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LOVEBIRD
Crescere con una
persona per anni, condividere gioie, dolori, speranze, sogni e
fallimenti e delusioni, sposarsi, avere un figlio e dividere la
propria attenzione tra l'amore ingombrante, soffocante, liberatorio e
luminoso per il proprio marito e quello dolce, tenero, tranquillo per
il proprio bambino. Vivere per quando lui tornava a casa, e la sua
voce risuonava tra le stanze riempiendole, perché quel nido
sembrava così vuoto quando lui era via; ed era bellissimo
chiamare nido il posto in cui vivevano perché dava un'idea di
intimità che casa non conteneva, per lei. Dava un'idea di
cura, di affetto, di qualcosa di costruito poco a poco, con le
proprie mani, cementato con la propria unione. Che si sorreggeva
sull'amore.
Poi un giorno
lui uscì, per allenarsi. Lui si divideva tra il suo amore per
lei, un amore quasi protettivo di una persona forte che si prendeva
cura di una persona debole, quello per il blitzball, di cui era la
star celebrata in tutta Zanarkand, e quello goffo per il loro
bambino. A volte lo guardava guardarlo, e si chiedeva che cosa
davvero Jecht provasse per Tidus: se fosse un affetto paterno che non
era in grado di esprimere, se fosse l'imbarazzo di dimostrarsi
orgoglioso di un esserino tanto piccolo, o se fosse la volontà
di vedere se stesso rappresentato nel loro bambino. Lei stava in
disparte, come sempre: d'altra parte era così che aveva
immaginato la sua famiglia. Il bimbo nel letto, il marito nella
stanza che lo rassicurava che non c'erano mostri nell'armadio e che
non c'era da aver paura del buio, e lei che li osservava dalla porta.
In fin dei conti
lei era una persona troppo debole per rassicurare chiunque, e se lei
stessa aveva, a volte, paura del buio, della solitudine, delle ombre
che diventavano mostri, come poteva far credere al proprio bambino
che non c'era proprio nulla da temere?
A volte pensava
che Jecht più che da marito si comportasse da padre, nei suoi
confronti. Che a volte i suoi abbracci protettivi sembravano dati a
una bimba e non a una donna, e che a volte le sue confidenze fossero
in realtà i racconti fantastici di un uomo che voleva essere
il suo eroe. Com'era ingenuo, Jecht, a pensare di dover fare qualcosa
di particolare per farsi amare da lei. Lei provava un amore così
totalizzante e adorante, per lui, che a volte se ne sentiva
annientata e la mancanza della sua vicinanza fisica pareva lacerarla.
La gettava in una tensione che si scioglieva solo quando la porta si
riapriva e lui entrava e a lei si allargava il cuore, e le pareva di
dimenticare che esisteva anche un bambino in quella casa. Jecht era
l'amore della sua vita e lei si buttava a capofitto in quel
sentimento così intenso, quasi spasmodico, quasi delirante.
Un giorno lui
uscì per allenarsi, per un altro degli amori di cui a tratti
si sentiva gelosa. Si avvicinava la partita più importante
della stagione e per quanto lei avesse cercato di stargli vicino e
rassicurarlo che tutto sarebbe andato bene, qualcosa gettava un'ombra
scura sulle confidenze di suo marito. Lui beveva. Non riusciva a
trovare un lavoro che giudicasse all'altezza delle sue capacità,
e beveva per nascondere il fallimento, inventando storie di eroismo e
dignità e orgoglio che poi le raccontava. E lei gli credeva,
perché lui era Jecht, suo marito, l'amore della sua vita, il
suo tutto e non avrebbe mai potuto mentirle. Vedeva solo vagamente
ciò che lo angustiava; comprendeva a malapena perché
l'invecchiare e il dover smettere con il blitzball lo gettasse in
quella specie di malinconia. Pensava che fosse un gioco, che aveva
procurato loro una casa, una famiglia, e che permetteva di andare
avanti; ma nulla più di quello. Non poteva pensare che per lui
il blitzball fosse sopra ad ogni altra cosa, perché se per lei
lui veniva prima della sua stessa vita, in qualche modo doveva essere
così anche per lui, no?
Anche se lei era
una persona debole, infinitamente dipendente e così maldestra,
lui l'aveva scelta e questo doveva significare qualcosa. E il suo
amore infinito, lacerante e tranquillizzante non le permetteva di
pensare che qualcosa, per lui, fosse più importante di lei e
della sua devozione.
