Autore: LoLLy_DeAdGirL
Titolo: Merciless Stockholm’s Melody
Fandom scelto: Originale
Personaggi principali: /
Genere: Dark, Triste, Introspettivo
Rating: Arancione
Avvertimenti: Oneshot, Femslash, Non
per stomaci delicati
Introduzione: Rebecca non
sognava mai. Non aveva motivo per farlo. Non desiderava nulla in più di quello
che aveva, non aspirava a niente. Sognare era ben qualcosa da riservare per chi
bramava qualcosa… Oppure per chi aveva paura, e lei non ne aveva mai, né
davanti ai morenti, né davanti a quelli che ormai da anni tentavano di
braccarla in una penosa caccia contro una volpe troppo astuta.
Già, il terrore…
Quante volte lo aveva letto negli sguardi altrui, quasi poteva sentirne l’odore
a distanza tanto vi era abituata…
Note dell'autore: Mi sono molto affezionata a questa
storia dal primo momento in cui l’ho inventata… Sarà che a me gli psicopatici che
sono diventati così per ciò che hanno sofferto in passato come le due
protagoniste mi stanno molto simpatici! Ah, e consiglio di ascoltare davvero Venus in Arms dei Deathstars mentre ci
si appresta a leggerla, perché praticamente l’ho ascoltata a ripetizione mentre
scrivevo, ed è molto azzeccata! Buona lettura, spero che sia apprezzato lo
spirito insieme crudele e naif che
caratterizza le due protagoniste! (Disclaimer a fine storia)
Prompt scelti: litania, terrore,
bacio, rosa, gatto, corvo
Merciless Stockholm
‘s Melody
“Venus in arms… I'll strip you off in the flood
of the light… Venus in arms… You'll taste the dark yet so innocent white…”
Rebecca aprì gli occhi di soprassalto. Una luce pallida
eppure intensa inondò le sue pupille in modo quasi doloroso… Aveva schiuso le
palpebre troppo in fretta e ora lacrimava… Sì, sicuramente le piccole lacrime
che solcavano inesorabili le sue guance chiazzate di porpora erano dovute al
bagliore troppo forte del sole scandinavo...
Una voce familiare l’aveva svegliata, interrompendo il suo…
Il suo qualcosa.
Si chiamavano sogni?
Rebecca non se lo ricordava… No, non poteva essere quello, ma qualcosa di più
sinistro, impresso vividamente nella memoria. I sogni erano cose belle, almeno,
così si ricordava di aver sentito dire così da qualcuno…
Rebecca non sognava mai. Non aveva motivo per farlo. Non
desiderava nulla in più di quello che aveva, non aspirava a niente. Sognare era
ben qualcosa da riservare per chi bramava qualcosa… Oppure per chi aveva paura,
e lei non ne aveva mai, né davanti ai morenti, né davanti a quelli che ormai da
anni tentavano di braccarla in una penosa caccia contro una volpe troppo
astuta.
Già, il terrore… Quante volte lo aveva letto negli sguardi
altrui? Poteva sentirne l’odore a distanza, tanto vi era abituata.
Si mise a sedere nel letto dalle coperte completamente
sfatte, nemmeno fosse passata un’armata a devastarle, e si guardò attorno
sbattendo le palpebre collose. La sua vista ovattata da stille salate le permise comunque di
osservare l’ambiente attorno a sé. Niente fuori dal normale. I pallidi raggi
solari penetravano dalla finestra che dava su una piccola via poco trafficata
alla periferia di Stoccolma e la rassicurante voce di poco prima canticchiava
lo stesso motivetto in una litania fievole, stridente. Proveniva da una figura
che le dava le spalle, un’altra giovane con indosso solo una camicia bianca
leggermente sgualcita, intenta a piastrarsi i capelli corvini di fronte ad uno
specchio senza cornice comprato ad un mercatino delle pulci.
“Venus in arms… I'll strip you off in the flood
of the light… Venus in arms… You'll taste the dark yet so innocent white…”
“Alice? Alice, che ore sono?”
La mora si voltò vedendo la compagna seduta sul letto,
sveglia, un’aria esterrefatta sul volto spruzzato di lentiggini. Sorrise,
mostrando una dentatura lattea e perfetta tra le labbra sottili, prima di
tornare alla sua attività. Quei capelli neri e mossi non si lasciavano
convincere facilmente a diventare lisci.
