Ingrid
INGRID
Tante cose
sbagliate avevano la capacità e il permesso di
respirare. Io ero una di quelle, ma non la sarei stata ancora per
molto. Come indicava il mio piccolo nuovo tatuaggio, uno sfizio prima
della fine, innocuo agli occhi di molti, ma tremendamente significativo
per la sottoscritta. Rappresentava il mio stato d’animo, un
cuore
trafitto da una lama: ecco come mi sentivo. Non potevo andare avanti,
il mio cuore era stato pugnalato e quel tatuaggio segnava la mia morte.
Ormai avevo deciso. Questo dolore mi stava conducendo alla morte, ma
avrebbe anche potuto salvarmi dato che a procurarmelo non era altri che
la persona per la quale sarei voluta anche rimanere in vita. E in fondo
ero io a cercarla, questa sofferenza, quasi fossi masochista, ma
d'altronde non potevo fare a meno di vederla, perché
sì,
per stare bene mi sarebbe bastato allontanarmi da lei, dimenticarla, e
magari sopprimere il sentimento malsano che mi legava a quella
creatura.
Come avrei
potuto però? Lei stessa spesso mi cercava, mi
chiedeva aiuto, magari quando tentavo di distanziarmi. Di fatto ero la
sua migliore amica, la sua spalla delicata su cui piangere, la mano
sapiente tra i suoi capelli, la voce sicura e rassicurante che la
tranquillizzava, quando, triste, cercava riparo parlandomi di ragazzi
che le interessavano ma non la ricambiavano, quindi perché
non
avrebbe dovuto farlo? Solo che sentirsi stringere e abbracciarla a
propria volta, vedersi prendere le mani, guardare il suo sorriso
allargarsi mentre le parli, avere le sue labbra sulla propria guancia,
e sapere che per entrambe non avrebbe mai significato la stessa cosa,
perché tu eri diversa, per te era un sentimento
indistruttibile,
forse amore, per lei solo un’amicizia e forse anche
rimpiazzabile, faceva dannatamente male. E come il cuore si annientava
sempre più, il mio desiderio di lei aumentava fino ad essere
incontrollabile, perciò mi decisi ad optare per il suicidio.
Non
l’avrei mai più rivista e ciò mi
distruggeva, ma
non potevo neanche fingere di non percepire i lamenti del mio povero
cuore ormai distrutto e calpestato, e soprattutto non dovevo
permettermi un bacio rubato in un momento in cui non mi sarei riuscita
a controllare di fronte a lei, macchiando la sua purezza, la sua anima.
Ero
già in macchina verso la grotta Byron quando mi domandai
cos’avrebbe pensato della lettera che le avevo lasciato.
Parlava
di noi, del nostro primo incontro, più di due anni prima,
l’avevo amata da subito. Vestiva come suo solito tutta
colorata,
sembrava un arcobaleno, seduta su quella panca che ci ha viste
chissà quante volte spettegolare e ridere, ma anche
piangere.
Non stava facendo nulla per un osservatore poco attento e superficiale,
ma io mi accorsi subito che stava fissando il cielo quasi con speranza,
come se credesse ancora che qualcuno possa ascoltarci lassù
e
aiutarci. E mentre la guardavo improvvisamente, come se qualcuno
gliel’avesse suggerito, si voltò sorridendo nella
mia
direzione. Mi disse che il suo nome era Alex e che le sarebbe piaciuto
se l’avessi accompagnata in biblioteca. Da quel giorno
iniziò la nostra amicizia, non ci siamo mai lasciate, ma
corrose, almeno per quanto riguarda me sicuramente troppo.
Nella
lettera certamente non le riportavo solo alla memoria i nostri
momenti felici, ma le esplicavo anche il mio sentimento ovviamente
errato, dato che due donne non dovrebbero amarsi. Ma chi non
l’avrebbe amata? Anche questo le scrissi, che nonostante
fosse
errato, poteva ritenere ciò che provavo per lei uno dei
sentimenti più belli che si possano provare, anche se mi
aveva
condotta al suicido che avrei attuato alla grotta Byron. Le dissi dove
mi sarei recata perché forse in fondo speravo che sarebbe
venuta
a fermarmi urlandomi che mi amava. Che speranza vana, non sarebbe mai
corsa da una pazza innamorata del suo viso delicato, delle sue labbra
rosse, dei suoi occhi cangianti che variavano dal blu indaco al verde
chiaro, della sua pelle nivea, dei suoi capelli biondi come il grano;
al massimo sarebbe fuggita. Perché innamorarsi di una fata
di
tale bellezza? Immersa nei miei pensieri non mi ero neppure resa conto
di essere giunta a destinazione. Accostai la mia Renault ad un
marciapiede, i parcheggi erano tutti occupati come al solito, non che
mi importasse molto di prendere una multa visto che sarei passata
all’altro mondo dopo poco, però ormai cercare
parcheggio e
amareggiarsi perché non lo si trovava era abitudine. Mi
diressi
immediatamente verso gli scogli, o meglio lo scoglio, quello da cui
tutti avevano desiderato tuffarsi prima o poi ma che solo pochi avevano
affrontato con la speranza di riemergere. Io speravo il contrario
invece, di essere assorbita dall’acqua, cullata dalle sue
onde
fino a quando la morte non mi avrebbe accolta con sé.
Mi
sedetti sul precipizio a riflettere, d'altronde ciò che mi
apprestavo a fare non era una passeggiata, era mettere il punto ad una
storia iniziata ventitré anni prima con la nascita di una
bimba
di nome Ingrid, che era pronta a uccidersi per amore. Ma
all’improvviso sentii il mio nome tuonare
nell’aria, era
Alex che urlava “Ingrid”, che mi chiamava, che mi
diceva
che mi amava, che dovevamo tornare a casa, che non avrebbe mai vissuto
senza di me. Finalmente ero felice, mi girai verso la sua voce e la
vidi, piangeva, sembrava disperata, ma vedendo il mio sorriso si
tranquillizzò e mi sorrise di rimando. Le chiesi se
ciò
che stava dicendo era vero e lei mi rispose che non mi avrebbe mai
mentito, ma al massimo picchiata per lo spavento che le avevo fatto
prendere. Così feci per alzarmi e raggiungerla, in modo da
poter
tornare a casa e lasciarci tutto alle spalle, ma qualcosa
andò
storto. Evidentemente nel punto in cui mi ero seduta la roccia era un
po’ sconnessa, così il mio movimento non fece
altro che
provocare il disfacimento delle rocce e lì caddi,
infrangendomi
tra gli scogli. Non ricordo il dolore che provai, ma posso rivedere
nella mia mente e sentire distintamente le urla disperate e il pianto
lacerante di Alex.
Per un anno o
forse più continuò a venire ogni giorno qui
alla grotta Byron a portarmi rose rosse, i miei fiori preferiti, ora
viene una o due volte a settimana. È felice ed io con lei,
mi
racconta la sua vita, mi parla della sua bambina, che ha chiamato
gentilmente Ingrid. Dice che mi assomiglia e che spera diventi come me.
Io non posso che amarla come mi è permesso, accarezzandola
come
vento, riscaldandola come sole, bagnandola come acqua, permeando ogni
cosa con l’amore che provo per lei, che ora, anche se tardi,
capisco essere di una purezza disarmante.
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