Era strano, a
ripensarci, come avesse trascorso quella giornata come tutte le
altre. Lui era uscito presto, e lei aveva lavato e vestito il loro
bambino, lo aveva portato agli allenamenti delle squadre giovanili,
aveva pulito la casa, girato per Zanarkand, raccolto i complimenti di
tutti coloro che adoravano suo marito come il dio del pallone. E poi
era tornata a prendere suo figlio, era tornata a casa, e aveva
trascorso il resto del tempo cercando di leggere, nell'attesa che lui
tornasse. Nulla di diverso dal solito. Che strano, per una giornata
che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
Quando suonò
il campanello, andò ad aprire convinta che Jecht avesse
dimenticato le chiavi. Si trovò davanti degli sconosciuti con
quelle facce addolorate di circostanza, che la informavano che suo
marito era andato al largo e non era più tornato. Non volle
crederci, all'inizio. Lui era troppo allenato per annegare, riusciva
a stare per svariati minuti sott'acqua, durante le partite, e il mare
di Zanarkand era sempre così calmo che non poteva averlo colto
di sorpresa. Non c'era un naufragio da tempi immemorabili, e suo
marito semplicemente non poteva essere svanito nel
nulla, così. Sarebbe tornato, prima o poi; lei lo sapeva.
Seguì gli
sconosciuti per tutte quelle cose burocratiche di cui non sapeva
nulla perché era sempre stato Jecht a occuparsi di tutto. E
poi le parve che le giornate fossero interminabili, e che ad ogni
minuto le si presentasse davanti alla faccia la verità: lui
non sarebbe tornato, il mare pareva averlo inghiottito e il suo re,
colui che dominava l'acqua, sembrava essere annegato lontano da lei.
Era struggente pensare che non l'avrebbe più visto, era
lacerante pensare che lui se n'era andato salutandola con la stessa
convinzione di tornare di sempre, era spaventoso pensare alla vita
buia di solitudine che l'aspettava. Portava il suo bambino con sé,
al molo, osservava le ricerche e si sentiva mancare ad ogni uomo che
scuoteva la testa e le posava una mano nella spalla convinto che
prima o poi lei se ne sarebbe fatta una ragione. Le sembrava di
impazzire, aveva la testa inondata di ricordi e credeva di poterlo
vedere ovunque. Ma Jecht non c'era, Jecht non c'era più e lei
si sentiva così distrutta, così annientata, che le
pareva inutile vivere.
E poi c'era
Tidus. Che la seguiva di malavoglia, che le tirava la manica perché
si voltasse a guardarlo; ma lei aveva gli occhi fissi sul mare, alla
ricerca di un qualsiasi appiglio che potesse farle credere che Jecht
sarebbe tornato. E c'era il dolore indicibile di suo figlio che la
guardava e le diceva che lui era felice che Jecht non tornasse,
perché lui suo padre lo odiava.
Ed era così
lacerante quella sensazione, che non sapeva affrontarla in modi sani
e si chinava a guardare suo figlio per dirgli che doveva sperare che
Jecht tornasse, perché lui doveva dirglielo che lo odiava. Ed
era tremendo perché per lei era inconcepibile odiare l'uomo a
cui aveva dedicato la sua vita intera e a cui doveva la vita di quel
bambino. Non aveva il tempo di pensare, non aveva il tempo di
rendersi conto della portata incredibile dell'emozione di suo figlio;
le bastava trasformarla in qualcosa che sorreggesse anche lei in
quella speranza continua del ritorno di Jecht. Era così
totalmente occupata dalla sua lucida follia che quando gli estranei
posero fine alle ricerche con le condoglianze di circostanza e
l'espressione addolorata sul viso, lei continuò ad andare al
molo, convinta che se davvero Jecht era annegato prima o poi il mare,
che lui adorava, l'avrebbe restituito al suo amore.
