Protect me
from what I want;
Dopotutto
era l’ultimo giorno prima del ballo, non potevo permettermi
di rimanere a casa
a crogiolarmi nei ricordi, come ormai facevo tanto spesso. Lily mi
aveva già
chiamata. Decisi di accontentarla, ecco tutto: un pomeriggio a provarsi
vestiti
per il ballo del giorno dopo non poteva essere così
terribile. Avrei
sopportato.
Ma non riuscivo
proprio a ridere. Rimanevo seria
per molte delle sue battute, per alcune accennavo un sorriso che
spariva in
fretta. Mi ero portata i ricordi con me. Non ce l’ho con te,
sono solo un po’
giù, ecco tutto. Sorriso falso, tutto passato: altre sfilze
di colori sul suo
perfetto corpo da ninfa, il fruscìo morbido dei tessuti
sulla sua pelle
abbronzata. Mi costrinse persino a provare un vestito rosso, leggero,
di un
tessuto irriconoscibile che poteva sembrare raso. Era dello stesso
colore del
sangue, ma più vellutato, come il fragile interno di una
rosa rossa. Me ne
innamorai subito.
La sera dopo,
provandomelo allo specchio della mia
camera, non ero più tanto sicura. In fondo non ero mai stata
una di quelle che
possono permettersi di mostrare le gambe con orgoglio, e forse il
colore
cozzava troppo con i miei capelli castano scuro. Ma non avevo un
cavaliere,
quindi non mi preoccupai troppo del mio aspetto. Continuando a
guardarmi nello
specchio incrinato, mi sciolsi i capelli che mi ricaddero mollemente
sulle
spalle e mi truccai pesantemente gli occhi di nero. Potevo sempre dire
di
essermi mascherata da dama stile diciottesimo secolo, e poi nessuno
avrebbe badato
così tanto alla figlia della proprietaria della casa
prestata per ospitare il
ballo scolastico di Halloween.
Scesi le scale fino
all’immenso salone del ballo.
Mi sentivo in armonia con la casa, con quel vestito vittoriano, mentre
scendevo
la maestosa scalinata che curvava leggermente verso
l’ingresso. Il salone era
stato decorato con drappi blu notte sopra le finestre e abbondanti
ragnatele
finte spuntavano in ogni angolo. I cardini di tutte le porte affacciate
sulla
sala erano stati opportunamente resi cigolanti
con chissà quale sostanza acida. Mia madre
entrò dal portone di
ingresso, che emise un lungo gemito straziante, simile al miagolio di
un gatto
in fin di vita.
Trovavo tutto questo
estremamente esagerato.
-Oh, tesoro. Sei
meravigliosa in quell’abito.- Mia
madre mi sfiorò il viso con le lunghe dita affusolate, poi
ritirò la mano quasi
scheletrica. –Gli invitati dovrebbero cominciare ad arrivare
a breve, madame-,
disse Mrs. Galloway, l’unica domestica che mia madre
continuava a tenere. Chissà
come mai aveva l’abitudine di chiamare mia madre
‘madame’, quasi a volerci
ricordare ad ogni parola le nostre origini francesi.
Il mio unico compito
era occuparmi della musica.
Avevo selezionato qualche centinaio di canzoni spettrali adatte al tema
‘festa
dei mostri’, per accontentare gli altri invitati e
soprattutto il ragazzo che
aveva promesso tutta l’attrezzatura per garantire il
sottofondo musicale
adatto. Appoggiai accanto all’amplificatore al quale il
ragazzo, Vic, vestito
con uno smoking nero e camicia inamidata, stava lavorando, i dischi su
cui
avevo registrato la sequenza della musica. –Ehi, Vic. Ti ho
portato i dischi.-,
dissi, a voce bassa. Lui rispose con un vago ringraziamento e
continuò come se
io fossi già sparita.
Tornai nella mia
camera e aspettai finché non fui
sicura che la sala fosse piena. In totale dovevano esserci almeno
settecento
persone, compresi gli ‘amici di famiglia’ che mia
madre aveva invitato da non
so quale parte del mondo, i figli e i pochi professori volen-terosi che
si
incaricavano di recarci il minor disturbo possibile da parte dei loro
alunni.
Scesi nuovamente le
scale, sperando di non essere
vista. Oltre al salone, avevamo lasciato libera quasi tutta la casa,
chiudendo
a chiave le porte troppo private per essere aperte da gente che persino
io
conoscevo a stento. Nel corridoio di sopra, quello su cui dava la mia
camera,
si era già nascosta la prima coppietta. Sentivo la musica
che avevo scelto
scaricare i suoi decibel sugli invitati. Nel salone, come del resto in
tutto il
resto della casa, avevamo fatto in modo che la luce fosse soffusa e
leggermente
giallastra, per dare all’alto soffitto scuro
l’impressione di essere un cupo
cielo notturno senza stelle.
Mi
confusi tra la folla, evitando categoricamente la pista da ballo che si
era
inevitabilmente formata al centro della sala. Vagando tra la folla,
sommersa
nei ricordi, lasciai lo sguardo vagare innocuo per la sala e le persone
che
incontravo. Di tanto in tanto alzavo la mano e sorridevo lievemente per
salutare qualche ragazzo che conoscevo, ma evitai i vecchi amici di mia
madre,
forse perché non volevo dire nemmeno una parola in francese,
forse perché anche
in mezzo a quella marmaglia volevo rimanere semplicemente sola.
Come
un’inutile involucro che conteneva dolore, ricordi sfocati e
tristezza.
Mentre
il mio sguardo vagava, per caso vidi un ragazzo, non molto lontano da
me. Mi
guardava con pesanti occhi scuri, color nocciola, pensai. I lunghi
riccioli
ramati creavano come una cornice intorno al viso bianco come il marmo.
