PRETEND THE WORLD HAS ENDED:
Capitolo 11: Pretend the world
has ended.
Jonathan Crane pensò che in fondo avrebbe dovuto
aspettarselo: era scontato che prima o poi il filo rosso del destino li
avrebbe riuniti ancora, tutti, in un’epica scena finale che
gli sembrava di aver vissuto già troppe volte, che ricordava
pericolosamente il loro inizio.
Avrebbe anche potuto evitarlo.
Magari accettando di restare con Richard in cerca di caffettiere,
magari impedendo alla vita che aveva scelto di allontanarlo da una
scrivania, da uno stipendio più che adeguato, da una
targhetta col suo nome scritto sopra… invece eccolo
lì.
Inchiodato insieme agli altri nel quartier generale di Freeze mentre la
villa gli bruciava intorno e tutto sommato, gli sembrò
accettabile; non gli importava più di sopravvivere e perfino
il pensiero che Ivy avrebbe potuto cavarsela non lo irritava. Si
sentiva solo grato che non fosse lì.
Quella era la loro fine-inizio,
il loro party esclusivo ed Harvey stava in piedi, il petto nudo, la
metà bruciata del viso e del collo brillava - ancora una
volta - sotto i riflettori delle fiamme. Tra le braccia il fucile che
Crane stesso gli aveva ficcato in mano dopo averlo liberato.
Colpito da una pallottola di quell’arma, disteso sul
pavimento mentre sanguinava a morte c’era Joker; dal foro
della fantastica giacca viola che indossava, che era confezionata a
mano, che faceva parte di un completo del cui prezzo Jonathan non era
mai riuscito a capacitarsi, si riversava piano piano a terra.
Poi Duefacce cadde, e fu l’ultimo a farlo; il fucile
scivolò, e roteando lungo il pavimento li puntò
tutti, prima di fermarsi su nessuno.
Quando Spaventapasseri vide Harley Quinn portare una mano al viso,
pensò che avesse iniziato a piangere. Lui invece - per la
stanchezza, per le ferite, o forse per lo scioc di vedere il suo ex che
sparava al suo ex migliore amico - non reagì: con un
fazzoletto sporco si coprì il naso e la bocca per filtrare
l’aria ormai piena di fumo e sembrava quasi che stesse
piangendo anche lui.
Era stato Joker ad appiccare il fuoco, per salvargli la vita dal
ghiaccio artificiale che Freeze gli aveva sparato contro o forse chi lo
sa, solo per rendere la scena ancor più plateale, come se
non fosse stato già tutto un dramma.
Con una mano, il clown coprì il foro dal quale stava
sgorgando il sangue ed il tappeto sotto di lui, incapace di berlo, per
l’imbarazzo arrossiva sempre più, di una
tonalità densa e lucida, scura e viscida come solo la fine
riusciva ad essere.
Gattonando, Crane lo raggiunse, lo vide alzare lo sguardo e nei suoi
occhi scuri ed elettrici le fiamme apparivano nitide, come allo
specchio.
Joker disse: “Merda.” Il suo viso un pastrocchio di
lacrime asciutte, cenere e make-up e disse: “Stantio, il
copione dove muoiono tutti… no?” Si
voltò verso Edward, che non lo guardava, che non si muoveva,
ed alzò la voce. “Speriamo che Oswald ci abbia
tenuto un posto panoramico.” Crane tossì un paio
di volte nel fazzoletto, ma quello fu l’unico suono a levarsi
nel crepitio della fiamme. “Eddie, devi
rispondermi!” Urlò ancora, come se non fosse
diventato già tutto un dramma-dramma.
“Harl?”
La donna rispose con voce quanto mai flebile e tentò di
voltarsi sulla pancia.
“Tutti i supercriminali di Gotham…”
Disse il clown. “Adesso, moriranno?” E
ridacchiò brevemente, senza fiato. Tornò a
guardare Jonathan inginocchiato accanto a lui, il suo viso tradiva una
lunga riflessione. “Ahh… avrei voluto morire per
mano di Bats-s, alla fine.
