Fandom: Sherlock Holmes;
Pairing: Holmes/Watson;
Rating: Pg;
Beta: Narcissa63 (la mitica
♥)
Genere: Introspettivo,
Romantico.
Warning: Flash-fic, Fluff,
Slash implicito;
Words: 798 (fiumidiparole)
Summary:
Un Epilogo non è mai un vero epilogo. Holmes e Watson tornano insieme in Sussex.
Note: Post “L’ultimo
saluto – Un epilogo”. Scritta per la sesta
settimana della COW-T di fiumidiparole e maridichallenge,
Team Maghi – Missione 2: Campagna e per il prompt 01. Pipa della 221B
Baker Street Table di holmes_ita.
DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle
saga di Sherlock Holmes non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir
Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti,
stappiamo tutti insieme lo spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah,
ovviamente non mi paga nessuno, anche perché altrimenti il succitato autore si
rivolterebbe nella tomba, poverello.
Come Back Home
Un uomo percorre il
mondo intero in cerca di ciò che gli serve
e torna a casa per trovarlo.¹
Negli anni della mia lunga amicizia con Sherlock Holmes, più
e più volte promisi a me stesso, ma soprattutto a lui, di appendere al chiodo i
ferri del mestiere. La verità, però, è che uno scrittore – per quanto misero
come il sottoscritto – è semplicemente incapace di lasciare la penna; si tratta
di un’esigenza, come il dormire, il bere, o il mangiare. Per cui, anche dopo
che Holmes rientrò dal nuovo mondo e lasciò definitivamente l’attività
investigativa, io non smisi mai di annotare le nostre giornate.
Continuai a tenere un diario, come avevo sempre fatto in
passato, non per il pubblico, ma ad esclusivo beneficio di me stesso. Lo feci
per continuare a registrare mattine come quella successiva al ritorno di
entrambi nella nostra piccola casa in Sussex.
Oh sì, entrambi,
perché non tutte le notizie sono adatte alla pubblicazione e Londra, da sempre,
mormorava pettegolezzi troppo vicini alla realtà dei fatti per essere ignorati.
Lasciar credere ai miei lettori che mi fossi risposato e che il mio amico
vivesse per conto proprio, era una bugia accettabile e necessaria.
Quella particolare mattina mi piace ricordarla poiché, dopo due
anni di assenza, vedere di nuovo Holmes nella sua poltrona di vimini sul
portico, mi fece risentire a casa, quasi fossi io quello che era stato in
America per ordine di Sua Maestà e non lui. Un edificio non era casa senza la sua presenza.
Le sue lunghe gambe erano distese al sole, avvolte in una
coperta leggera, e tra le mani affusolate teneva un plico di fogli
scribacchiati – forse annotazioni sul suo viaggio o appunti per la prossima
monografia – che stava correggendo pigramente. La vecchia pipa d’argilla pendeva
dalle sue labbra sottili, mentre sul tavolino accanto a lui era posata la
ciabatta persiana che conteneva il tabacco. La sua figura sottile contro il
paesaggio della campagna inglese mi era mancata così tanto che, per un attimo,
ebbi timore fosse solo un miraggio.
«Non ancora api, oso sperare» esordii una volta al suo
fianco, riferendomi al contenuto degli appunti.
Holmes sorrise appena, con malcelato divertimento,
sfilandosi la pipa di bocca. «No, ho terminato con quelle» mi rassicurò. I suoi
sforzi di apicoltore, infatti, erano culminati in una grossa monografia che
raccoglieva tutti i segreti del mestiere.
«Grazie al cielo!» esclamai sollevato e lui ridacchiò più
apertamente, sfiorando il dorso della mano che avevo poggiato sulla sua spalla,
in una carezza di saluto.
«Non le è mai piaciuta quell’idea» constatò, prima di
aspirare un’altra boccata di fumo.
«Sono certo che abbia sconcertato me quanto il resto dei suoi
ammiratori, vecchio mio» replicai a mo’ di scusa.
Pur avendolo visto con i miei stessi occhi, non riuscivo a
credere che Holmes potesse accontentarsi d’essere un semplice apicoltore.
Dov’erano l’avventura, la dinamicità ed il pericolo che avevano sempre
contraddistinto la sua vita ed impedito alla sua mente di ristagnare? Ero
convinto che non facesse per lui, perciò non mi ero stupito quando aveva deciso
di accettare le insistenze del primo ministro ed era partito per il nuovo
mondo.
A dire il vero, perfino quella di trasferirci in campagna –
a suo tempo – l’avevo considerata una pessima idea. Il mio collega era sempre
stato troppo innamorato del brulichio e della nebbia della City per apprezzare
la quiete, ma al contempo sapevo che era davvero stanco della fama e del via
vai continuo presente nel nostro vecchio appartamento in Baker Street. Nessuno
dei due aveva più l’età adatta a tutto quello.
«Lo sconcerto generale era parte
del divertimento. Bisogna sempre essere
un po’ improbabili»² rispose con un familiare
luccichio negli occhi grigi.
Sapevo che presto avrebbe dovuto trovare un nuovo interesse,
qualcosa su cui concentrare quel grande cervello analitico in modo da sconfiggere
la noia che lo minacciava in continuazione, ma per ora stava semplicemente
godendo del mite clima primaverile.
In quel periodo di lontananza era cambiato, era stato una
spia, aveva interpretato un personaggio per anni, era diventato un massone,
aveva perfino preso un’orribile accento yankee, ed io
attendevo che iniziasse a parlare, perché volevo sapere tutto del tempo che
aveva vissuto lontano da me. Ma potevo attendere, al momento ero felice di
poter semplicemente regalare un po’ di sole alle mie ossa doloranti, in sua
compagnia.
«Un quarto d’ora, mio caro. Appena
avrò terminato di rileggere queste pagine, potremo fare una passeggiata e le
racconterò tutto ciò che mi è accaduto» mi rassicurò,
leggendomi nel pensiero – o piuttosto interpretando ogni minimo gesto che
nemmeno mi rendevo conto di compiere – come suo solito, senza nemmeno alzare lo
sguardo dai fogli.
Il tono della sua voce era annoiato, il suo volto assorto in
altri pensieri, ma il semplice fatto che non mi perdesse mai di vista e che mi
conoscesse tanto bene, mi permise di sorridere e chiudere gli occhi, mentre mi accomodavo
meglio sulla poltrona accanto alla sua.
FINE.
¹. Citazione di George Moore.
². Aforisma di Oscar Wilde.