I
MISERABILI
Nel
silenzio, un respiro.
Nel
silenzio, lo sente. Ansimante, lievemente affannato, eppure poco più di un
sibilo nell’oscurità dilagante intorno a lui.
È
al buio, nel buio, il suo amato odiato buio.
È
claustrofobo, ma vuole stare male. Vuole soffrire, soffrire. Sa di meritarlo.
Sa
di dover punire quel suo cuore troppo orgoglioso, quel suo animo troppo chiuso,
quel suo non sapere rapportarsi agli altri.
Quel
suo guardare solo se stesso. Come in uno specchio. Uno specchio che continua
mandare il suo riflesso, ininterrottamente.
La
bambola si muove nel buio di quella stanza chiusa, persa nel suo terrore.
Ha
chiesto lei di stare lì, lei non se ne è voluta andare.
Lei
ora è sola, può piangere.
Si
è mai vista una bambola versare lacrime?
Sì.
Lui
ha visto se stesso.
E
ancora non può vedere e sentire altro che non sia il suo respiro mozzato nel
terrore. Non terrore di quella stanza. Non terrore del buio che l’avvolge.
Terrore
di sapere che qualcosa si è rotto, per sempre.
Nel
buio la bambola può tornare uomo, arrancando, accasciandosi senza timore di
rompersi fra le legnose braccia d’una sedia.
Può
cercare di non nascondere i singhiozzi.
Può
provare a rovinare il suo viso di porcellana con quelle corrosive lacrime
salate che detesta.
Non
deve più temere di farsi vedere dagli altri.
Sta
lì immobile, singhiozzante dentro i suoi bei vestiti di stoffe raffinate, a
mordersi delle labbra disegnate pur di non cedere del tutto.
Per
orgoglio, smisurato, prepotente orgoglio.
Sa
che tornerà.
È
sempre tornato.
Non
è la prima volta che litigano, in fondo.
Tornerà.
Tornerà.
Tornerà.
Deve tornare.
Solo…
allora perché, perché teme che questa volta sia tutto diverso?
Perché?
Cerca
di calmarsi, stringendosi il petto fra due braccia quasi troppo sottili per
essere di un uomo. Cerca di calmare il respiro, invano.
Cerca
di vedere nel buio, invano.
Eppure
prega perché la porta non si apra, prega che nessuno lo veda, che nessuno lo
senta, prega che lo lascino solo in quel suo requiem senza fine.
Non
ha mai voluto questo, mai.
E
pensa, nel silenzio, a ciò che c’è stato solo qualche ora prima.
Un
film, un flash.
E
lui rivede i Malice Mizer,
tutti insieme nello studio del loro produttore (che non è più lui stesso, oh
no!). I Malice Mizer
parlano di lasciare perdere. Con la musica, con tutto. Perché?
Perché
non ce la fanno più.
Ricorda
distintamente la tensione, e quel silenzio, e quello strano brivido che gli è
corso lungo la schiena.
Ricorda
gli occhi color nocciola di Gackt Camui sgranarsi,
increduli, gli occhi di uno che ha appena sentito una fredda lama
attraversargli a tradimento le scapole.
Lui
che con i Malice Mizer
voleva conquistare il Giappone, poi l’Asia, poi il mondo intero e chissà
cos’altro… lui che condivideva il loro sogno, il sogno di tutti, quello che li
aveva tenuti uniti per così tanti anni.
Per
lui è stato un colpo improvviso, come se gli avessero annunciato la morte di
qualcuno.
O
di qualcosa.
La
morte del Sogno.
La
morte di quello che avevano compiuto loro insieme fino a quell’istante.
Ma…
oh, che Camui non creda che Mana non soffre!
Che
non creda che rinunciare al sogno l’abbia reso felice!
Mana
non avrebbe mai voluto farlo.
Non
avrebbe mai rinunciato alla sua famiglia, alla sua passione!
Ora
sa che ha sbagliato a non parlarne a Camui, a non
comunicargli i suoi timori quando ancora poteva farlo, a dirgli che non
riusciva più a dare niente, che la sua ricerca infinita di se stesso non lo
stava portando più a nulla, che non comprende neppure più i suoi desideri.
La
Malizia e Miseria dell’uomo infine ha colpito anche la bambola.
Merveilles.
Avrebbero
venduto l’album, poi sarebbero scomparsi.
Sarebbero
diventati una leggenda.
Ma
quando la bambola ha provato a ipotizzarlo, Gackt le ha urlato contro.
E
se n’è andato, sbattendo una porta improvvisamente troppo pesante, e spessa.
Gli
occhi della bambola si sono puntati allora verso quella porta chiusa.