Crane sorrise. Immaginò che per Joker - l’essere
superiore che in previsione di una morte violenta aveva spedito un suo
bel primo piano a tutti i giornali - fosse normale, anche in quel
frangente, rubare tutta la scena per sé col suo
atteggiamento, con le sue frasi a effetto.
Quando un incendio raggiungeva una certa temperatura, non restava che
evitarne la propagazione, perché spegnerlo diventava
impossibile. Sapevano che non sarebbe arrivato nessuno a salvarli, per
questo ai primi suoni ovattati di una decina di sirene, nessuno
batté ciglio.
“Non volevo che andasse così.”
Rivelò il clown, come se Crane non lo sapesse
già, come se non fosse già tutto un dramma,
dramma, dramma.
“Ohh, sta zitto!” Disse Harvey, desiderando ardentemente di
morire in silenzio o forse, semplicemente aveva intuito le sue prossime
parole.
“Sta zitto tu!” Urlò Joker di rimando,
poi afferrò Jonathan per i vestiti, per ciò che
restava del suo maglione ed il fuoco aveva già iniziato a
mangiarsi il tappeto sotto di loro; se il mondo avesse potuto vederli
in quel momento, avrebbe capito tutto. Molto più di quanto
ognuno di loro avrebbe voluto rivelare.
“Questa è la tua ultima possibilità,
Johnny.” disse, mentre lo ricopriva col suo sangue.
“Mi ami?” Chiese. “Mi ami
davvero?”
Eccolo di nuovo - ma forse per l’ultima volta -, il modo in
cui quel folle aveva estremizzato tutto nella sua vita:
l’infinito spettacolo dal vivo del principe clown, ogni
momento che passava sempre meno dal vivo e sempre meno infinito.
Crane gli prese la mano, perché visto il tentativo di Joker
di ucciderlo, di far fuori anche Duefacce prima di arrabbiarsi con
Freeze e cambiare idea, sarebbe stato un gesto estremamente bello, da
parte sua. Aprì la bocca per rispondere ma il soffitto
crollò nella stanza accanto, scaraventando scintille e
tizzoni ardenti nella loro direzione.
“Chi me lo avrebbe detto, che da morto sarei assomigliato a
Duefacce…” Ridacchiò il clown e
Spaventapasseri rifletté sull’occasione ormai
perduta di mandare anche lui qualche bella foto di sé ai
giornali, nell’eventualità - mai parsa meno remota
- di morire bruciato vivo.
“Mi hai sentito, Harv? La morte ci ha accomunati!”
E le sue risa soffocate coprirono un’ultima risposta scettica.
**
Joker riprese coscienza sdraiato su una barella - nessuna idea di come
ci fosse arrivato -, mentre lo calavano dall’autoambulanza
per trasportarlo nell’ospedale che riconobbe come il nuovo Gotham
General. Lo conosceva bene, visto che era stato proprio lui a demolire
quello vecchio.
Un infermiere prese a tagliargli i vestiti e sembrava metterci
un’eternità, con quelle forbici da sartina che
usavano nelle sale operatorie. Da qualche parte alla sua destra, una
voce femminile continuava a gridare cose oscene.
“Scattate ora!” Urlava. “Sta perdendo
troppo sangue!”
Chiuse gli occhi immediatamente, ma comunque troppo tardi ed il flash
lo accecò.
Qualcuno alla sua sinistra gli stava raccontando quanto fosse stato
fortunato: se la pallottola lo avesse colpito appena due centimetri
più in alto, sarebbe morto. Certo, due centimetri
più a destra invece ed avrebbe potuto strapparsi la maschera
dell’ossigeno per ballare su quella testa di cazzo. Non
riusciva a capire: forse il fatto di avere un sorriso perenne scolpito
sulla faccia non lo rendeva per forza un ottimista, ma non sentiva il
bisogno di ringraziare il cielo per essersi beccato una fucilata.
In sala operatoria gli tolsero la mascherina giusto il tempo di
schiacciargliene un’altra sulla faccia, e le sue palpebre si
fecero pesanti; non voleva dormire, non mentre tutta quella gente in
verde si stagliava sopra di lui con aria minacciosa.
Poi chiuse gli occhi, e fu giorno di nuovo.