“Le dieci e cinque di mattina, dormigliona…”
“Ho fatto un sogno, Alice…”
“No. Non hai sognato, Rebecca.” Tagliò corto “Noi non
possiamo sognare. Non dovresti essere tanto sconvolta. Il tuo bel viso ridotto
in questo stato di prima mattina mi fa male al cuore…”
Il suo tono di voce fu fermo, ma non iroso. Alice era un
tipo che si arrabbiava di rado. Perdere la calma non faceva parte del suo stile
sistematico, era troppo sciocco. Preferiva di gran lunga ridere, come la sua
compagna, del resto. Caratterialmente erano entrambe simili l’una all’altra,
plasmate alla stessa maniera, come cera in uno stampo di bronzo.
“Ti dico di sì… L’Essere mi è apparso in sogno.”
“Il Corvo di Novgorod?”
“Sì, l’Essere né uomo né donna. E’ così strano…”
Come colpita da una scossa elettrica, le pupille della mora
si ridussero fessure miotiche. Posò la piastra su un ripiano appena sotto lo
specchio, girandosi. Rebecca sapeva che quell’espressione addolcita sul volto
cesellato di Alice era riservata solo per lei.
“Non devi preoccuparti per il Corvo, zucchero… Lo sai che è
morto, siamo state noi ad ucciderlo… Non dimenticherò mai il momento in cui
abbiamo finito di sciogliere del tutto quella sua orribile faccia
abbrustolita…”
Rebecca non parve sollevata. Un’orda furiosa di pensieri
angoscianti si riversavano in continuazione nella sua mente da quando era
avvenuto quel brusco risveglio, eppure fino ad allora non era mai successo, né
a Londra, né quando con Alice scappava dal Corvo stesso nascondendosi nel
Northumberland, né a Bergen, né prima di quella notte a Stoccolma… Era davvero
bizzarro.
Non rispose alla compagna. Il pensiero dell’Essere, come lei
lo chiamava, era qualcosa di orribile… Aveva fatto di loro quello che erano
diventate, e forse avrebbe addirittura dovuto ringraziarlo invece di
riservargli lo stesso trattamento che lui aveva ordinato loro di compiere sulle
vittime che designava…
Era spietato, il Corvo di Novgorod, probabilmente non era
nemmeno un essere umano. Del resto, non era possibile perfino definirlo uomo o
donna, giovane, adulto o anziano. Quella sua faccia bruciata aveva perso ogni
connotazione umana, devastata dalle cicatrici rugose di un fuoco feroce che, da
quanto si sapeva, l’aveva reso così sin dall’infanzia. Semplicemente, i tratti
deturpati non facevano capire cosa
fosse, così come il suo fisico. Rebecca non aveva mai visto niente di simile a
lui. Quel corpo non aveva forme. Era esile, asciutto come uno scheletro, senza
seno, senza fianchi, con il pube piatto come quello di una ragazzina imberbe.
Quella carcassa vivente portava sempre una parrucca bionda, anzi, gialla, che odorava di plastica e tabacco
avariato. I suoi occhi enormi, dall’iride di un grigio plumbeo slavato, a volte
erano parsi quasi bianchi.
Deve aver fatto male
venire ustionati in quel modo si era spesso chiesta quando lo vedeva,
tuttavia già sapeva che la risposta alla sua domanda era un sì. Aveva dato
fuoco a molte vittime, talmente tante che se ne ricordava bene solamente due:
la prima era una ragazza di Londra a cui aveva distrutto il volto con una
fiamma ossidrica prima di ucciderla, la seconda era un pastore anglicano che
aveva osato ficcare troppo il suo lungo naso adunco nelle faccende sue e di
Alice, quando si erano appena trasferite nel Northumberland per far perdere le
loro tracce. Lo avevano arrostito per bene e si erano divertite un mondo! Di
lui non era rimasto altro che cenere… E quello non era stato un ordine, ma la
forza di un’abitudine che il Corvo stesso aveva inculcato nei loro cervelli con
la forza di una trivella. Uccidere non era una cosa poi tanto orribile, gli
uomini lo facevano spesso, alcuni meglio di altri… Loro dovevano solo essere le
migliori.
Vedendo la compagna affranta, Alice posò la piastra per
capelli, quasi del tutto soddisfatta della sua acconciatura. Si avvicinò al
letto e vi si sedette sopra, abbracciò le spalle di Rebecca con un’effusione di
tenero supporto. Le sue labbra le sfiorarono una guancia gelida in un casto bacio
che sapeva di cristalli invernali, per poi proseguire verso l’angolo della
bocca. Il profumo di quella ragazza dai capelli rossi e l’animo puerile la
attirava come un insetto verso la tela del ragno.
