Titolo:
We
lovers never say goodbye
Fandom:
The Runaways
Personaggi/Pairing(s):
Joan Jett/Cherie Currie, apparizioni ad
minchiam
di Sandy West, Lita Ford, Robin Robins, Kim Fowley e Marie
Currie.
Genere:
Introspettivo, Angst, Romantico
Avvertimenti:
oneshot, femslash, linguaggio colorito, lime, tematiche delicate
(tossicodipendenza), movieverse
Conteggio
parole: 4900
(fdp)
Credits:
titolo
rubato a “Lovers” (by Runaways, duh). In giro sono
sparse
briciole di “Love is pain” (Joan Jett & The
Blackhearts)
nonché di “I love playin' with fire”
(delle Runaways, scritta
sempre dalla cara Joan).
*Regine
del rumore:
citazione del secondo album delle Runaways “Queens of
noise”,
appunto. Sì, lo so, in inglese suona molto più
fico.
Challenge/Prompt:
scritta per scritta per il team
fucking!Angels
del COW-T
@maridichallenge,
missione#1 della VI settimana (prompt nostalgia)
Note
iniziali:
Dopo essermi documentata per giorni interi su santa Wikipedia, ho
deciso che alla fine me ne sarei sbattuta della cronologia storica
degli eventi e che avrei seguito a grandi linee solo il film (che
abbrevia, omette o cambia d'ordine molte cose). In fondo alla pagina,
tutte le differenze.
Piccola avvertenza: flashback e presente sono
incastrati in ordine volutamente casuale. Se avete visto il film
capirete, ma comunque, perdonate la mia randomness imperante. Sono
pessima, lo so.
We
lovers never say
goodbye
Ci
sono giorni in cui si sveglia convinta di essere nel letto di una
camera d'albergo sperduta in culo al mondo – in Giappone,
magari – e devono passare almeno dieci secondi buoni prima di
rendersi conto che non è così.
L'aria è stantia, perennemente
impregnata di fumo, le tende alle finestre fanno filtrare la luce
della tarda mattinata, ed il suo corpo è avvolto in un
fottuto
casino di coperte e vestiti ammucchiati l'uno sull'altro.
Cherie
strizza gli occhi e bestemmia a mezza voce.
Ha la gola secca, le
labbra aride, un'emicrania micidiale.
Cerca in automatico le
sigarette sul comodino, sollevandosi sui gomiti ossuti.
Non c'è
mai Joan a passarle l'accendino, e forse è questo
– quel gesto
automatico che aveva imparato a considerare un'abitudine – a
farle
capire di aver sognato di avere ancora quindici anni, di essere nel
pieno di un tour con le Runaways.
Rock 'n' roll.
Regine
del rumore.
Joan sollevava Cherie sulle
spalle e iniziava a
correre, a testa bassa, fischiando forte come un treno. Sandy teneva
dietro, ridendo e smozzicando insulti scherzosi, la sigaretta
all'angolo della bocca.
E chi ci ferma?
La cenere
cade sulle lenzuola, mentre Cherie fissa il vuoto davanti a
sé.
Vorrebbe riavvolgere il tempo, recuperare parte di quello che
ha stretto tra le dita, trionfante, convinta che non le sarebbe mai
sfuggito.
Le manca così tanto.
Chiamerà.
Non oggi.
Oggi
sta male e ha un disperato bisogno di farsi – salterà
il lavoro, già
lo sa.
Magari domani.
Prima proverà con Sandy.
Giusto per
stare sul sicuro – Sandy è la Svizzera, lo
è sempre stata.
Robin
la esclude
– l'ultima volta
che l'ha vista, per caso, in città, ha fatto finta di non
conoscerla.
E Lita, Lita col cazzo che ha intenzione di
sentirla. Quella puttana può darsi fuoco, per quanto le
riguarda.
Cherie strofina il pollice sul cilindro di tabacco, e
pensa all'unica di cui davvero vorrebbe sentire la voce – non
semplicemente su un vinile o in un passaggio radio, per una
volta.
Joan.
Lei no, non ancora.
È una ferita fresca, e
d'altra parte, Cherie teme che lei possa mandarla a fanculo se solo
prova a contattarla.
Le ha voltato le spalle in più di una
maniera, e questo è qualcosa a cui Joan difficilmente
passerà
sopra. E poi, Cherie cosa potrebbe mai dirle per giustificarsi? Per
farsi ascoltare?
Mi manchi. Mi manchi
fottutamente, Joan.
Non
lo sa.
Una cosa per volta.
Magari domani, sì.
Il
bello di ogni inizio è che, appunto, è un inizio.
È
novità, è ignoto ed eccitazione: quando non sai
cosa ti aspetta,
vivi alla giornata, e tutto ha il sapore buono, dolciastro e
irripetibile della prima volta.
Chi si aspettava di
riuscire a farcela per davvero, alla fine?