Era il tramonto, la luce
arancione colorava le mura, la ghiaia bianca, le aiuole nel cortile
della villa di Freeze mentre lui, saltellando, raggiungeva Harley
vicino al loro furgone.
Harley…
L’Arlecchina
sorrideva; gli si strinse attorno ad un braccio, l’aria
esultante mentre si godevano lo spettacolo del portone che cadeva a
terra, pesante, deformato dall’esplosione.
Edward…
Eddie non si era neppure
avvicinato, non aveva detto una parola, in una mano continuava a
dondolare il suo scettro. Una volta era il suo compagno, ma in quel
momento non sapeva più come chiamarlo.
Calcinacci, polvere…
Attraversarono la densa
nuvola di pulviscolo e si ritrovarono all’interno. Gli uomini
di Freeze erano pochi, ed i più furbi di loro avevano
preferito gettare le armi, gettarsi a terra a loro volta e lui decise
di lasciarli andare.
**
Edward Nigma si sentiva bruciare: dovevano essere tutte quelle
schifezze, quei tubi che gli avevano messo addosso e dentro, ma per
quanto si agitasse non riusciva a liberarsi dalle morse che lo
trattenevano.
Era sdraiato all’interno di un qualche tipo di apparecchio, e
quando apriva gli occhi riusciva a vedere il soffitto attraverso una
finestrella trasparente, mentre se li chiudeva le immagini si
affollavano: le fiamme, Joker, il fumo, poi ancora Joker, ancora fumo e
fiamme…
Si domandò se le bende che gli avvolgevano la faccia
nascondessero davvero le terribili ustioni che temeva e forse lo stava
solo immaginando, ma sentiva odore di capelli bruciati.
Pensò che gli sarebbe mancato molto, il suo bellissimo viso.
Era rimasto indietro,
come da piano, a trafficare col sistema di sicurezza di Freeze: fece
scattare l’allarme di contenimento che sigillò
porte e finestre, che avrebbe impedito a chiunque la fuga.
Era grato di essersi potuto separare dagli altri.
Ad un certo punto si
sentì chiamare, era Crane. Gli chiese cosa stesse
succedendo, cosa diavolo volesse Joker da lui. Al suo fianco, uno
sconosciuto col volto coperto da una maschera antigas continuava a
fissarlo senza dire una parola.
“Qualsiasi
cosa sia, non è buona.” Ammise Edward.
Perché non gli andava, di ingannarlo.
“E
tu?”
Lui aveva seguito il suo compagno fin dentro la tana del
leone… non avrebbe avuto senso, tradirlo a quel punto.
Eppure, non voleva fare del male a Crane.
“Vieni con
me.” Propose, il tono urgente. “Di qualsiasi cosa
si tratti, lo convinceremo a ripensarci.”
Spaventapasseri
spalancò gli occhi: “Non scherzare.”
disse. “Quando mai Joker ha rinunciato a qualcosa solo
perché glielo chiedevi tu.”
No, no, non da Jonathan Crane… da lui, simili schifezze non
poteva proprio accettarle.
“Potrei dirne
tante anch’io sul tuo conto, ma sono più
educato.” disse, e digrignò i denti.
“Non ci credo, vorresti affrontare me?” e
sollevò lo scettro, ma la sua scarica elettrica
mancò il bersaglio: il ragazzo col volto coperto aveva
spinto Spaventapasseri per terra, lontano dalla traiettoria del suo
attacco.
“Vattene.”
Disse poi, e Crane non se lo fece ripetere due volte.
Crane…
“Coraggioso,
il tuo amico.” Commentò Nigma. “Ma
c’è gente peggiore di me, qui in giro.”
C’era Joker, c’era Freeze, c’erano Harley
e Poison Ivy.
Il ragazzo
ghignò, e fu realmente fastidioso. “Una cosa alla
volta.” disse, tracotante, ma mostrò presto di
poterselo permettere: saltava, roteava e menava colpi con la violenza
di una bestia. Edward non riuscì mai a colpirlo e parare i
suoi colpi si dimostrò altrettanto doloroso che prenderli in
pieno.
Se non fosse stato tanto
più basso, avrebbe giurato che si trattasse di Batman.
Doveva solo scappare.