Non c’era Alice senza Rebecca, non c’era Rebecca senza
Alice, indivisibili frammenti di una sola unità costruita appositamente per massacrare
ogni pezzo di carne che sbarrava loro il cammino.
Le iridi puntate al grembo, Rebecca rispose distratta alle
tenerezze, lambendo la pelle della compagna, stringendole fievolmente le lunghe
dita fra le mani.
“Vuoi raccontarmi del tuo sogno? Starai meglio dopo… Credo
che le altre persone, la gente al di fuori di noi faccia così quando ha questi
pensieri… Perché non sono immagini a caso, quelle, l’ha detto Sigmund Freud!
Era un grande psicanalista, ho letto un suo libro!” chiese con entusiasmo,
accarezzandole il viso in un intima moina.
Rebecca annuì facendo finta di aver capito chi fosse questo
Freud. Non aveva mai avuto la passione per i libri che aveva la mora.
Una leggera pressione sul bordo del materasso attirò per un
attimo indefinibile l’attenzione di entrambe: Whisper, il silenzioso gatto nero
che si portavano dietro da quando l’avevano trovato a casa di una sventurata
vedova londinese, saltò sull’ammasso di coperte acciambellandosi, mentre
l’allegro tintinnio della campanella appesa al suo collare di raso rosso
accompagnava ogni suo movimento.
“Vedi? Anche Whisper è molto interessato, zucchero…”
“D’accordo, gattina…” accettò Rebecca con un sospiro
sconfitto “Ti dirò tutto.”
Con uno squittio di soddisfazione, Alice schioccò un
ennesimo bacio sulla sua guancia, dopodiché si sistemò a gambe incrociate
intenta in una posa di ascolto profondo, infantile.
Quelle due giovani dall’aria stravagante e immatura, forse
fin troppo naif per appartenere a due
persone di intelletto medio, non sembravano certo i tipi di persone che
avrebbero potuto incarnare le anime malate di sadismo delle più grandi serial
killer dell’età contemporanea ancora in libertà.
Novantasette vittime, nessun sopravvissuto dopo essere
caduto preda delle loro trappole, e la polizia brancolava ancora nel buio tra
persone ritenute solo scomparse nel nulla e omicidi senza collegamenti logici.
Certo, non sarebbero mai diventate delle così perfette
macchine di morte, se non ci fosse stato il Corvo di Novgorod a prendersi cura
di loro e ad insegnare che la violenza e la crudeltà erano gli unici talenti
che dovevano coltivare. Era nate, anzi, erano state create per quell’unico scopo, modellate tra ferite aperte e ossa
rotte a bastonate…
“Mi sono ritrovata in una stanza senza finestre né porte, di
forma quadrata.” Iniziò a raccontare Rebecca, stringendo un braccio intorno al
fianco morbido di Alice, i polpastrelli caldi a contatto con la pelle sotto la
camicia “I muri erano di pietra, tutti umidi, pieni di muffa. Si sentiva
l’acqua scrosciare attraverso le pareti. Mi sembrava una fogna, però non poteva
esserlo, le fogne non sono quadrate, e hanno sia un’entrata che un uscita.”
L’incubo era stato realistico ed era ancora ben vivido nella
sua mente come una fotografia appena scattata: poteva quasi ancora sentire
l’odore marcio di quelle pareti impregnate.
“Io portavo il mio vestito preferito, quello scozzese e in
mano tenevo un violino. Davanti a me c’era l’Essere né uomo né donna seduto su
un trono fatto di carne sanguinolenta e penzolante, che di tanto in tanto
ricadeva per terra e si riformava subito dopo. Mi guardava con quei suoi occhi
mostruosi e rideva. Te la ricordi la sua risata, gattina?”
“Come farei a dimenticarla? Aveva una voce che gelava il
sangue nelle vene. Sembrava un vecchio grammofono rotto, perché quando da
piccolo si era ridotto così anche le sue corde vocali si erano bruciate.”
