clic
Clic.
Basta
un semplice rumore, un semplice gesto del dito, una lieve pressione del
polpastrello per poter fermare il corso degli eventi, anche solo per un
attimo.
L’attimo
perfetto in cui la fotografia viene scattata, in cui un piccolo
tassello di
vita viene memorizzato, in modo che non ce ne si possa mai scordare.
Se
possibile, porterei la mia macchina fotografica dappertutto.
Fotograferei
dappertutto.
E
chiunque.
Per
non lasciare che nulla passi inosservato, che nulla venga visto come un
qualcosa di ‘minor valore’ rispetto ad altro. Per
non dimenticare.
La
memoria umana è incredibilmente fragile, nonostante ci
vantiamo così spesso delle
nostre capacità intellettive rispetto a quelle degli altri
esseri viventi.
Non
possiamo ricordare tutto, no.
Alla
fine, in un momento che soltanto Dio sa quando giungerà, ci
saranno delle scene
che ci torneranno alla mente, ma non saranno abbastanza. Non saranno
mai tutte
poiché la nostra mente non riesce a contenerle.
È
a questo punto che entra in uso una macchina fotografica. Forse non
una, forse
neanche una decina; ma centinaia di macchine fotografiche possono
aiutarci a
tenere la memoria intatta.
Faccio
la fotografa da ormai sei anni, è il mio sogno da sempre;
sin da quando ero
bambina, alle prese con le macchine usa e getta, con un paio di rullini
sempre
a portata di mano, un’eterna turista.
Adoro
ogni aspetto del mio lavoro, o meglio, ogni fotografia,
indipendentemente dal
fatto che sia stata scattata da me o meno.
Non
ho mai odiato una foto. Mai.
O
almeno, mai prima di ora.
Sento
le mie mani tremare sulla tastiera del computer portatile, scosse da
tremore
che parte da dentro, dal profondo del mio essere.
E
nonostante la vista sia appannata dalle lacrime che hanno cominciato a
scendere
silenziose, ci vedo benissimo. Riesco ad osservare con una precisione
incredibile la miriade di fotografie che da qualche ora hanno intasato
quasi
tutti i siti internet e che adesso affollano lo schermo del mio laptop.
Acqua,
sporca ed infangata. Alberi, fragili come se fossero dei coriandoli. E
le case,
i palazzi, le auto. Gracili come fossero dei pezzetti di carta.
Tutto
è trascinato via, scosso dallo stesso tremore che adesso
percuote le mie membra.
Ed
è pazzesco vedere come la grandezza dell’uomo, la
sua apparente onnipotenza sia
costretta a piegarsi sotto la terribile volontà della natura.
Eppure
non è questa la cosa peggiore.
È
il vedere la gente, urlante e straziata, strappata via dalle proprie
case, dal
proprio lavoro, dalla propria famiglia, dalla propria vita. Viene
trascinata
allo stesso modo dei grattacieli, delle auto e degli alberi.
Abbasso
di scatto lo schermo del computer, spegnendolo bruscamente e respirando
freneticamente.
Avrei
dovuto esserci anche io, lì, insieme a tutte quelle persone.
Insieme
alla mia famiglia.
Avrei
dovuto rimanere lì, a Futushima, a subire la stessa sorte, a
morire con loro.
E
pensare che me n’ero andata solo per un litigio …
e poi ero partita per New
York, la “grande mela”, per partecipare ad uno
stupido set fotografico a cui
non sarei nemmeno voluta andare.
Rivedo
nella mia mente i volti dei miei parenti, dei miei amici, del mio
ragazzo.
In
questo momento non ho bisogno della macchina fotografica per ricordare,
per
poter toccare con mano tutto ciò che è successo,
tutti i sentimenti e le
emozioni che ho provato con loro, i miei cari.
Adesso
riesco a ricordare con estrema precisione le loro facce esasperate non
appena
chiedevo loro di farsi scattare l’ennesima fotografia. Riesco
a ricordare i
loro sorrisi, i loro abbracci, le loro infinite dichiarazioni
d’affetto.
Ricordo
i miei genitori e le loro infinite raccomandazioni, il loro essere
sempre
soddisfatti e felici di me e la loro immensa bontà.
Ricordo
i miei due adorati fratelli, Yuki e Jouta, perennemente scherzosi ed
ilari,
incapaci di prendere nulla sul serio. Loro sì che erano in
grado di vedere le
bellezze della vita.
Ricordo
i miei amici, non tanti ma nemmeno pochi, la giusta quantità
che mi faceva
sentire apprezzata ed amata.
Ricordo
lui, Namihiko, con la sua incredibile dolcezza, con la sua
sincerità, i suoi
baci, i suoi meravigliosi abbracci.
E
penso anche a tutti gli altri, a tutte le altre persone che sono morte,
alla
vita che hanno lasciato, ai sogni che ognuno di loro nutriva, alle loro
speranze andate in fumo.
E
vorrei sbattere la testa contro un muro al pensiero che invece la mia,
di vita,
insieme a quella di tanti altri, continuerà; che tra non
molto per tanti,
troppi, sarà come se non fosse successo nulla, come in
questo giorno, 11
marzo 2011, non fosse successo nulla.
Clic.
Se
anche io fossi stata lì, forse, prima di morire insieme ai
miei cari, avrei
potuto scattare un’ultima fotografia.
Avrei
potuto fermare anche quell’istante, quel terribile momento in
cui tutto
cambiava, in cui tutto precipitava in un baratro di dolore e
disperazione.
Avrei
potuto dir loro addio, avrei potuto salutarli davvero, in un modo che
ora non
ha più alcun valore.
Avrei
potuto fare tante cose con quel semplice rumore, con quel gesto del
dito, con
quella lieve pressione del polpastrello. Avrei potuto pensare, avrei
potuto
compiere un’ultima azione. Avrei potuto ricordare.
Un
tempo, ad ogni ‘clic’ che sentivo ero felice. Ero
soddisfatta, mi sentivo
completa, realizzata.
E
anche adesso, con il dito sul grilletto della pistola
d’emergenza tenuta nel
cassetto del mio appartamento americano, sento di star per riacquistare
quelle
stesse incredibili, meravigliose sensazioni.
So
che sarà doloroso, ma potrò raggiungere i miei
cari lassù, nel cielo.
Chiudo
gli occhi, la gioia è la stessa, ma non ho in mano una
macchina fotografica.
Clic.
Questo è il
mio piccolo aiuto come autrice (si fa per dire ... ) per il Giappone.
Spero possa piacervi ed
invito tutti a partecipare alla magnifica inziativa proposta da Lara
Manni.
Un bacio.
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