Gli facevano male i
polsi, gli avambracci, la milza… corse così tanto
che pensò di non riuscire mai più a riprendere
fiato in vita sua.
**
Per Harley Quinn, le unghie strappate non erano il problema e neppure
le ossa rotte; quando si guardava però - le vene che
pulsavano in rilievo, scure come lividi, i polpastrelli
verdi… - le passava la voglia di scoprire il resto del suo
corpo; ad intervalli regolari un’infermiera - sempre la
stessa, coperta di plastica da capo a piedi - arrivava per farle
un’iniezione dopo l’altra. Poi controllava che
fosse ancora saldamente bloccata sul letto di contenzione, prelevava un
nuovo campione di sangue e sostituiva la busta per la trasfusione.
Doveva ammetterlo, un po’ aveva paura.
Se solo avesse saputo qualcosa del suo Puddin’… lo
aveva visto mentre lo caricavano su un’ambulanza diversa
dalla sua, gli occhi chiusi, sangue dappertutto, pallido come un morto
sotto il cerone sporcato e sciolto.
Sentì gli occhi bruciare di nuovo ma si rifiutò
di piangere, non era sconsolata. Se avesse ceduto alle lacrime, sarebbe
finito tutto. Harley
Quinn stessa sarebbe finita, perché il suo uomo
meritava di meglio. Il suo Puddin’ era immortale, quindi
l’Edera, o Freeze, o l’intero mondo, non avrebbero
mai vinto in quel modo.
Loro non avrebbero dato a nessuno la soddisfazione di vederli tirare le
cuoia.
Ivy era perfino arrivata
a proporle un’alleanza, a dire che erano simili loro due, che
insieme avrebbero potuto formare una squadra invincibile. Ovviamente,
lei rifiutò.
In breve tempo, Harley
si ritrovò a fuggire dalla battaglia, l’Edera le
aveva sputato addosso ogni tipo di veleno.
Non riusciva a
seminarla, i suoi rami erano dappertutto nell’edificio e
tramite loro sapeva sempre dove trovarla; quei perfidi figli poi, le
sbuffavano addosso strane spore, l’attaccavano continuamente.
Poi, Edward…
Lo vide attraversare il
corridoio dirimpetto al suo e lo chiamò, gridò il
suo nome con tutta la voce che aveva; lui si fermò di botto,
il suo sguardo corse da lei ad Ivy, poi di nuovo a lei, i loro occhi si
incrociarono e bastò un attimo.
Come leggendogli nella
mente, si gettò per terra.
La luce.
Vide l’attacco
di Edward riflesso sul pavimento, come un lampo di luce che
sembrò accarezzarla, prima di passare oltre. Poi la punta di
un paio di stivali da uomo vicino la sua faccia le fece alzare lo
sguardo.
“Che. Bella.
Soddisfazione.” Disse Nigma, e lei sorrise.
Avrebbe anche potuto ignorarla, o magari prendere due piccioni con una
fava ed ammazzarla insieme ad Ivy, ma non lo aveva fatto.
“È…?”
“Che ne
so.” Disse lui.
“Polso?
Battito cardiaco?”
“Figurati se
ha queste cose.”
Si vergognava di aver pensato tanto male di Edward.
“Giuro che al
tre mi alzo.”
“Senza
fretta.” Disse Nigma, sorridendo. “Intanto,
raccontami pure i dettagli del vostro catfight…”
**
Harvey Dent pensò di essere invulnerabile agli elementi
della natura: nella sua vita era sopravvissuto ad una donna pianta, due
incendi, due annegamenti ed un’esplosione. Aveva perfino
vinto a testate con la Terra, se si conta la caduta
dall’altalena quando aveva cinque anni.
Gli venne da ridere.
Il ritrovamento dei cinque criminali più pericolosi di
Gotham in una villa in fiamme, divenne quasi un affare di stato e
purtroppo, Duefacce si ritrovò l’unico abbastanza
in forze da sopportare l’assedio di domande della polizia;
dopo appena qualche minuto di interrogatorio, guardò Jim
Gordon dritto negli occhi.
“Non sono cazzi vostri.” Disse, e non
profferì più parola.
“Jonathan?”
