Kiss
From A Rose
Capitolo
1.
Certe
notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei.
Certe
notti la strada non conta, quello che conta è sentire che vai.
Certe
notti la radio che passa sembra aver capito chi sei.
[…]
I locali a cui dai del tu.
[…]
Non si può restare soli, certe notti.
{Certe
Notti; Ligabue}
«Il
cantante Joseph Jonas è scomparso da quattro giorni. Le
autorità sono alla ricerca del ragazzo, che pare essere
scappato dopo l'incidente che l'ha coinvolto giorni fa. La famiglia
si sta mobilitando in ogni modo per riportarlo a casa e gli chiedono,
nel caso stia ascoltando questo messaggio, di tornare dal loro il
prima possibile. L'incidente, causa della sua scomparsa, è
avvenuto diciassette giorni fa, conseguito con il decesso di...».
Joe spense il televisore e lanciò il telecomando dall'altra
parte della stanza, dove cadde sul tappeto con un tonfo sordo.
Si
nascose la testa tra le mani, dondolandosi in avanti e indietro sul
letto a una piazza, nella piccola stanza del motel in cui stava
alloggiando.
«È
colpa mia, è colpa mia...», continuò a ripetersi,
in un sussurro fioco appena percepibile. Alzò un poco lo
sguardo sull'unica finestra della camera, affacciata nel parcheggio
semi vuoto del motel, illuminato da qualche auto e dal bar dall'altra
parte della strada, da dove proveniva una musica alta, chiacchiericci
e risa divertite.
Si
alzò, come un automa, e afferrò il giubbotto di jeans,
l'unico che si era portato dietro da casa, e uscì sbattendosi
la porta alle spalle, senza preoccuparsi di chiuderla o meno a
chiave; se anche fosse entrato qualcuno per rubargli qualcosa non gli
sarebbe importato, l'unica cosa che davvero gli importava la teneva
nella tasca del giubbotto, appoggiata sul cuore. Lì dove
doveva stare.
Si
spettinò i capelli con una mano mentre entrava nel bar dalle
luci soffuse, tenendo il capo chino. Gesto inutile, nessuno in un bar
lungo un'anonima superstrada del Nevada l'avrebbe mai riconosciuto
come Joe Jonas, il ragazzo scomparso.
Correzione:
scappato.
Si
sedette su uno sgabello, guardando con la coda dell'occhio gli altri
clienti, per lo più interessati al tavolo da biliardo, dove
stavano facendo varie scommesse su chi avrebbe vinto e con quanto
margine di vantaggio.
«Cosa
ti porto?», gli domandò una cameriera dai corti capelli
tinti di biondo e un sorriso esausto sul volto giovane, un grembiule
nero stretto intorno alla vita.
«Una
vodka, senza ghiaccio», rispose Joe, senza guardarla negli
occhi e mantenendo la sua attenzione sulla fila di alcolici dietro di
lei.
La
cameriera annuì e sparì per qualche istante nel retro,
tornando con un grosso bicchiere e una bottiglia di vetro vuota a
metà.
Non
gli domandò i documenti, forse perché davvero
dimostrava ventun anni finalmente, o forse perché dalla sua
espressione aveva capito che ne aveva davvero bisogno. Magari se nera
solo dimenticata, o non le importava, chissà.
Joe
guardò il liquido scivolare nel bicchiere, con desiderio, e ne
tracannò un sorso non appena la ragazza si fu allontanata.
Doveva avere una ventina d'anni, non molti di più.
Si
pulì la bocca con il dorso della mano e continuò a bere
piano, sentendo il liquido bruciargli la gola. Non era abituato a
bere così tanto, aveva cominciato da qualche giorno, non
appena era uscito dall'ospedale.
Grugnì
quando il bicchiere fu vuoto e fece cenno alla cameriera di
riempirglielo di nuovo. Lei ubbidì e tornò a parlare
con un gruppo di motociclisti appena arrivato, ridendo; evidentemente
li conosceva, non doveva essere la prima volta che si fermavano da
quelle parti.
Finì
di bere in pochi secondi. La terra aveva già preso a girare
intorno a lui, ma sapeva che avrebbe dovuto bere ancora molto
prima di riuscire a smettere di pensare.
Smettere
di pensare alle grida di quella sera, alle urla di dolore di suo
fratello, alle sue, i gemiti di paura, le richieste di un aiuto che
tardava ad arrivare. Smettere di pensare alle sue mani imbrattate di
sangue, suo fratello che aveva smesso di gridare, lei che non parlava
più. Smettere di pensare, poi, alla corsa in ospedale con
l'elicottero, il buio, il silenzio, il dolore, le iniezioni e di
nuovo il buio. Smettere di pensare alla notizia.