Tutto divenne
sempre più labile, sempre più sfocato. Il cibo le
sembrò nauseante, il sonno impossibile. La sua vita si
divideva tra la crudeltà del mare e la freddezza della sua
casa, dove suo figlio piangeva a voce alta perché lei era
sempre lontana. La manteneva in vita solo la convinzione che doveva
prendersi cura del corpo di Jecht, quando il mare si sarebbe
impietosito, e che poi avrebbe potuto lasciarsi andare al dolore che
le chiudeva il petto, lo stomaco, il cuore in una morsa gelida e
atroce. Non pianse una lacrima, in quei giorni, perfettamente lucida
e insieme perfettamente folle: la routine meccanica della sua vita
divenne parte di lei, e scomparve tutto quello che non significava
Jecht. Iniziò a covare un rancore sordo per suo figlio, perché
le sembrava che il suo odio le tenesse lontano l'amore della sua
vita. E insieme si sentiva lacerata dalla colpa per quei pensieri:
ricordava l'orgoglio con cui Jecht, steso accanto a lei, nel letto,
le raccontava nel buio dei progressi di Tidus. Ricordava la sua voce
che si faceva morbida, le sue braccia che si allungavano a stringerla
un po' perché era stata lei a regalargli quel figlio,
ricordava che tutte le sere lui aveva un pensiero per il loro bambino
e si rammaricava di quella paura e di quella fragilità che li
metteva in competizione.
Ricordava che
secondo Jecht, lei avrebbe dovuto stargli vicino di più.
Ricordava che lui le diceva sempre di andare a vedere cosa avesse,
che tanto loro avrebbero parlato dopo. Ricordava che la sua
personalità, il suo carisma, la sua solarità si
attenuavano, quando entrava in casa, e cercava di non adombrare
troppo il loro bambino. Tidus piangeva spesso. Cercava di attirare la
sua attenzione mettendosi in competizione con Jecht e non accettava i
fallimenti. E suo padre cercava di spronarlo in qualche modo, per
fargli superare quella convinzione di essere sempre troppo poco, di
non essere mai all'altezza. Jecht era goffo, quando si trattava di
amore. Non sapeva dirlo. Non sapeva parlarne. Lo metteva in imbarazzo
l'essersi innamorato di lei, lo metteva in imbarazzo volere bene al
loro bambino.
Jecht era goffo
quando si trattava di amore, e Tidus aveva sempre pensato che suo
padre torreggiasse su di lui con troppa forza, con troppa potenza, e
che sprigionasse troppe cose da sopportare. Troppe abilità,
troppe capacità, troppa adorazione da parte degli altri. Tutte
quelle cose che all'inizio avevano schiacciato anche lei, e l'avevano
fatta sentire indegna d'essere scelta da lui. Ma lei sapeva che tra
quelle cose c'era amore; Tidus no.
Eppure ogni
volta che suo figlio ribadiva il suo odio per suo padre, lei si
sentiva tremare. Aveva paura della violenza del suo furore e la colpa
che le pungeva il petto, poi, era distruttiva. Si sentiva mangiare
l'anima da quei sentimenti contrastanti e non credeva di poter
resistere ancora a lungo. Cercò una soluzione, che le
permettesse di amare suo marito senza odiare suo figlio; che le
permettesse di restituire a Tidus un po' di stima per quel padre
perduto. Credette che allontanarlo da sé fosse la soluzione
migliore. Sapeva di voler vivere il suo dolore -di doverlo
vivere come Jecht meritava; sapeva che non poteva farlo di fronte a
Tidus perché suo figlio lo avrebbe odiato ancora di più.
Erano buffi, gli uomini della sua vita: erano così simili da
essere completamente contrapposti e toccava a lei trovare un
equilibrio. Non ci riusciva però, non con Jecht perduto in
mare, introvabile; non con quel dolore indicibile nel petto che le
tagliava la gola per la voglia di piangere e l'incapacità di
farlo.
Era così
debole, lei, che l'amore la squarciava. Languiva sul limite tra
l'odio e l'affetto, facendosi sballottare ora da una parte ora
dall'altra, e così non poteva essere moglie -perché la
portava ad odiare suo figlio- e non poteva essere madre, perché
le faceva perdere ancora di più suo marito. Quello che aveva
bisogno di lei era Tidus, ma lei voleva proiettarsi verso Jecht,
perché fosse ritrovato, perché il suo essere
continuamente al molo ad aspettare che il suo corpo riaffiorasse
prima o poi doveva riportarlo da lei. Non poteva
assolutamente essere altrimenti.
Allontanare
Tidus era la cosa migliore.
Lei avrebbe
potuto ricostruirsi nel suo dolore e quando Jecht fosse stato
finalmente sepolto, sarebbe tornata ad essere una madre. Vedova.