Un giorno sei
chiusa in camera a imitare il Bowie con la musica a palla sul
grammofono, quello dopo in una roulotte lurida che cade a pezzi a
cantare oscenità spronata da quel cane pazzo di Kim Fowley,
e quello
dopo ancora sei davanti a un vero pubblico – a schivare
lattine,
bottiglie e altri oggetti contundenti, okay – ma a fare rock
'n'
roll.
L'inizio è
così, e piano piano Cherie sente il
rumore dell'ingranaggio che parte, scricchiolando, cedendo sotto le
note sghembe e incazzate di un gruppo di quindicenni, ragazze,
con tette, utero e tutto il resto.
Un sogno da cui non vuoi
svegliarti mai, che cresce e cresce ad ogni canzone, a ogni
spettacolo.
Finalmente, quello che hai
sempre voluto.
I
palchi sempre più grandi, il rumore della folla che aumenta,
i fan
che ti amano – ora ti lanciano fiori e baci - e cercano di
imitare
ogni tuo stupido dettaglio.
C'è stato qualcuno,
prima di
voi, a riuscirci?
No, nessuno.
E si continua il
viaggio, destinazione sconosciuta, ma le stelle sono vicine e troppo
brillanti per pensare di avere paura del buio o dell'altezza.
Cherie
guarda tutto da lassù, sentendosi un po' Ziggy Stardust,
stupendosi
di quanto sembrino lontane e piccole le preoccupazioni dei comuni
mortali.
Il senso di colpa per aver
lasciato Marie a casa,
a prendersi cura di papà, è minuscolo,
così facile da soffocare
con le bugie e le giustificazioni.
Non che Cherie abbia mai
troppo tempo per pensarci, a questo, o al fatto che, almeno un po',
le manca anche, la vita di prima.
Quelle quattro figlie di
buona donna di Sandy, Lita, Robin e Joan, non la lasciano mai sola e
le rubano ogni momento o energia residua, così che Cherie
non
rimpiange nulla.
Non sente nostalgia di casa -
non come
aveva immaginato o sperato.
Lì è a
casa, lì ha una
famiglia.
Sua madre e neanche Marie
– per quanto ci abbia
provato - hanno mai capito quanto per lei sia importante tutto
questo.
Vivere la musica, berla e
mangiarla fino all'osso,
dimenticare il passato.
Cosa c'è di
più bello e
perfetto?
E quelle ragazze, che solo
pochi mesi prima erano
delle sconosciute, la pensano uguale.
Sono diventate come
sorelle, per Cherie.
Condividere lo stesso sogno,
bruciare
di entusiasmo, urlare alla notte che conquisteremo
il mondo, cazzo, lo faremo e voi stronzi che non avete creduto in noi
dovrete baciarci il culo!
Fingere di poter vivere senza
regole, sentire davvero le luci e i colori scoppiare dentro i riff di
chitarra, e ridere, e ballare, e cantare, e fumare, e bere, e la
cassa della batteria che ti martella nelle orecchie e nelle vene, e
partire ogni notte su quel baraccone delirante, a vendere al pubblico
un circo mai visto prima - signore e signori! - senza
possibilità di
ritorno, perchè dalle stelle non si scende più,
anche quando senti
le vertigini stringerti lo stomaco e le caviglie.
Siamo
qui.
Insieme.
L'inizio che sembra non avere
fine,
la perfezione, il profumo del successo, la vita.
Nemmeno
gli sbagli, gli anni squallidi e il nulla che seguirà
potranno mai a
rubarne l'oro.
*
Joan
è stesa sul materasso.
Occhi al soffitto e braccia aperte come le
ali di un angelo magro, sporco e consumato.
La chitarra
deve essere da qualche parte, lì vicino, magari sul
pavimento, tra
l'immondizia di cartocci di cibo take away, una bottiglia di birra
vuota e le scarpe da ginnastica consunte.
Basterebbe poco,
allungarsi a tentoni e prenderla.
Suonare due accordi, come ai
vecchi tempi, magari buttare giù qualcosa.
Un riff a caso,
quello che vuoi tu, Joanie! Forza, muovi il tuo culo fighetto! la
incita una voce mentale disgustosamente simile a quella di Kim
Fowley.
Non è che l'ispirazione sia evaporata.
Anzi,
sorprendentemente, è il contrario.
Anche se dopo il periodo di
merda conseguente l'abbandono di Cherie, sembrava che tutto fosse
destinato a crollare.
Nonostante la decisione di Joan di
sostituire la cantante e proseguire, le Runaways non avevano retto
che un altro anno scarso. Lita e Sandy, il cui sound era più
improntato ormai all'heavy metal, avevano preso la loro strada,
mentre quel bastardo di Kim aveva piantato capra e cavoli
già in
precedenza.
La sua band di gallinelle dalle uova d'oro aveva
smesso di fruttargli.