L’hanno
osservata, scrutata, appena straniti, come se si aspettassero di vederla
riaprirsi.
Cosa
che non accadde più.
Gli
altri se ne erano andati, chiedendogli cosa voleva fare.
E
lui era rimasto nella stanza buia.
La
bambola ha ripreso la vita.
È
uscita finalmente dalla stanza buia.
È
nella realtà del mondo, sta camminando.
Forse
se fa uno sforzo può andare sopra se stessa.
Sì,
forse può.
Può
ancora riuscirci.
Sensazioni
e tormenti, espressi solo da stanchi occhi arrossati.
Null’altro.
Si
muove lungo la strada, incurante per una volta degli sguardi ossessivi di
coloro che lo osservano passandogli di fianco.
Brevemente
si chiede cosa essi vedano, se la bambola o l’uomo.
Se
vedano Mana o la figuretta perfetta di un
settecentesco carillon.
Ha
pensato di cambiarsi, ma quella strana urgenza che sente nel petto lo ha
obbligato a muoversi.
Sa
che c’è qualcosa d’importante che deve fare.
E
va avanti, senza meta perché non sa dove trovarlo, sa solo che deve.
Per
quanto ancora andrà avanti quel girovagare senza scopo?
I
suoi passi rimbombano a tempo col suo cuore, forse a causa delle sue scarpe
pesanti, o a causa della gravità che sente sulle sue spalle e dentro di sé?
La
sua ombra si proietta sul marciapiede, nera e scura, ma lui neanche nota il
forte sole che sicuramente si riflette sui suoi capelli d’ebano, pazientemente
acconciati sfruttandone la naturale ondulazione.
E
poi alza gli occhi color del ghiaccio sottile, lucidi, dipinti, solitamente
così statici da sembrare di fine vetro.
E
quegli occhi stranamente arrossati lo scorgono, seduto in un caffè.
Sta
abbandonato su una sedia, con la testa fra le mani, davanti a sé ha una
bottiglia contenente qualcosa di alcolico. Qualcosa che gli faccia dimenticare.
Lui
lo scruta da lontano, in piedi, senza badare che lo noti.
E
si porta una mano al petto, tristemente, in silenzio.
Poi
prende un respiro silenzioso e profondo, e fa un passo, avvicinandosi.
Un
altro, un altro ancora.
Quasi
sorride. Ci riuscirà, sa che ci riuscirà.
Riuscirà
a fermarlo, a riportarlo indietro. Lo riporterà da loro, da lui, dai Malice Mizer.
Basterà
semplicemente parlarne.
Un
po’ di volontà, ecco tutto.
Non
è così difficile in fondo, no?
Ma
il suo cuore si blocca, così come i suoi piedi stretti dalle altissime scarpe.
Cerca
di fare uno sforzo.
Manca
poco, poco.
Lui
supplica quelle sue gambe legnose di muoversi, in qualunque modo.
Toccano
il terreno, ma non lo superano, non si sollevano, non ridiscendono in quel
flebile atto d’un passo.
Restano
semplicemente immobili sull’asfalto caldo di quella strada.
I
suoi muscoli si contraggono.
S’accorge
di essere davanti alla vetrina del caffè.
Allora
alza i suoi occhi blu, e osserva il suo riflesso.
Scorgendovi
un’ombra.
Un’ombra
impercettibile di dolore inespresso.
E
vede lui contrapposto a se stesso.
Lo
sta guardando, attraverso quella barriera trasparente e sottile come un
respiro.
Mana
non perde la sua compostezza, oh mai!, e tuttavia non riesce a fare quell’unico
passo che gli basterebbe per raggiungerlo, per attraversare la porta e poter
finalmente toccarlo e parlargli.
Il
suo cuore accelera un poco, ma solo un poco.
Non
ci riesce, non ci riesce.
E
non capisce nemmeno bene il perché.
Così
vede crollare tutto, miseramente, improvvisamente. Comprende che tutto è
finito.
Vede
solo i begli occhi nocciola di quel ragazzo che si sovrappone al suo riflesso.
Gackt
Camui.
Respira,
sta respirando. Suo malgrado, è straordinariamente tranquillo. Forse non ha più
speranze ormai.
Non
parla, non si muove, non fa nulla, si limita a scrutarlo in silenzio.
È
sempre stato più bravo di lui ad esprimere i sentimenti, Gackt; anche in quel
momento nei suoi occhi può leggere un’immensa amarezza, mista alla rabbia, alla
disperazione, alla sorpresa di trovare lui, Mana, dietro quel vetro.
Chissà
se può vedere i suoi occhi in quel momento?
Sì,
sicuramente, perché la bambola non abbassa mai i suoi occhi di cristallo.
