza. Si era completamente rivestito e non
potevo godermi nessuna squisita parte del suo corpo.
Quando lasciammo
l’appartamento era quasi mezzogiorno.
Dom aveva cambiato
vestiti almeno tre volte prima di decidere definitivamente cosa mettere.
- I ragazzi ci staranno
aspettando -, si lamentò.
- Aspetteranno. Non
sarà questo a ucciderli.
- Ma dobbiamo
organizzare il tour!
Gli lanciai un’occhiata
eloquente, mentre davo un giro di chiavi in più del necessario.
- Showbiz? È il
mio bambino, non va da nessuna parte.
Dom sbuffò e capì che
non c’era possibilità di discutere su quel punto.
La scala a chiocciola
ci sembrò più semplice della sera prima. Percorrerla salendo, al buio, era
stata un’impresa non da poco. Avevamo dovuto sbattere tre volte nel corrimano
per capire che era una spirale e che, di conseguenza, girava su se stessa.
Arrivati al primo
piano, ci scontrammo con un vecchio rugoso che portava a spasso un piccolo
cane, un bassotto. Ci squadrò e qualcosa nell’espressione di Dom mi fece capire
chi fosse.
- Buongiorno signor
Thomas -, salutai.
Tesi una mano verso di
lui, ma il vecchio continuò semplicemente a guardarmi, in modo sfacciatamente
disgustato, e se ne andò un attimo dopo, scendendo le scale.
Dom scosse la testa
rassegnato, massaggiandosi le tempie.
- Beh? -, protestai.
Non avevo fatto nulla
di male.
Ma Dom mi spinse in
fretta giù dalle scale.
- Certe volte sei
proprio lento -, disse, - Quello ci crede una fantastica coppia, adesso.
- E allora?
Lasciai che la mia
risata riempisse l’aria dell’ingresso del palazzo.
- Per me può credere
tutto quello che vuole.
Dom sospirò e non
rispose nulla.
Ma in fondo non gliene
importava un granché.
Del resto eravamo
giovani.
E quando uno è giovane,
non gl’importa mai un granché.
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Fine capitolo primo.
{Ali}.