Non gli servivano più.
Fanculo.
È
stata dura, ripartire, ma ora Joan ha ripreso a comporre.
La
creatività piscia fuori dalla sua chitarra ogni sera.
Eppure non
è la stessa cosa, senza...
“Io scrivevo la
musica, lei la
cantava”
È che a volte, Cherie le manca più di quanto sia
disposta ad ammettere o anche solo considerare.
Nel rendersene
conto, Joan si sente un'idiota, una mammoletta colpevole,
perché poi
inizia a pensare.
Ciò
che ha
costruito, quello che ha intorno, quello che resta,
non sembra avere senso, non è appagante a sufficienza, se
non c'è
Cherie a condividerlo.
E poi è da paranoici fottuti
continuare a incidersi parole e note nel cervello e su carta,
suonarle e urlarle, quando sai che l'unica voce che dovrebbe cantarle
non è la tua, ma quella su cui le hai modellate.
È stupido e
patetico, e come la maggior parte delle cose stupide e patetiche
riesce anche a farti un male fisico del cazzo, alla fine.
Joan è
stanca.
Forse davvero dovrebbe prendersi una pausa, staccare la
spina e isolarsi un po' dal caos.
O anche mandare tutto a puttane
e mettere su baracca da solista, come le ha consigliato Tammy.
Ma
Joan non è David Bowie, di Bowie ce n'è uno solo,
e lei non vuole
arrendersi e lasciar perdere il sogno di una vita, avere una sua
band,
anche a costo di dover unirne
i pezzi tagliandosi le mani.
Senza preavviso, le lampeggia
davanti l'immagine di Cherie, come un fotogramma sbiadito.
La
pelle chiara, la faccia da bambina e gli occhi troppo azzurri.
Si
chiede dove sia, adesso.
Cosa stia facendo.
Se stia bene.
Ma,
più di tutto, Joan si chiede se abbia trovato ciò
che stava
cercando.
La vita di prima, quella che lei e le altre ragazze non
potevano rimpiangere, perchè venivano dalla strada, loro, e
il
massimo a cui potevano ambire era rimanerne fuori.
Non si tornava
indietro.
Chi di loro lo avrebbe fatto di propria
volontà?
Piuttosto avrebbero dovuto smuoverle a calci in
culo.
Non avevano nulla da pardere, solo da guadagnare.
Invece
Cherie era diversa.
Aveva lasciato parecchio in sospeso, lungo la
via, problemi e affetti che non poteva nascondere.
Eppure, forse
per l'imbarazzo di non essere come le altre, forse perchè
avrebbe
voluto disfarsene e rendere tutto più semplice, fingeva che
non
esistessero, quelle cose.
Non davvero.
Questo, almeno, fino a
quando tutto non era riemerso, rompendo le dighe e facendola
affondare in se stessa, nell'acqua nera del rimorso.
Joan aveva
assistito a quel processo lento, stando attenta a starsene con la
bocca chiusa. Primo perchè non voleva irritare Cherie
facendole
notare l'ovvio – o più precisamente,
ciò che non voleva ammettere
- , secondo perchè non poteva fare nulla, se non starle
vicina e
facendo più casino, suonando più forte.
Per non farle sentire il
silenzio e il vuoto.
Quando
qualcuno ti somiglia e ti piace, te lo senti nelle ossa, nella
pelle.
Dapprima è una
sensazione vaga, un brivido
indefinito. E tu pensi semplicemente che è troppo bello per
essere
vero. Ma poi i giorni passano, il brivido resta, e anzi, si
solidifica. Diventa una scintilla reale che brilla sempre nei tuoi
occhi e in quelli della persona che ti è affine.
Con
Cherie succede questo, e Joan se ne accorge per la prima volta la
sera in cui, assieme a Sandy, si stanno scolando l'infame
“lavandino
sporco”.
Oh, naturalmente l'aveva notato
subito, che
Cherie era speciale, con quella voce assurda, il look da Brigitte
Bardot shakerato con un po' di Bowie, e la faccia di bronzo nel
raccontare certe cazzate – tuo
padre non è un alcolizzato, eh?
Ma non è solo
questo.
Ci hanno visto giusto, Joan e
Kim, fin da subito:
lei è la selvaggia.
Anche quando non canta, Cherie
è
magnetica, perfino in silenzio.
Sembra la più calma,
in
quella manica di cagne a briglia sciolta che sono le Runaways, ma
Joan ha imparato che si tratta solo di apparenza.
Cherie ha
un segreto, un'ombra nascosta che la mangia viva da dentro e ogni
giorno, e quando Kim la sprona, quando il microfono e la folla la
chiamano, lei la tira fuori.
Cherry Bomb esplode, il suo
ruggito graffia al ritmo della musica, all'agitarsi dei capelli e
delle mani.
In quei momenti, Joan sente la
loro connessione
più viva che mai.