L’ex
psichiatra imbracciava due armi, una mitraglietta ed un fucile. Le
poggiò a terra giusto il tempo di liberarlo dalle corde.
“Joker
è qui per me.” Disse. “Ma sono
abbastanza sicuro che ce l’abbia pure con te.”
“E quando
mai.” Commentò, alzandosi in piedi.
“Giuro che stavolta lo secco.”
Era così strano, pensare che l’origine di tutto
risalisse a tanti anni indietro. Fatti che ormai credevano dimenticati,
sepolti.
“Tu non secchi
proprio nessuno!” Lo rimproverò, mentre gli
ficcava in mano il fucile. “Dobbiamo solo
andarcene.”
“Paura,
Johnny?” La voce di Joker li colse di sorpresa, lo videro
appoggiato contro la porta. ”Non dovresti, sai quanto ti
voglio bene, no?”
Duefacce
sollevò il fucile, ma Crane ne afferrò la canna e
l’abbassò, fulminandolo con lo sguardo.
“Cosa pensi
che ti abbia fatto?”
“Credo sia
più esatto dire cosa non hai fatto. Ma davvero, penso tu
sappia già di che sto parlando… sapevi chi era
Poison Ivy, una telefonata avresti anche potuto farla.”
Disse, poi rise. “Anche a carico del destinatario.”
La sua lingua schioccò velocemente, un suono ammonitore.
“Vergogna, Johnny. Pensavo ci volessi bene.”
Probabilmente Spaventapasseri era stato il solo a capirlo fin da
subito, che c’era la seria possibilità di non
uscire vivi da lì.
“Tu sei
malato, clown” Commentò Duefacce.
“Non stavo
parlando con te!” Urlò, e fece qualche passo nella
stanza.
“Vattene,
Jonathan.” Ordinò poi Harvey, ed il clown
sembrò trovarlo divertente.
“Massì
Johnny, vattene pure.” disse, ed il suo tono non era mai
stato tanto lugubre.
Dopo aver vissuto una cosa simile tutti insieme - sperimentare odio,
rabbia, delusione e smarrimento, dopo aver tentato di ammazzarsi a
vicenda -, probabilmente non sarebbero mai più riusciti a
restare separati.
Joker
s’inchinò con strafottenza al passaggio di Crane,
poi iniziò a fissare Harvey in modo intenso, lo vide far
scattare il caricatore del fucile.
“Guarda che
l’automutilazione non mi spaventa.”
Il clown non
capì subito, ma infine annuì. “Ah!
Parli delle cicatrici!” Ridacchiò brevemente e si
avvicinò di qualche passo. “Vuoi sapere come me le
sono procurate?”
**
Jonathan Crane si rese conto di non sapere dove andare e probabilmente,
quella luce circolare che lo illuminava come un riflettore non avrebbe
dovuto essere lì: era strana, fastidiosa.
Strizzò le palpebre, alzò lo sguardo e lo vide:
un grosso elicottero roteava nel cielo sopra di lui, illuminandolo col
suo gigantesco faro; nonappena si mosse per uscire da quel fascio di
luce, il velivolo andò via.
“Sai.” Disse il dottor Fries al suo fianco.
“È per quei supercriminali, quegli evasi. Dicono
che le ricerche non si fermeranno finché non li avranno
ripresi tutti.” Abbassò la mano con cui
s’era riparato gli occhi e sorrise. “Dobbiamo
proprio andare. Il congresso è già
iniziato.” Disse, e gli mise una mano sulla spalla.
Jonathan chiuse gli occhi.
Non avrebbe mai voluto
lasciare la villa. Freeze non poteva lasciargli fare ciò che
volevano, non dove riposava sua moglie. Il cuore gli si
fermò per un attimo.
Solo che in quel momento, non ricordava perché. Il dottor
Fries lo guidò fin nella sala d’ingresso
dell’hotel, poi lo lasciò, precedendolo nella sala
congressi. Jonathan si avvicinò alla reception e
poggiò la sua ventiquattrore sul lucidissimo bancone.
“Devo registrarmi.”
“Nome, prego?”
Chiese un uomo; era alto, molto alto e magro coi capelli scuri,
probabilmente troppo lunghi per il lavoro di front office che faceva.