Iniziò a
lasciarlo dalla sua anziana vicina di casa, ogni mattina. Poco tempo
dopo smise anche di andarlo a riprendere la sera e lo lasciò
definitivamente là. Perse il senso del tempo, dimenticò
che doveva nutrirsi, non seppe più cosa significasse dormire.
I suoi occhi erano insieme sbarrati e gonfi per le lacrime che la
notte che la tradivano, ma la mattina il suo viso era pulito, al
molo. Poco alla volta la fatica le mangiò le forze, come il
dolore le aveva mangiato l'anima rendendola fredda e indifferente.
Tutta la sua vita era quel mare calmissimo, placido e così
crudele. Perché, quella mattina, si era inghiottito l'amore
della sua vita?
Una sera le
mancarono completamente le forze. Cercò di ricordare da quanto
tempo Jecht fosse scomparso e si stupì del suo non sapere che
giorno fosse, che ore fossero. La sua vita era stata scandita solo
dalla luna che le annunciava che le doveva tornare a casa la sera, e
dal sole che la invitava ad uscire la mattina. E la marea. La marea
dolce, ciclica, ritmica, che batteva come un cuore. Si era trovata
accasciata sul molo, con una mano che penzolava a sfiorare l'acqua.
Gelida. Forse Jecht non era annegato; forse l'acqua era stata troppo
fredda anche quella sera.
Chissà
come era morto, Jecht. Chissà cosa aveva pensato, quando si
era reso conto del suo ultimo respiro. Del suo ultimo battito. Chissà
se aveva pensato a lei, o a Tidus, o al blitzball, o alla sue
vittorie o ai suoi fallimenti. Chissà se era morto con un
sorriso. Poco alla volta ricordò ogni cosa: conoscerlo,
amarlo, sposarlo, partorire, osservarlo alla luce tenue della camera
del loro bambino, perderlo. Chiedersi come era morto le sembrò
un qualcosa di definitivo, di finale, che doveva per forza di cose
segnare la sua vita. Lei non poteva stare senza Jecht; ma era
riuscita a rimanere senza Tidus, in quei giorni in cui non aveva
avuto l'obbligo di fingersi forte. Si rese conto che forse il corpo
di Jecht era finito altrove, in un mondo sconosciuto al di là
del mare, e che lei non avrebbe mai potuto saperlo.
Che non avrebbe
mai potuto salutarlo, accarezzarlo l'ultima volta, piangere sul suo
petto.
Affondò
la mano nell'acqua, tremando, e pianse.
Silenzioso come
la sua vita, il suo pianto rimase inosservato. Mentre le scendevano
le lacrime sulle guance, ripensò a quello che le aveva detto
la sua vicina di casa, quando aveva bussato alla sua porta per
affidarle Tidus: non fare come gli uccelli. Gli uccelli che si
lasciavano morire, quando perdevano il compagno di una vita. Lei
aveva perso il suo, di compagno, e forse aveva iniziato a lasciarsi
morire da allora, appassendo lentamente, fingendo di avere una
speranza che anche in cuor suo era stata uccisa. E le parole di
Tidus, il suo volerla spronare dicendo che odiava Jecht, il suo
cercare attenzione, erano come forzare un fiore che aveva già
dato tutto e poteva soltanto spegnersi.
Poteva soltanto
spegnersi.
Rimase ferma sul
molo, ascoltando la temperatura del suo corpo che si abbassava sempre
di più, l'acqua intorno alla mano che sembrava pungerla,
accettando l'idea che lui se ne era andato per sempre. Che lei,
presto, se ne sarebbe andata per sempre, lentamente, senza fare
rumore, in punta di piedi. Come sempre. Come era nella sua natura.
E silenziosa
come la sua vita, come il suo pianto, come il suo dolore, si lasciò
morire.
***** Nota
dell'autrice: bè, un'ideuzza strana che mi andava di
portare qui. La storia della madre di Tidus che si lascia morire dopo
la sparizione di Jecht mi ha sempre affascinato. Il motivo per cui,
nonostante avesse Tidus, non abbia trovato la forza di andare avanti
ancora di più. Ho provato a darle un'interpretazione. Mi sa
che manca qualcosa, però; lo sento ma non riesco a metterlo a
fuoco. Chi lo sa. Magari la rivedrò, prima o poi. Come
sempre, risposte a commenti, critiche, domande eccetera sul mio blog
Wide Awake, così non rubiamo altro spazio qui^^ E se non
compaio prima, Buona Pasqua a tutti!
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