La alimenta, la ruba e gliela
passa
indietro cresciuta in volume e forza.
E trascorrerebbe ore
facendo solo di quello, suonando fino a consumarsi le dita e la
voce.
Anche se poi, per certi
aspetti, loro due sono tanto
diverse che più non si potrebbe.
Joan si è fatta
l'idea
che Cherie sia una di quelle troppo generose, con troppi buoni
sentimenti e tutto il resto, quelle che non si sanno mettere il cuore
in pace, quando c'è di mezzo il passato.
E poi è l'unica
che trova ancora un momento libero da spendere al telefono, l'unica
che ha un pensiero per la famiglia, e che, quando può,
quando i tour
lo permettono, torna a casa.
Eppure, non sembra felice, nel
farlo. Non come dovrebbe.
È una costrizione,
una catena
recisa a metà.
Cherie sa quale è il
suo posto, ma si
ostina a tenersi in bilico tra due vite.
Una deve per forza
lasciarla andare.
Chiunque lo capirebbe.
Una
sera, Joan glielo chiede e basta.
“Perchè lo
fai?”
Cherie rimane in silenzio per
qualche secondo.
A
volte è così indecifrabile e inespressiva da far
paura.
O
forse hanno entrambe bevuto così tanto che Joan scambia
l'opaco e il
vuoto dei suoi occhi per qualcosa non dovuto ad una semplice e
familiare sbronza.
“Mi fa sentire
normale, sai? In
qualche modo” dice Cherie piano, con una calma incolore.
“Mi
faccio perdonare per quello che non ho fatto e non farò
mai”
Joan
annuisce meccanicamente.
Le pare giusto, ma non
comprende
quella scelta.
Lei non la farebbe mai,
importante o non
importante.
E comunque, nessuno della sua
famiglia si
meriterebbe tanto.
Questo non lo dice ad alta
voce, però,
e non sapendo cosa aggiungere, nel dubbio, si accolla alla bottiglia
e manda giù.
*
Non
è neanche mezzogiorno e Cherie è già
ubriaca persa.
Certo,
meglio l'alcol che la cocaina, sia ben chiaro, ma non è
comunque
qualcosa di cui andare molto fieri.
Le mani tremano, ha una
tachicardia assurda e i sudori freddi – l' astinenza
è una puttana
maledetta.
Cherie cerca di distrarsi, anche se è difficile senza
Marie – che è al lavoro e non può
aiutarla, quella mattina - ,
così lei non fa altro che girare come uno zombie su e
giù per la
casa.
Svuota cassetti, rimesta tra i vestiti negli armadi, sotto
la biancheria. Apre la credenza e le scatole di biscotti, in cerca di
non si sa bene cosa.
Cazzata.
In realtà lo sa
perfettamente.
Non che le serva, però, eh.
Cazzata pure
questa.
È che spararsi balle da soli diventa fisiologico come
respirare, quando sei tossicodipendente.
Alla fine, Cherie prende
il telefono e compone un numero che sa a memoria.
Non è per nulla
la chiamata che sta pensando di fare da intere settimane, anzi,
quella l'ha già dimenticata.
La roba le arriverà entro
mezz'ora.
Si sente già meglio all'idea, anche se niente la
rilasserà come la prima botta della giornata.
La prima botta.
Non
diventi una tossica solo per una sniffata, tranquilla!
Chi
gliel'aveva passata, la cocaina?
Cherie non lo ricordava,
ma era roba pesante e in giro si sentivano brutte storie. Arrivare
alla siringa era un passo breve, e ci si finiva freddi, con quella
merda in vena.
Si era decisa a provarla solo
dopo aver
visto Joan, farlo.
Se lei lo faceva, non c'era
pericolo,
no?
Fanculo, stavano tutte bene.
Anzi, più che bene.
Lita
era meno incazzosa del solito, quasi gentile e amabile. Robin era
cappottata su un divano con Sandy sulle ginocchia, e pure loro
sembravano in pace con l'universo.
“Cherie,
allora?”
Joan
si era pulita il naso con il dorso della mano e le aveva passato la
stagnola con dentro la droga.
Una botta sola.
Che
male può fare?
Da crepare dal ridere, a pensarci adesso.
A
distanza di anni, l'unica che non era certa di volerci provare,
è
ridotta così.
Alle altre non è successo di finire risucchiate
nel vortice della dipendenza più disperata, di rovinarsi
giorno per
giorno, sempre di più, di averne bisogno al punto di non
poterne
uscire.
E Joan?
L'emblema splendente dell'autodistruzione,
l'ideale incarnato di anarchia, sesso droga e rock 'n' roll.
Ma
no, no.
Lei, nonostante tutto, aveva sempre tra le mani le redini
della propria vita.
Non si faceva mettere i piedi in testa da
nessuno, nemmeno dai vizi.