Aveva le
labbra perfettamente disegnate, del colore dei petali della
più bella delle
rose. Le sue labbra si schiusero lentamente in un affascinante sorriso,
mentre
continuava a fissarmi in quel modo insistente, forse quasi sfacciato.
Sentii la
testa che prendeva a girarmi, vedevo la sala del ballo come da una
grande
distanza, la gente sembrava non vedermi, non accorgersi che mi sentivo
male.
Poi la situazione tornò stabile.
E
poi cominciai a sentire quella voce nella testa.
-
I tuoi ricordi sono tristi, ragazza.
Stupidamente,
pensai “Il mio nome è Agathe”,invece di
qualcosa di più utile come “Chi sei tu”
oppure “Perché mi parli nella testa”.
-Agathe.
-Sei stata abbandonata da tutti.
Rimasi
zitta. Come faceva, l’essere che mi parlava telepaticamente a
conoscere i miei
ricordi?
-Ti sei sentita odiata, disprezzata,
dimenticata, vero, Agathe? Nessuno si è comportato bene con
te. Non ti
preoccupare di come so le cose, cara, è l’ultima
delle tue maggiori
preoccupazioni, adesso.
Chi
sei, ho pensato disperatamente, voglio sapere chi diavolo sei.
Sentii
un tocco, lievissimo, sotto il mento, come se qualcuno intendesse farmi
alzare
lo sguardo. Il ragazzo era davanti a me, brillava di una bellezza
incredibile, ma
sembrava non avere più di sedici, o forse diciassette anni.
-Ne
ho quattrocentocinquantadue.-, mormorò il ragazzo.
Ritirò la mano che teneva
ancora accostata al mio viso. Io rimasi sbalordita.
-Mi
dispiace, Agathe.- Poi
sparì.
Letteralmente:
un momento mi stava fissando, e quello dopo non
c’era. Pensai che dovevo stare male, dovevo avere
la febbre, e mi diressi
verso la mia camera. Feci girare febbrilmente la chiave nella
serratura, aprii
la porta. La richiusi a chiave dietro di me.
-Non
affrettarti, abbiamo l’intera notte, mia cara.-
Raggelai.
Mi voltai, nel modo più lento possibile, verso la
provenienza della voce. Era
quella del ragazzo sparito nella sala del ballo. Era appoggiato al muro
nell’angolo della stanza opposto a quello in cui mi trovavo
io e teneva le
braccia incrociate. Mi fissava, e sul volto aveva un sorriso nel quale
vedevo
pochissima allegria. Forse avrebbe potuto piacermi, quel ragazzo:
forse, se non
avesse avuto quel lampo di aggressività quasi animale negli
occhi, e forse, se
in quel sorriso non avessi colto le successive intenzioni.
C’era qualcosa che
proprio non andava in quel ragazzo. Sembravo percepirlo con i sensi, ma
non
riuscivo, ad elaborarlo con il cervello. Non riuscivo a capirlo.
-I mortali fanno così. Il loro corpo lo
percepisce, ma non riescono a spiegarselo, danno per scontato che
qualsiasi
essere dalla forma umana che incontrano non sia nient’altro
che un essere
umano.
Il
terrore cominciò a sfilare nella mia mente. Partiva dal
basso, dalla nuca, come
una striscia sottile di un colore argenteo, come un rumore troppo
acuto, o un
sapore troppo acido. Mi costrinsi a capire cose fosse quello che non
andava.
Il
ragazzo doveva essere anemico. Era troppo pallido.
Aveva
gli occhi troppo luminosi.
Il
ragazzo sembrò materializzarsi davanti a me. Mi
sfiorò la guancia con un dito.
“Qualunque cosa vuoi fare, non farla. Non farlo. Non
farlo”.
-Questo farà male.
Qualcosa
mi aprì una ferita profonda sul collo. Sentii il ragazzo che
accostava le
labbra alla ferita, e beveva il sangue che ne fuoriusciva. Sembrava
uscisse a
fiotti. Cominciai a sentirmi svenire.
Dopo
un tempo indefinito, il ragazzo si scostò da me. Sentivo
gocce di sangue che
ancora scendevano dalla ferita e lui che le raccoglieva con la lingua.
Mi
distese delicatamente sul mio letto. accostò le labbra al
mio orecchio e
mormorò:-Purtroppo non ricorderai niente di questa notte.
La
mattina successiva mi svegliai senza capire perché avessi
ancora addosso il
vestito del ballo. Cercai di toglierlo e mi distesi di nuovo a letto.
Il
mio cuscino era sporco di sangue. E io non
mi ricordavo perché.
Eh,ecco,bene,
e questa roba cos’è?
Io,non
ero
quella che scriveva solo slash?
Doesn’t
matter. Questa l’ho scritta millenni fa. Ho provato a fare
meno somiglianze
possibile con quella storia orrenda che è Twilight e seguiti
vari,ma purtroppo
parlando di vampiri la Meyer ha monopolizzato il campo,persino
più di Anne
Rice. E voglio dire,la Rice contrariamente a quell’altra
è una che merita.
In
ogni
caso: mi è venuta in mente ascoltando Protect me From What I
Want dei
Placebo,nel periodo della mia esistenza quando mi piaceva la
perfezione. {ora
preferisco sbudellamenti più espliciti,corpi in
putrefazione,catene
arrugginite..Quelle cose lì. Scheletri con le ali e la spada
*ogni riferimento
a concept di gruppi musicali è puramente NON casuale*.}.
Lasciamo
perdere.
Se
per
caso vi è vagamente piaciuta prego,recensite.
Sennò non muoio senza recensioni
sappiatelo U.U
Ok,so long and goodbye!
*Frankie
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