Sul petto, una targhetta recitava Edward e nient’altro e per
un momento, Crane esitò.
“Signore?” Lo incitò Edward, guardandolo
un po’ preoccupato.
“Jonathan Crane.”
Freeze lo aveva tradito?
Possibile?
“Ma certo.” Sorrise l‘uomo. “Mi
dia un documento adesso, per favore.”
Quando aprì la ventiquattrore si accorse che qualcosa non
andava, non era la sua: i suoi documenti, il cellulare, il portafogli,
perfino i biglietti per il ritorno a casa non c’erano
più. Sul fondo giacevano solo un cilindro di plastica ed una
maschera da spaventapasseri, brutta come poche cose.
“Oh, diavolo…” imprecò,
portando due dita a massaggiarsi gli occhi.
“Ti stavo
cercando.”
Sobbalzò a quella voce improvvisa e si voltò.
Restò in silenzio e Freeze fece lo stesso.
“Non è la mia valigetta.”
Spiegò. “Devo averla scambiata ad un certo punto,
non potrebbe lasciarmi passare comunque? Sono davvero in
ritardo.” Disse, calcando l’ultima frase.
“Mi dispiace…”
“Immagino.”
Disse Jonathan, riuscendo perfino ad apparire calmo.
“Cosa
immagini?” Chiese Freeze, ed a passi lenti iniziò
a disegnargli un ampio cerchio intorno.
“Sei sceso a
patti con Joker, vero?”
“Naah, non pensarci troppo su! Si sistemerà tutto,
vedrai.” Disse il barista, poi smise di botto di shakerare il
suo drink, lo versò nel bicchiere e glielo passò,
tutto nel giro di due secondi.
“C’era la mia vita, in quella valigetta.”
Replicò Crane, sconsolato e troppo stanco per mettersi
effettivamente alla ricerca del bagaglio perduto. Sentì il
barista mormorare qualcosa, che somigliava pericolosamente ad un ma che
minchiata.
“Prego?”
“Niente, và.” Disse l’uomo,
sul suo petto una targhetta diceva solo -J. “Ahh…
avevi i documenti nella borsa, no? Sono sicuro che il tizio che
l’ha presa ti chiamerà lui.”
Jonathan sorrise, allontanò il bicchiere dalle labbra per
portarlo sulla fronte.
“Io non ho
niente contro di te. Sei stato un valido alleato, ma tutto questo deve
finire.”
“…con
la mia morte.”
Mentre tornava alla sua stanza, lungo il corridoio vide una cameriera
dall’aria allegra avanzare in direzione opposta alla sua
mentre spingeva un grosso carrello; stava canticchiando una filastrocca
e sembrava non averlo neppure notato. Si scansò per
lasciarla passare ma una ruota gli pestò un piede, il dolore
lo fece imprecare.
“Uh? Ah! Mi scusi tanto!” Disse subito lei. Era
bionda, sul suo petto la targhetta riportava solo: Harley.
“Non è niente.” Rispose Jonathan, ma era
evidentemente irritato.
“Ecco!” Esclamò Harley, sollevando un
indice in aria. “Se mi perdonerà, farò
finta di non vedere, se consumerà qualcosa dal mini
frigo.” Gli strizzò l’occhio e riprese a
spingere il suo carrello, ricominciò a cantare,
più forte di prima.
“Mi
dispiace.” Disse Freeze, ma Crane sapeva che non era vero.
Solo che nonostante
l’apatia, l’infelicità, le azioni
sconsiderate degli ultimi anni, sentì chiaramente la
voglia… di non morire e non se l’aspettava. Non
così forte, per lo meno.
Lo squillo del telefono della camera lo fece sobbalzare:
sollevò la cornetta ed una voce sconosciuta parve non vedere
l’ora di restituirgli la sua ventiquattrore: gli diede
appuntamento a casa sua, un posto leggermente fuori città e
subito dopo aver riattaccato, Jonathan portò entrambe le
mani a coprirsi il viso.
Non ricordava di aver mai avuto un’emicrania tanto forte in
vita sua, ma sentiva che una volta recuperata la sua valigetta tutto
sarebbe tornato a posto, sarebbe tornato a stare bene. Per sempre.