Sicuramente
vede quegli occhi pesantemente truccati, eppure pregni della dolce e amara
sfumatura dell’amore e della tristezza dell’uomo.
Mai
perderanno il loro orgoglio e la loro fierezza, quegli occhi. Neppure se
arrossati da invisibili lacrime che mai più scenderanno.
Occhi
che attendono, intensi e profondi come l’oceano silenzioso.
Contrapposti
a quelli di Gackt, altrettanto muti, altrettanto immobili, come terra
risucchiata dal mare.
Si
osservano, inesorabilmente attirati l’uno dall’altro ma impossibilitati a
raggiungersi da quel muro di freddo ed orgoglio che s’è creato fra loro.
Sarà
l’altro a fare la prima mossa.
Sì.
Lui
non ha fatto nulla di male, non ha motivo di scusarsi, per questo ora l’altro
parlerà.
Andrà
così.
Andrà
così…
Deve…
Deve… andare così…
Osservano
i propri occhi, i propri volti, come se volessero per sempre imprimerli nella propria
memoria. Come se non volessero mai dimenticare.
Sanno
che è già tutto finito.
Che
non è neppure mai cominciato.
La
bambola sta provando lo smarrimento silenzioso di una disperazione inespressa e
senza nome.
Ora
che lo vede là, sa finalmente cos’è quel sentimento che le opprime il petto.
Sa,
e solleva la mano destra coperta da un guanto di pizzo, squisitamente ricamato.
Vorrebbe
parlare, con tutto se stesso, ma non lo fa.
Sta
soffrendo.
E
appoggia con delicatezza la punta delle dita sul vetro, appannandolo, vedendo
il suo movimento imitato da Gackt, che lo fissa con una strana rabbia, e
dolcezza negli occhi.
Come
se volesse baciarlo, come se volesse ucciderlo. Come se quel suo sguardo
infuocato d’odio e d’amore volesse imprimere sul suo corpo l’indelebile marchio
della dannazione.
Solo
ora Mana si rende conto di avere quella stessa espressione viso.
Bambolina
innamorata e gelosa…
Solo
ora le sue labbra si aprono, sottilmente proferendo una muta richiesta.
“Promettimelo…”
Le
sue ciglia sottili si corrugano appena, una lucente, singola lacrima di
cristallo gli scorre lungo la guancia di porcellana.
Ma
lui non lo può più vedere, no.
Ora
Mana vede prepotentemente davanti a sé soltanto il riflesso della bambola, con
le dita ancora appoggiate alla trasparente superficie che li ha separati.
Vede
i segni delle dita di Gackt ancora su quel vetro.
E
sa di averlo amato.
Disperatamente
se ne rende conto.
Di
averlo odiato ed amato come la tenebra ama la luce.
Di
come il suo orgoglio non gli abbia mai permesso di ammetterlo.
E
prega soltanto che lui abbia compreso.
Non
dimenticheranno la promessa.
“Promettimi che quando ci rincontreremo
potremo sorridere ed amarci come se non ci fossimo mai separati. E che la
dannazione ci accompagnerà entrambi, legati nel nome proibito di questo amore.”
Perché
nel bene e nel male sarebbero stati uniti, con la musica, con la loro anima,
quel sentimento l’avrebbero cantato all’infinito.
“Ti amo…”
La
bambola si volta e s’allontana, prima di vedere sbiadire i segni delle loro
dita unite su quel vetro.
Tu, che amo troppo,
stai sorridendo dolcemente
oltre il muro
Affido a un sospiro
solo questo sentimento che non riesce a raggiungerti...
(Gackt – Mizérable)
FINE
N.d.A. Piccola fic
scritta davvero inaspettatamente. Non saprei bene come commentarla, ma in
realtà mi piace. Per l’occasione sono tornata ad uno stile ermetico verso cui
sono parecchio portata. Questa singola scena l’avevo in mente da un po’, e dopo
vari tentativi ho trovato l’occasione per scriverla. Spero che vi sia piaciuta.
Come avrete capito si svolge qualche ora dopo che Gackt ha lasciato i Malice Mizer, ed è il suo addio
definitivo a Mana… addio che definitivo non è, perché “non è dimenticato il
giuramento di quel giorno, distrutto nella fine che è agonia, ma rimane l’amore.”
(citazione da uno dei testi di Mana nei Moi Dix Mois). Difatti, leggendo
alcune traduzioni dei testi di Gackt e Mana, ho notato la presenza di temi
ricorrenti. Tra questi, appunto, una fantomatica promessa. Ecco cosa ne ho
tratto (ma ancora ci sto ricamando sopra, quindi aspettatevi un ritorno a
breve…). Spero che vi sia piaciuta!
Vitani