“Ecco, lui continuava a sghignazzare in quel modo e mi
diceva che non eravamo libere, che ad ucciderlo gli abbiamo fatto un favore,
perché adesso vive dentro di noi e comanda ogni nostro gesto, per questo non
riusciamo a smettere di uccidere le persone. Io gli ho gridato che non era
vero, che noi lo facevamo solo perché lo trovavamo divertente, però avevo tanta
paura, Alice… Non credevo veramente a quel che dicevo, sentivo le lacrime agli
occhi…”
Alice ascoltava elettrizzata e inquieta. Il Corvo di
Novgorod era stata l’unica cosa che le aveva terrorizzate e che era riuscito a
far loro del male. Era sul dolore che si erano basati i suoi insegnamenti, le
aveva rese due schiave fedeli e ineccepibili, finché queste non si erano
ribellate, torturandolo, uccidendolo e facendo sparire quel che restava del
cadavere alla maniera di tutte le altre vittime.
“Mi ha intimato di suonare il violino che avevo in mano e
sai io cos’ho fatto? Ho eseguito l’ordine come una scema! E piangevo, piangevo
tanto, tuttavia non smettevo di muovere l’archetto. Da quello strumento non
usciva nessuna musica, strideva e basta. Mi facevano male le orecchie. Intanto
dai muri una voce di ragazza cantava
Venus in Arms, eppure non centrava niente con quel rumore che producevo io…
Mi sono svegliata di colpo e ho sentito che eri tu, nella realtà…”
“Accidenti! Sembra che sia stato davvero un sogno, sai?
Anzi, un incubo, che è un sogno molto brutto. E’ affascinante!”
Rebecca tirò su una bolla di muco che le si era formata nel
naso al ricordo di quelle immagini. Anche se era stato solo un frutto della sua
immaginazione, aveva pianto per la prima volta dopo che l’Essere era stato
ucciso. Anche se non era stato nella realtà, le sembrava una vicenda
estremamente grave, nonostante Alice ne sembrasse affascinata. Non riusciva a
comprenderla. Avrebbe preferito non sognare nulla, come al solito. Se si fosse
ripetuto un avvenimento del genere sarebbe stato un grosso problema.
“Non ci trovo niente di bello, Alice.” affermò affranta.
“Invece sì! Tu hai fatto una cosa che fino ad ora non
abbiamo mai potuto fare, ti rendi conto? E poi lo sai cosa diceva un filosofo
famoso di nome Friedrich Nietzsche? Che nella
creazione del sogno ogni uomo è perfettamente artista. Il tuo incubo è in
realtà un’opera d’arte!”
“Noi lo siamo già. Siamo Artiste della Morte.”
“E’ vero… Ma così siamo ancora più artiste di prima!”
Alice scoppiò in una sonora risata, buttandosi sul materasso
e iniziando a rotolare a destra e a sinistra, come impazzita, spaventando
Whisper che scattò giù dal letto con un miagolio furioso di disappunto, per poi
trotterellare a coda alta verso la porta della camera da letto.
La giovane si fermò solo dopo, ansante scossa da qualche
singhiozzo felice che aveva contagiato a quel punto anche Rebecca, la quale
sorrideva leggermente, più rilassata.
“C’è una spiegazione a tutto, Rebs.” Confermò la mora restando
sdraiata.
La sua mano si alzò
lenta per accarezzare una guancia rosata picchiettata da lentiggini. Le dita
sfiorarono un paio di labbra fresche e morbide come boccioli di rosa, una
ciocca di ondulati capelli color rubino, un lobo tenero interrotto in più
tratti dall’acciaio gelido di qualche piercing, per poi discendere lungo un
collo perlaceo fino alla giunzione tra le clavicole. Le sue pupille seguirono i
movimenti lenti di quell’arto in affascinata adorazione.
“Tu hai ancora paura del Corvo di Novgorod nonostante il
fatto che l’abbiamo ucciso con le nostre mani, ma proprio per questo non
dovresti averne! Tu credi di essere
vincolata a degli ordini, perché sei troppo addestrata a pensare alla vecchia
maniera, ma la verità è che possiamo fare quello che vogliamo adesso. Devi
ancora abituarti alla libertà, tutto qui… Vedrai che prima o poi la smetterai
di temere qualcuno che è già cadavere, o meglio, di cui non esiste più neanche
una singola molecola. E’ sparito, zucchero. Alice e Rebecca possono recuperare
tutto il tempo perduto a uccidere per qualcun altro. Nessuna di noi due suonerà
più il violino per l’Essere…”
Rebecca accennò un assenso con il capo.