Solo dalla musica, al massimo.
Non
era mai troppo sbronza o devastata da non riuscire a fare i due o tre
bicordi che componevano la maggior parte delle canzoni, e una volta,
pure dopo aver vomitato sul palco, aveva continuato a suonare
imperterrita.
Era la leader vera e propria, quella che mandava
avanti la carretta in assenza di Kim o di quell'incompetente di
Scottie – ed aveva la stima dell'intera band, per questo.
Si
incazzava se non rimanevano fedeli a loro stesse, alla musica,
perchè
per Joan quello era il fulcro, l'inizio e la fine.
Cherie poteva
essere la prima donna, la frontwoman, l'icona stampata su poster e
sulle prime pagine delle riviste, ma Joan era la colonna portante,
l'anima e il fuoco delle Runaways.
“I love playin' with fire”
gracchia Cherie, chinandosi sulla polvere bianca.
Ride senza
motivo.
A giocare col fuoco ci si brucia, ma che fiamme
meravigliose erano quelle di Joan Jett.
In
quegli anni, sperimentare baci umidi o anche fare altro con qualcuno
del tuo stesso sesso è la normalità per un
qualsiasi
adolescente.
Una moda quasi come disegnarsi
saette rosse
sulla faccia o indossare le scarpe con la zeppa.
Cherie non
l'ha mai fatto, ma le interessa provare, perciò non si
ritrae quando
finalmente capita l'occasione.
Il fumo della sigaretta di
Joan le bacia la bocca prima delle sue labbra, e Cherie si solleva
per andarle incontro.
È un contatto come
tanti altri,
nulla di nuovo, solo che è di Joan, e in automatico prende
un aroma
intimo e speciale, strano, tinto di lucido come un trip – o
forse è
solo l'effetto di quelle pillole che le ha passato Scottie.
Però
le piace.
Cioè, Joan le piace,
semplicemente.
Non
nel modo chiaro e diretto in cui le piacciono i ragazzi –
sebbene
il suo look trasandato da maschiaccio, i capelli corti e i modi
grezzi possano suggerirlo.
È un'attrazione
diversa, più
sottile e sussurrata, una linea di confine difficile da distinguere,
in quel curioso impasto di amicizia, cameratismo e empatia musicale
che le unisce.
Cherie non saprebbe dire bene
cosa sia, ma
comunque, è affascinante come ogni altra cosa che riguardi
Joan.
Corrono nel corridoio di
chissà quale albergo,
tenendosi per mano, inciampando e franandosi ripetutamente addosso,
perchè Cherie ha i pattini ai piedi e si schianta
dappertutto.
Alla
terza volta in cui succede, la bionda piomba col culo per terra,
emettendo un suono a metà tra un “ahi” e
un risolino
soffocato.
Non riesce a rialzarsi per le
risate convulse e
la testa che le gira, così Joan è costretta a
tirarla su di peso, o
faranno mattina lì.
La solleva tra le braccia
apparentemente senza sforzo, e una volta raggiunta la loro stanza, la
butta sopra al letto di mala grazia.
Il buio va e viene, ma
è pieno di ferite colorate e dell'odore della loro pelle
sudata, di
fumo, di alcol, mani che si accarezzano e il naso di Joan che
strofina contro il collo di Cherie in una maniera buffa che le fa il
solletico.
Cherie alza le braccia
all'altezza del viso, una
sorta di resa, e subito dopo Joan le blocca i polsi così
– come se
ce ne fosse sul serio bisogno per tenerla ferma.
“I
love playin' with fire”
canticchia, e i suoi occhi sono
fieri, caldi e scurissimi, ora, come Cherie glieli ha visti mai.
Strofina il bacino contro quello della cantante, ma lei non asseconda
i suoi movimenti – è una diva, le piace pensare di
poter farsi
attendere e desiderare.
Ma Joan, irruente, impaziente,
non
ci mettere troppo tempo a ottenere ciò che vuole.
Nemmeno
si prende la briga di spogliarla del tutto – come se poi
avesse
voglia di trovare la lampo di quel vestito assurdo che Cherie
indossa.
Le toglie il necessario, e le
divarica le gambe
con un colpetto del ginocchio, sovrastandola come farebbe un uomo,
con un certo istinto ruvido di voglia.
Però nelle sue mani
che scivolano sotto le mutandine di Cherie, sfiorandola piano,
c'è
molto di tenero, quasi femminile e dolce e timido – e la
cosa,
riferita a Joan, è piuttosto divertente.
“Che cazzo
c'hai da ridere?”
Il tono non è offeso
o di rimprovero,
al contrario.
È solo divertita,
anche lei, e curiosa.
Ha
il suo ghigno storto al proprio posto, mentre luci e ombre giocano
sul suo viso, rendendola più bella di quanto non sia
veramente.