Vide Freeze sollevare la
sua arma contro di lui.
La casa era tutta addobbata a festa, dalle finestre intensamente
illuminate la luce usciva a rischiarare anche il cortile e la porta era
aperta. Man mano che Jonathan si avvicinava, il rumore di voci, di
musica, delle risate, si faceva sempre più forte.
“Jonathan Crane?” Si sentì chiamare e si
voltò, aggrottò le sopracciglia.
“Jonathan?” ripeté l’uomo; era
basso, tarchiato, ed indossava un frack alquanto fuori moda. Era sicuro
di non conoscerlo.
“Sono io.” Annuì, e per un attimo
dovette chiudere gli occhi. “Sono venuto per la
ventiquattrore.” Disse, e l’uomo sorrise come a
sbeffeggiarlo, come se sapesse qualcosa che a lui sfuggiva. Decise di
ignorarlo.
Si voltò a guardare la casa illuminata ed avanzo di qualche
passo per raggiungerla; osservò l’interno
attraverso la porta aperta e vide una scala, in cima alla quale una
figura scura, irriconoscibile, sembrava guardarlo come se lo stesse
aspettando.
“Non la riconosci?” Disse l’uomo alle sue
spalle, e sembrava divertito. “Non ti sembra di averla
già vista, quella vecchiaccia?”
Gli bastò un
attimo per decidere che avrebbe tentato il tutto per tutto.
Crane continuò ad ignorarlo, avanzò ancora verso
la casa, verso la figura scura di quella donna.
“In caso te lo stessi chiedendo sì, lei ti stava
aspettando già da un po’.”
Continuò la voce dietro di lui. “Sei proprio
sicuro di voler entrare?”
Crane annuì e per un momento, la testa gli girò
talmente forte che dovette fermarsi e chiudere gli occhi.
“Ehi, Jonathan!”
Non sapeva cosa quell’uomo avesse ancora da dirgli ma si
voltò lo stesso; si ritrovò la bocca di una
pistola puntata dritta in mezzo agli occhi e per un momento gli parve
di ricordare.
“Naah.” Lo sfotté Pinguino.
“In fondo… tu non sei come loro.” Disse.
Sollevò la
mitraglietta contro Freeze, l’unica persona che avesse mai
ammirato in vita sua.
E sparò.
E sparò.
**
La luce era accecante, il rumore insopportabile e molte mani cercavano
di trattenerlo.
Non riusciva a deglutire, perfino respirare gli era doloroso; sentiva
la schiena fradicia di quello che immaginò fosse sudore e
con un ultimo, immenso sforzo, si districò abbastanza per
afferrare il camice di uno degli infermieri che lo circondavano. Con
uno strattone lo attirò a sé finché
non furono faccia a faccia.
“Chi sono, io?”
“C-Crane! Lei è Jonathan Crane.”
**
Appeso a testa in giù fuori dalla finestra
dell’ospedale, Dick Greyson attese fino allo spegnimento
delle luci, finché tutto il personale non si fosse dileguato
dalla stanza riservata allo Spavetapasseri, poi entrò.
Restò fermo nell’oscurità per qualche
minuto, in piedi ad osservare il respiro regolare che le macchine
pompavano nei polmoni di Crane e pensò che non fosse giusto.
“Mi hai fregato un’altra volta.”
Disse, poi finalmente avvicinò una sedia al letto e si
sistemò a suo fianco; quella che sembrava
un’eternità passò in silenzio,
perché a dire il vero Richard non sapeva proprio cosa dire
né tantomeno se sarebbe potuto servire a qualcosa. Per molto
tempo, semplicemente restò a vegliare lo Spaventapasseri e
di nuovo, ma per molti più motivi, non gli sembrò
giusto.
“Magari non serve, eh.” Mormorò
all’improvviso, e si tese in avanti sulla sedia.
“Ma sappi che so bene quanto è difficile trovare
qualcosa o qualcuno in cui credere. Probabilmente ho sbagliato a
chiederti di credere in me, allora. Non ho mai avuto niente che valesse
la pena nascondere, ma immagino tu te ne sia già
accorto.”