Ed
era stata colpa tutta di Joe. Tutta sua, come continuava a ripetersi,
sua che non aveva visto quello stupido cane in mezzo alla strada. Era
colpa sua se non c'era più.
Trattenne
il fiato mentre una morsa gli artigliava le viscere e sentiva il
respiro venirgli meno.
La
ragazza, che stava ripassando lì davanti, interpretò
quel verso come una richiesta di altra vodka e gli prese il
bicchiere, versando altro liquido chiaro.
Joe
non la ringraziò e bevve mentre le immagini di quel giorno gli
affollavano la mente come un filmino in cui non si poteva premere il
tasto stop o, peggio, cancel.
«Lasciatelo
dire, amico, hai proprio una brutta cera», commentò una
voce alla sua sinistra.
Il
ventunenne alzò il capo e volto la testa verso la ragazza che
stava parlando al suo fianco, con una smorfia sorpresa e perplessa.
La
ragazza doveva avere al massimo venticinque anni, dai capelli corti e
mori, gli occhi grandi e di un castano particolare, come miele fuso.
Era alta e dal fisico esile.
Joe
non rispose a quelle parole.
«So
che starai pensando», continuò la sconosciuta. «Chi
è 'sta pazza, e che vuole dalla mia vita?! Beh, scusa se
ti importuno, ma è una serata particolarmente noiosa e non c'è
nessuno di interessante con cui parlare. Tu non mi pari un matto
maniaco pervertito quindi mi sono detta, perchè no? Comunque,
piacere, io sono Matilde», gli porse la mano, senza aspettarsi
davvero che lui la stringesse.
Joe
annuì ma ignorò la mano, come da copione.
Matilde
lo guardò a lungo, annuendo piano.
«Sai,
a questo punto dovresti presentarti anche tu», lo informò,
con un sorrisetto divertito sul viso affilato.
Il
ragazzo alzò gli occhi al cielo prima di posarli nei suoi,
irritato.
«Scusami,
Matilde, ma non sono in vena di far chiacchiere. Non sono la persona
adatta per passare un'allegra serata in compagnia», riferì
nervosamente, bevendo un altro sorso di vodka.
La
ragazza incrociò le braccia al petto e continuò a
fissarlo, con gli occhi fastidiosamente puntati sul suo viso.
Joe
la guardò di sottecchi e si sentì imprecare.
«Che
cosa vuoi?!», sbottò.
«Parlare,
ti ho detto. Scusa se ti disturbo, ma cinque minuti non ti
uccideranno di certo», commentò, sedendoglisi accanto,
«anzi, potrebbero addirittura farti bene!».
Il
ragazzo sbottò un'imprecazione, guardandola storta.
«Sei
il ritratto della simpatia!», rise Matilde, ordinando una birra
alla cameriera che, esausta, continuava a fare avanti e indietro.
«E
tu della timidezza», fece Joe, inarcando un sopracciglio.
Sentiva l'alcool iniziare ad andare in circolo nel suo corpo, mentre
il suo mondo iniziava ad essere a colori.
Matilde
annuì.
«Dai,
solo cinque minuti», lo supplicò ancora, sbattendo gli
occhi grandi e montando sul viso un'espressione da cucciolo bastonato
che lo fece sorridere appena. «Da noi in Italia c'è un
cantante che dice: “non si può restare soli, certe
notti”
«Solo
cinque», cedette Joe, a quelle parole. Matilde batté le
mani contenta. «Dunque, sei italiana», cominciò,
incerto. Non sapeva cosa dire, era come se avesse smesso di sapere
come si chiacchierava con la gente.
Matilde
annuì, scostandosi i capelli dal viso diafano e struccato.
«Di
Torino», specificò, vedendolo in difficoltà. «E
tu?».
«Los
Angeles», rispose automaticamente, pentendosene subito e
mordendosi il labbro inferiore con forza, quasi fino a farlo
sanguinare.
«Wow,
Los Angeles, la Città degli Angeli! Cosa sei, un attore? Un
cantante?», scherzò la ragazza, bevendo un sorso di
birra.
«Niente
del genere», mentì il ragazzo, prontamente. Non voleva
che lei sapesse della sua vita, della sua vecchia vita.
Sospirò amareggiato e chinò il capo sul bancone lucido,
sentendo gli occhi appannarsi, e non era per l'alcool.
Matilde
non se ne accorse, o per lo meno finse saggiamente di non averlo
visto, continuando a parlare a vanvera.
Joe
si passò una mano sugli occhi, asciugandoseli e la fissò.
Non riusciva a credere che una persona potesse parlare tanto, doveva
essere ubriaca, o aver assunto qualche strana sostanza stupefacente.
«Tu
sei tutta matta», mormorò quando Matilde iniziò a
parlare di alieni e di vampiri.
Lei
corrucciò il viso e fece il labbruccio, incrociando le braccia
al petto.