“Non...non lo
so” ammette Cherie, le sillabe
che sfumano in un ansito debole assieme al sorriso, ed è
sincera,
perchè, davvero, prima le pareva di avere un filo logico da
seguire,
ma adesso ciao.
Joan la bacia di nuovo, a
labbra aperte e
con la lingua questa volta, mentre Cherie si lascia andare a un
piccolo gemito, imponendosi di non serrare le palpebre, di restare
lucida e controllata un altro po', almeno.
Ma col fuoco di
Joan sulla pelle e ovunque, intorno, è un casino.
Un
casino di quelli imperdibili, però.
*
Una
delle cose migliori della musica è che è donna,
ma non ti
tradisce.
È una stronza, ma ti salva.
È veleno, ma pieno
d'ossigeno come sangue.
Joan ci gioca, ci scopa, ci parla.
Ne
ruba i sussurri e li fa vibrare sulle corde di una chitarra, li
ringhia fuori – a mezza voce prima, con tutta se stessa dopo,
quando hanno forma netta e vita propria.
“Love is
pain”
La
penna scorre veloce, buttando giù le parole che a Joan
girano in
testa da un po' – che si è sognata, per la
precisione. E le paiono
buone, molto.
È una delle migliori che abbia mai scritto, forse
perchè molto sincera e la sente propria.
Riporta indietro
memorie, momenti di fragilità e nostalgia.
Addii mai scambiati a
voce alta.
Quel testo poi, è orribilmente palese.
Quando lo
registrerà sul disco del suo ritorno al top delle
classifiche –
perchè Joan ne è sicura, sarà un
grande album (e non è
presunzione, è certezza pura e semplice) –
chiunque conosca i
retroscena delle Runaways potrà facilmente leggere tra le
righe.
C'è
molto riguardo a Kim, molto dell'influenza musicale delle ragazze,
molto per Cherie.
E molto per se stessa, inevitabilmente.
“Fanculo
a me...” sbotta Joan.
Di nuovo.
Quando
inizia la fine di qualcosa, è possibile accorgersene?
Joan
l'ha visto succedere tante di quelle volte, eppure quando le arrivano
i primi segnali, non li riconosce.
Le Runaways sono al top,
sulla cresta dell'onda, inarrestabili a ogni show.
Ma i
lustrini dei vestiti e i colori del trucco, il sipario, le stronzate
e i sotterfugi di Kim nascondono la verità.
La verità
è
che stanno perdendosi.
Ognuna di loro.
Robin che
si fa i cazzi propri di continuo, più del solito, sparendo
con un
ragazzo diverso ogni sera. Lita in sindrome premestruale perenne
perchè ha qualcosa di fottutamente irrisolto con Cherie, e
comunque
la nuova musica che Joan le ha proposto le fa cagare – per
citarla
alla lettera. Sandy è Sandy, e come tale va d'accordo col
mondo, ha
e una parola gentile in qualunque occasione, ma negli ultimi tempi
non è così accomodante, in studio di
registrazione – e la cosa
puzza parecchio.
È chiaro che la
pensa esattamente come
Lita, sulla musica, ma rimane in silenzio perchè vuole bene
a Joan e
la rispetta.
Infine c'è Joan
stessa, nell'occhio del
ciclone, nel bel mezzo del casino.
Lei, come al solito,
deve tenere insieme le cuciture affinchè tutto non si sgarri
totalmente.
Stremata dai ritmi soffocanti e
della routine
di tour e registrazioni, sta iniziando a prendersi a male anche molti
atteggiamenti di Cherie.
No, non è per il
fatto che ci sia
sempre lei sotto i riflettori, come le rimbecca invece Lita a ogni
occasione, ma è vedere il cambiamento che fa:
incomprensibile,
inutile, squallido.
Pose da vamp, quella merda di
servizi
fotografici, le mise da spogliarellista e cos'altro?
Si
isola più del solito con quell'idiota di Scottie, si sballa
ad ogni
secondo libero e trascura la famiglia come non ha mai fatto
prima.
Ignora i tentativi della
sorella di riallacciare i
rapporti, le telefonate si fanno brevi, rare, e infine
scompaiono.
Joan la guarda comprare regali
costosi, che
manda a casa per compleanni e feste, perchè di persona non
può
andarci – questa è la scusa ufficiale.
La realtà
è che
Cherie non vuole.
Se c'è una cosa che
a Joan dà al cazzo
poi, è che Cherie non le parli, non la cerchi.
Non più
come in passato.
E sembra che tutto le scivoli
addosso,
inconsistente: la musica, l'eccesso, l'overdose e anche Joan stessa,
che sul letto di ospedale le si stende al fianco senza avere una vera
e propria motivazione, e nemmeno la forza per provare ad
abbracciarla.
*
Quando
Marie rientra, in tarda serata, trova la sorella distesa
scompostamente sul divano, ma non dice nulla – come al
solito.