“Diceva così quando ci insegnava a tagliare la gola… Usate
la lama come un archetto sul violino…”
“Vedi? Hai reso materiale l’idea di uccidere qualcuno per
lui… Non trovi i sogni affascinanti e
meno spaventosi, ora?”
“Assolutamente sì!”
La rossa si calò in avanti e posò un bacio sulla bocca
dell’altra per ringraziarla. Come avrebbe potuto andare avanti senza di lei?
Insieme erano invincibili, niente avrebbe potuto turbarle o fermarle. Se il
Corvo era stato il Diavolo in persona allora loro sarebbero divenute le sue
degne eredi, due Demoni incapaci di provare sentimenti di angoscia e
compassione.
“Che ora è adesso, Alice?”
“Sono quasi le undici e trenta… Dobbiamo metterci al
lavoro!”
Le ragazze si alzarono dal letto di scatto sistemandosi i
vestiti stropicciati addosso. Rebecca sistemò il piumone a righe blu e verdi
sul letto in modo da renderlo liscio e presentabile, Alice si stiracchiò le
braccia con uno sbadiglio.
“Vuoi mettere un po’ di musica?” chiese osservando un
piccolo stereo posato sul pavimento, circondato da varie scatole di cd piratati
“Io ho voglia di ascoltare ancora i Deathstars, anche se li abbiamo già messi
su ieri sera, e tu?”
“Sono d’accordo! Fai partire il cd, deve essere ancora
dentro, parte da dove abbiamo interrotto quando siamo andate a letto.”
Alice premette il tasto play,
e il cd riprese la canzone numero 9, Arclight.
Rebecca si guardò attorno sorridente, iniziando a piroettare sulle prime note,
per poi fare un salto e cimentarsi in un imitazione di un chitarrista. La mora
rise di gusto, applaudendo.
Dopo aver urlato all’unisono un poco intonato “I will never, never forgive” si
voltarono verso la stessa direzione: l’angolo a destra della porta della
camera. Un lamento prolungato aveva interrotto la loro canzone.
Alice ridacchiò con una mano davanti alla bocca.
“Si è svegliato, finalmente…” sussurrò all’altra, anche lei
presa in qualche sogghigno.
“Direi che è proprio il momento giusto!”
Un ragazzo di poco più di vent’anni le osservava con occhi
pieni di lacrime, polsi e caviglie legati ad una sedia su cui è seduto, nudo,
tremante, i lunghi capelli neri scompigliati ed incollati al viso, un bavaglio
ad impedirgli di urlare, sempre che ne avesse ancora la forza.
“Non ti piace il cd, Erik?” chiese Alice ironica “O ti sei
reso conto di che ora è?”
Il giovane puntò istintivamente gli occhi gonfi di lacrime
verso l’orologio alla parete.
“Avevamo detto un giorno. Ventiquattro ore e saresti morto…
E a che ora ti abbiamo preso ieri?”
“Io lo so!” trillò Rebecca “A mezzogiorno meno un quarto!”
“Esattamente… Vedi, Erik, sta per scadere il tempo…”
Il giovane gemette di nuovo, mentre Alice salì a cavalcioni
sulle sue gambe, studiando le sue linee morbide e umide di sudore, gustandole
con il suo sguardo nero.
“Tra poco dormirai… Dormirai per l’eternità, mentre noi
divoreremo tutti i tuoi sogni, uno per uno… Nemmeno tu potrai più sognare… Ti
renderemo simile a noi, piccolo Erik…”
Alice rise, lasciandosi andare contro di lui, le braccia
intorno alle sue spalle. Il suo pareva quasi un abbraccio confortante verso
quelle lacrime che solcavano lentamente le gote di quel ragazzo così
sfortunato…
Rebecca stacco dalla presa di corrente la spina della
piastra per capelli, per inserirne un’altra. Il rumore meccanico di un trapano
acceso squarciò la melodia di Arclight sulle
fredde note finali, insieme ad un lungo lamento di disperazione che avrebbe fatto
gelare il sangue a chiunque, ma che per Alice e Rebecca suonò come una dolce e
malinconica melodia.
†
Disclaimer:
Le canzoni Venus in Arms, Arclight , il cd musicale Night Electric Night non mi appartengono, ma sono di proprietà dei
Deathstars. Nemmeno loro mi appartengono
(posso dire purtroppo?XD)
Un ringraziamento particolare a Fabi,
per il suo contest “Era un sogno”. Sono soddisfatta di aver partecipato, anche
se la posizione non è stata delle migliori… Pazienza!^^