Disse, e si sfilò la maschera dalla faccia;
l’osservò per un attimo prima di nasconderla sotto
il cuscino dove Crane riposava.
Pensò che se l’ex psichiatra fosse stato sveglio,
avrebbe capito… anche senza bisogno di parlare.
Ancora una volta, non era giusto.
Guardò Jonathan ancora per un po’, poi
sospirò e si stese contro lo schienale della sedia, chiuse
gli occhi. “Non è giusto.” disse, ad
alta voce per la prima volta, ed allungò una mano a prendere
quella di Crane, facendo attenzione alla flebo se la portò
sotto il mento; era calda.
Chiuse gli occhi, ed iniziò ad ummeggiare una canzone.
Cast shadows through the days
and swing the night. And come with me.
There’s
nothing to believe in here, so just believe in me.
Your sense of
apprehension suits you, you wear your troubles well.
I’ve nothing
left to hide from you, I’ve got no God to sell.
(Lancia ombre attraverso
i giorni e dondola(?) la notte. E vieni con me.
Non
c’è niente in cui credere qui, quindi credi in me.
La tua inquietudine ti
dona, indossi bene i tuoi guai.
Non mi resta niente da
nasconderti. Non ho nessun Dio da vendere.)
Vi
è sfuggito qualcosa? Avete dei dubbi?
Tenterò di
far luce sui punti bui rimasti: 1) Vi domandate che fine abbia fatto
Ivy? Dopo averla stesa, Edward ed Harley l’hanno trascinata
in una delle stanze del primo piano quindi sì, infine lei si
è salvata per davvero… solo per essere acciuffata
da Batman poche ore dopo.
We can hide away for
days, pretend the world has ended.
No more drama, no more
pain -- pretend the world has ended.
We can run away tonight
-- pretend the world has ended.
No matter what they say,
we’ll work out fine: ‘cause you and I, we know this
is heaven.
(Potremmo nasconderci
per giorni, fingere che il mondo è finito.
Non più
drammi, non più dolore -- fingere che il mondo sia finito.
Potremmo scappare via
stanotte -- fingere che il mondo sia finito.
Non importa quello che
dicono, ce la caveremo: perché io e te sappiamo che questo
è il paradiso.”
Altro
dubbio?
2) Vi state domandando
se il tizio mascherato e “tanto più basso di
Batman” fosse Dick? Sì, era lui. Vi chiedete come
sia scappato? Dopo aver lasciato soli Duefacce e Joker, Spaventapasseri
lo ha incontrato ed opportunamente imbrogliato per riuscire a metterlo
ko e salvargli la vita. È a questo che si riferiva, con il
suo “Mi hai fregato di nuovo.”
Your hair is damp from
the rain, hungry eyes that look like lust.
The ghosts of lost loves
follow you, you feel but you can’t trust.
Time disappears inside
you, ‘till there’s nothing left but us.
You wave goodbye to
everyone, and hope our love’s enough.
(I tuoi capelli sono
umidi di pioggia, occhi affamati che sembrano lussuria.
I fantasmi di amori
perduti ti inseguono, puoi sentire ma non riesci a fidarti.
Il tempo scompare dentro
di te, finché non resta altro che noi.
Dì addio a
tutti con la mano, e spera che il nostro amore sia abbastanza.)
Ultima
esitazione?
3) vi chiedete come
abbiano fatto a sopravvivere quei criminali ;)? Vi dirò, non
ne ho idea. Forse è stato Dick a salvarli, con
l’aiuto del suo gruppo di Titans, o forse Ivy ha demolito la
casa coi suoi rami in cerca di una via di fuga, chi lo sa…
cioè, in fondo vi importa davvero?
Just put your hand in
mine, then cast your doubts aside.
(Metti semplicemente la
tua mano nella mia, poi getta via i tuoi dubbi.)
FINE.
Ma prima che ve ne
andiate. Posterò presto un epilogo a questa storia, che
farà un po’ da introduzione al prossimo sequel.
Continuate a seguirmi ;)!
Ringrazio tutti del
sostegno, è magnifico che mi abbiate seguita fin qui, alla
fine.
Un abbraccio,
XxX.SilverLexxy.XxX
|