Cherie è sicura che abbia per lo meno il sospetto di cosa
stia succedendo, ma non ne parla.
O forse mente a se stessa, anche
lei, fa finta di non vedere.
Tipico, in fondo sono gemelle.
O
magari è un gene che gira in famiglia – la loro
madre non era da
meno.
“Perchè
non sei andata
al lavoro, Cherie?”
La risposta della ragazza è chiusa
in un mugugno.
“Non
stavo
bene”
Marie sospira.
Per un attimo sembra che voglia
chiederle qualcosa, ma poi rinuncia.
“Ti
metto a letto” dice con dolcezza.
La accompagna in
camera, la accudisce come fosse una bambina, e lei non si ritrae. Ha
bisogno di essere coccolata.
Quando alla fine la sorella la lascia
sola, Cherie la sente chiudersi la porta alle spalle e singhiozzare
piano, allontanandosi.
Il senso di colpa è appena più forte
della voglia di svanire nel nulla, sprofondare sotto le
coperte.
Eppure non riesce a sfogarsi col pianto, lei.
Gli
occhi spalancati rimangono fissi al muro, sulle decine di poster che
ritraggono cantanti e dive del cinema.
Sono mai appartenuta
veramente a quel mondo? Si
chiede Cherie.
Forse non era forte, o adatta
abbastanza.
Anche se per un po' era stato bello sperarci,
crederci, sognare.
L'inizio
è bruciato, lontano, irraggiungibile - Cherie l'ha sentito
sfuggirle
dalle mani, come sabbia tra le dita.
Probabilmente avrebbe
potuto evitarlo, o per lo meno fare più attenzione.
Ma ha
solamente sedici anni – sedici fottuti dolci anni, Cherry
Bomb - e
questa è una cosa che dimentica troppo spesso.
Non puoi
fermarti a guardare indietro, né rimpiangere gli errori:
quell'ambiente è una jungla dove sopravvivono solo i
più forti.
La
pressione è tanta, così insopportabile, adesso.
La
responsabilità, i doveri, la catena che Kim stringe ogni
giorno al
suo collo - Cherie se li sente addosso come un'orribile seconda
pelle.
Per un po' prova a coprirli
stordendosi il cervello,
cercando la forza fuori da sé: non pensare, rimanere sempre
nel
limbo tra vaga lucidità apatica e euforia folle, mentire,
mentire
sempre.
E sembra funzionare, almeno
fino a quando gli
effetti collaterali di quel modo di vivere e affrontare i problemi si
rivelano distruttivi come il resto.
O quando qualcuno ti fa
da specchio e ti mostra cosa stai diventando.
“Che
diavolo indossi?”
“Sexy, no?”
Cherie era
sicura di sé, quando aveva scelto quel completo, e per
qualche
motivo si aspettava – cercava
- l'approvazione di Joan, non
certo quella
freddezza.
“Praticamente sei
pronta per un peepshow. Ti
serve solo un nome porno”
Il compiacimento è
già
svanito e nemmeno il sorriso di plastica che Cherie si sforza di
modellare riesce a nascondere l'imbarazzo.
Joan la fissa,
girandole attorno ingobbita, una smorfia strana ad aleggiarle sulle
labbra.
Cherie
la conosce e sa come tradurre i suoi modi, ma adesso non saprebbe
distinguere dal suo sguardo se lei stia per saltarle addosso e
scoparla rabbiosamente contro il muro o se invece abbia solo una
voglia matta di picchiarla a sangue.
La cosa grave è che,
alla fine, Joan non fa nessuna delle due cose.
Le lancia
un'ultima occhiata, inequivocabilmente sprezzante, e lascia la
stanza.
Si incontrano qualche ora dopo,
per la cena e lo
spettacolo, e tutto sembra normale – normale davanti alle
altre,
alle telecamere degli ospiti giapponesi e al pubblico.
Joan
brinda, scherza, sorride – ma a vuoto – e quando
sono sul palco
nemmeno una volta le si avvicina per cantare insieme a uno stesso
microfono, come è abituata a fare.
E infine, nel
backstage, quando Lita sbatte addosso a Cherie le copie di quel
fottuto servizio fotografico, arriva l'esplosione.
Joan che
l'ha sempre difesa, lei che è la migliore bugiarda tra loro
–
nemmeno lei può nulla contro l'indifendibile.
“La nostra
pubblicità è la musica. Non il tuo
inguine!”
Per tutta
la sera, Joan e quelle parole rimbombano in testa a Cherie, che non
riesce a metterle a tacere nemmeno con la droga.
L'acqua
della doccia cade e pesa come il cielo, i passi sono incerti e
traballanti, l'aria è pregna di caos, ma a renderla
irrespirabile è
la sensazione di essere sola.
Bisognosa di mettere la
parola fine a quella follia.
Le Runaways, il tour, la
dipendenza, la musica.
Non c'è un inizio.