«Mi
ritengo offesa. Te ne sei accorto solo ora?». Scoppiò a
ridere, cristallina.
E
per un attimo Joseph la invidiò per la sua capacità di
riuscire a ridere anche dopo ciò che a lui era successo, anche
se probabilmente lei nemmeno lo immaginava, o forse lo sapeva ma non
le importava.
Lui
accennò un piccolo sorriso, come per scusarsi, senza sapere
che altro aggiungere.
«Cosa
ci fai qui da Torino?», domandò Joe, dopo minuti di
silenzio duranti i quali Matilde finì di bere la sua birra e
lui guardava la cameriera fare avanti e indietro, indeciso se
chiederle altra vodka.
La
ragazza scrollò le spalle, alzando le sopracciglia.
«Tra
tre mesi mi sposo», spiegò, tranquilla, senza nascondere
un sorriso felice.
«E?».
«E
questa è il mio addio al nubilato, tre settimane in vacanza on
the road in giro per tutti gli Stati Uniti, solo io, la strada, e la
mia macchina. Il mio sogno». Nei suoi occhi Joe riuscì a
cogliere un debole barlume di felicità.
Quelle
parole lo colsero di sorpresa. Quella strana ragazza era in partenza
per tutti gli Stati Uniti, solo con la macchina, ciò
significava che non doveva mostrare documenti e passaporti
all'aeroporto per andarsene o altro. Era completamente libera. E a
lui quella libertà serviva.
Quando
era scappato dell'ospedale si era portato dietro soltanto i soldi che
erano nel suo portafoglio, senza contare le carte di credito. Aveva
ritirato tutto quello che poteva al primo bancomat disponibile ma
ormai gli restavano un paio di centinaia di dollari, troppo pochi per
affrontare un viaggio e rifarsi una vita. E se avesse prelevato altro
denaro avrebbero potuto capire dove si trovava. Maledì la
tecnologia per l'ennesima volta.
«Interessante»,
ammise. «E dove sei diretta, ora?».
Matilde
parve felice che fosse finalmente lui a fare le domande, e non
dovesse essere lei a incitarlo.
«Idaho»,
rispose, contenta. Guardò l'orologio che aveva al polso.
«Anzi, è meglio che vada».
«...Come?»,
esclamò lui, sorpreso vedendola alzarsi e abbandonare cinque
dollari sul bancone, prontamente presi dalla cameriera. «Te ne
vai?».
«Sì»,
annuì la mora. «Preferisco muovermi la notte, c'è
meno traffico ed è tutto...», sospirò, «tutto
più tranquillo, più calmo. Posso andare alla velocità
che voglio!». Rise ancora.
Joe
la fissò ad occhi sgranati, mentre la mascella gli cadeva.
«Che
c'è?», domandò lei, perplessa vedendolo con
quell'espressione e corrugò la fronte, mentre una ruga di
concentrazione le rigava il viso.
Il
ventunenne lanciò un'occhiata a lei e al bicchiere di vodka, a
Matilde ed infine alla porta del bar.
«Posso
venire con te?», domandò infine, alzandosi anche lui
dallo sgabello.
«Come?!»,
fece Matilde, gli occhi spalancati dalla sorpresa. «Non mi
conosci nemmeno...».
«Non
mi importa, hai una macchina e te ne stai andando, è ciò
che mi interessa. Posso pagarti, ho circa duecento dollari, spero ti
possano bastare», spiegò lui a raffica, determinato come
non lo era da troppo tempo.
Matilde
lo guardò, muovendo la testa in diagonale, come per osservarlo
meglio; guardò la luce nuova che si era impadronita dei suoi
occhi, i pugni serrati e le nocche bianche, l'espressione
determinata.
E,
prima che lui potesse aggiungere altro, annuì piano.
«Non
mi interessano i soldi», chiarì immediatamente, «ma
sarà un viaggio ancora più avventuroso di quanto mi
aspettassi! La ragazza fuori di testa che raccatta un tipo tenebroso
e misterioso in un bar su un'autostrada e cominciano un viaggio pieno
di insidie», rise. «Devo almeno sapere il tuo nome,
Signor Sconosciuto».
Joe
annuì, mentre un sorriso di soddisfazione gli solcava il viso.
«Joseph»,
rispose.
Matilde
non si aspettava di sapere anche il suo cognome e sorrise quando
scoprì che aveva ragione.
«Bene,
Joey...», iniziò.
«Joe»,
la corresse il ragazzo, mentre il cuore cominciava a battere
all'impazzata. «Per favore, chiamami Joe».
La
mora alzò le sopracciglia, stupita da quella strana richiesta,
e annuì scrollando le spalle.
«Joe,
allora. Vai a prendere la tua roba, ti aspetto nel parcheggio»
e con quella parole uscì dal locale, con una camminata felina,
silenziosa.