Basta.
Cherie
i risveglia un giorno o forse un secolo dopo, e la prima persona che
vede è proprio l'ultima che ha sentito tutto intorno a
sé poco
prima di perdere i sensi.
Joan.
Sempre e
comunque.
*
Joan
posa la chitarra, esausta ma soddisfatta, avvolta dalla piacevole
sensazione di essersi spremuta fuori dal petto una massa nera e
sfilacciata di fantasmi del passato.
Appoggia il filtro della
sigaretta alle labbra, poco prima di farsi sfuggire un sorriso
triste.
Ha come l'impressione che un capitolo della propria vita
si sia concluso nei fogli macchiati di inchiostro, nelle note dove
rimarrà immortale.
Ed è un sollievo a metà.
Potrà guardare
da una distanza sicura quei giorni.
Potrà riviverli, se vorrà, e
farli brillare per altre persone, per altre vite.
Potrà
rimpiangerli, anche, e permettere a se stessa di dire che le
mancheranno come nient'altro al mondo.
Perchè quanto tutto sia
finito in merda, per quanto ora stia meglio – senza Kim a
gravitarle intorno, senza i continui litigi, la fatica di dover
portare sulle proprie spalle il peso di una band allo sfascio - ,
Joan non smetterà mai di pensare a quel periodo come al
più bello
di sempre.
A pochi secondi o forse mille stagioni trascorse sotto
il sole e la pioggia, Cherie chiude gli occhi con un simile
pensiero.
Darebbe qualunque cosa per tornare a quei giorni che,
nel bene e nel male, sono stati costellati dalla presenza fissa e
indelebile di una sola persona.
Rannicchiandosi tra le coperte, incrocia le braccia al petto, e con le dita della mano sinistra si accarezza piano un punto preciso, subito di fianco alla clavicola.
È tanto che non fa quel gesto,
che non tocca il segno che ha impresso sulla pelle – un segno
indelebile quanto la persona con cui l'ha fatto.
Ed è in quel
momento che la volontà concreta e la speranza di dovere e
poter
cambiare - ritrovare se stessa - premono nel cuore per uscire.
“Non
l'ho salutata per l'ultima volta” realizza d'un tratto
Cherie,
prima che il sonno abbia il sopravvento - e le sembra importante
aggrapparsi a quel pensiero per tenersi sveglia, cosciente e
viva.
Per la prima volta dopo mesi interi, in lei brucia un
desiderio diverso dal bisogno della droga, anche se ugualmente
fisico.
Sentire la voce di Joan, vederla, parlarle, ricordare
insieme.
Forse accadrà in modo totalmente inaspettato, tra mesi o
anni, ma accadrà.
Forse si sveglierà e il miracolo succederà di
nuovo: troverà Joan di fianco al letto, saprà che
ha vegliato su di
lei, e sarà come non averla mai lasciata.
Forse domani, Cherie
riuscirà finalmente a dirle addio.
***
Note
finali:
No,
la verità è che film e personaggi come questi non
dovrebbero mai
passare
sotto le mie zampacce, perchè è chiaro che
finiscono
inevitabilmente rovinati. Chiedo perdono.
Okay,
giusto per ammorbare lo spazio delle note, lascio il confronto tra
fatti realmente accaduti e le ricostruzioni del film.
Cherie
Currie entra a far parte delle Runaways nel '75 e le lascia a fine
'77.
Joan la sostituisce alla voce, ma un anno e mezzo dopo,
circa, la band si scioglie.
Sandy e Lita migrano verso altri lidi
musicali (hard rock e heavy metal), mentre Joan diventa leader dei
Blackhearts.
Nel frattempo, a inizio anni '80, Cherie comincia la
carriera di attrice, che però è costretta a
interrompere per
disintossicarsi.
Nell'81 esce l'album “I love rock 'n' roll”,
targato Joan Jett & The Blackhearts.
Solo nel '90 Cherie è
finalmente a posto, e inizia a occuparsi di ragazzi
tossicodipendenti.
Nel
film, invece, dopo otto mesi dall'abbandono di Cherie, la band
s'è
sciolta. Viene mostrato il crollo fisico e il ricovero in
riabilitazione della cantante, mentre Joan comincia a comporre il
nuovo album con i Blackhearts. Sul finale (sul quale però
non
vengono date indicazioni riguardo gli anni/mesi trascorsi), Cherie
è
al lavoro (probabilmente ancora in fase di disintossicazione, ma
più
in salute di prima) e finalmente chiama Joan (che nel frattempo sta
riscuotendo successo con la nuova band). Si parlano, si sorridono da
un capo all'altro del telefono e vabbè, lo sapete, il resto
è amore
<3
Non
so il motivo di questo sproloquio. O forse sì: sono stanca
morta e
questa fanfic, che non mi convince proprio del tutto, è
stata un
parto.
Bon.
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