Il
ventunenne lasciò dieci dollari alla cameriera, sempre più
stanca, e corse fuori dal bar il più velocemente possibile,
spaventato che quella strana ragazza se ne potesse andare lasciandolo
lì.
Per
arrivare sino al Nevada aveva utilizzato la moto che gli avevano
regalato per i diciannove anni, che utilizzava raramente, ma ora che
tutti lo stavano cercando qualcuno avrebbe potuto riconoscere la
targa. Non gli importava di lasciarla a prendere polvere in un
parcheggio, ormai non gli importava più di niente.
Entrò
con la forza di un uragano nella sua stanza e recuperò lo
zaino in cui aveva le sue – poche – cose, si assicurò
di avere il portafogli in tasca e restò qualche istante a
guardare il suo iPhone appoggiato sul comodino. I suoi genitori non
facevano che chiamarlo, mandargli messaggi, lasciargli suppliche di
tornare a casa sulla segreteria, ma lui non rispondeva mai. Ormai lo
teneva spento, eppure lo considerava come l'unico oggetto che lo
poteva tenere in contatto con la sua famiglia. Lo afferrò e se
lo infilò in tasca, uscendo sbattendosi la porta alle spalle.
Matilde
lo aspettava con le braccia incrociate, uno zaino a tracolla colorato
e un paio di chiavi in mano, appoggiata a un auto scura.
«Pronto?»,
fece, dondolando davanti ai suoi occhi le chiavi dell'auto.
Joe
annuì, lanciando un'ultima occhiata alla sua moto.
Matilde
capì ma non disse nulla. Era del parere che se avesse voluto
parlarle di lui l'avrebbe fatto, altrimenti sarebbe riuscita a vivere
tranquillamente anche senza simili informazioni.
«Joe,
lei è la mia piccola», sorrise la ragazza, indicando la
macchina su cui si era appoggiata.
Joe
la osservò, era una macchina vecchia, nera, ma ben tenuta. Non
riconosceva la marca.
«Aah,
la mia Impala, Chevreolet del '67», sospirò armoniosa.
«Mi è costata un occhio della testa quindi non osare
rovinarmela, va bene? Sei avvertito che non la potrai mai guidare».
Bensì il suo tono fosse scherzoso Joe percepì la
minaccia.
Alzò
le mani, in segno di resa.
«Sissignora»,
ubbidì.
Matilde
sorrise e ed entrò in auto, accarezzando il volante.
Joseph
fece un sospiro profondo; non avrebbe guidato comunque, non dopo
quello che aveva combinato... e dopo quello che era successo.
Scosse
il capo e si sedette accanto a Matilde, osservando l'interno della
macchina.
«Ami
il rock degli anni '70, vero?», gli domandò lei,
infilandosi una felpa a patchwork.
Joe
annuì.
«Bene,
perché ascolto solo quello», spiegò, sorridente.
Infilò le chiavi nel quadro e le girò. Un rombo come di
fusa partì da sotto di loro, facendo ridere Matilde.
«Sei
sicuro, Joseph?», chiese per un'ultima volta, questa volta
seria.
Joe
la guardò, e non aveva dubbi nella sua mente.
«Parti»,
le ordinò.
La
ragazza fece un respiro profondo, guardò lo specchietto e
ingranò la marcia.
Continua...
Prima
che possiate dire qualsiasi cosa, sì, sono tornata. Sono
scomparsa da questo fandom da mesi, me ne rendo conto, ma
l'ispirazione per I'm Only Me When I'm With You è
andata a farsi benedire; a dire il vero tre o quattro capitoli pronti
li avrei, ma vorrei scriverne un altro paio prima di ricominciare a
postare regolarmente. Se va tutto bene, dovrei postare tra due
settimane il dodicesimo
capitolo, ma non prometto
nulla.
Questa è una
mini-long, avrà quattro capitoli che ho già concluso,
poiché l'ho iniziata a scrivere la scorsa estate, ma forse la
allungherò a cinque. È una storia drammatica, siete
avvertite.
Il
settimo capitolo di Olive
& An Arrow
non l'ho nemmeno cominciato a scrivere, ma credo approfitterò
delle vacanze di Carnevale nei prossimi giorni per buttare giù
qualcosa, sempre che l'Ispirazione mi assista. *guarda il cielo e lo
supplica*
Nel frattempo, posterò
questa fanfiction, una volta alla settimana, tutti i mercoledì.
Spero mi facciate sapere ciò
che pensate di questa fic, commenti sia negativi che positivi sono
ben accetti.
Il personaggio di Joe
Jonas e relativi familiari non mi appartengono. Tutti gli altri
personaggi, invece, sono una mia invenzione e mi appartengono in
quanto tale. Questa storia non è stata scritta a fini di
lucro.
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