promessi tomati2
Capitolo 2
Passando
una notte sveglio ad escogitare scuse per non celebrare il matrimonio e
sognando il dannato danase con il suo maledetto CD ogni volta che
chiudeva gli occhi, riuscì infine a trovare il modo di
evitare di sposare i due innamorati.
Lovino, o come dicevan tutti Lovi, non si fece molto aspettare e si
recò dal curato allegramente biascicando insulti, agghindato
per il suo matrimonio.
«Sono venuto, dannato pretastro, per sapere a che diavolo
d’ora ci vuoi sposare»
Don Felibondio finse di non ricordarsi del suo matrimonio:
«Di che giorno parli, ve, Lovi?»
Lovino montò su tutte le furie, come suo solito:
«Ma che hai? La pasta al posto del cervello?»
«Vee, oggi non posso! E poi ci sono degli imbrogli, degli
impedimenti!»
«Maledizione, ma che diavolo vai blaterando, razza di
mangia-pasta?!»
«Veee, Lovi, sapessi quanti impedimenti dirimenti
…. Pastam, fussilium, pennete ad salmonem, orecchiettem ad
rapae cimum!! Tortellinum in brodum…»,
contò Don Felibondio sulle dita.
«Ti pigli gioco di me?!», interrupe Lovino,
«Sai dove lo ficco il tuo latinorum?»
«Nella passta?», chiese ingenuo il curato.
Lovino lo minacciò con un pugno, e il curato parve
ricordarsi del suo matrimonio: «Come ti è saltato
il grillo di sposarti? Datemi tempo di qualche giorno!»
«Quanto?»
«In quindici giorni, procurerò, ve!»
«E che dico alla mia sposa belga? Eh?»
«Dì che fui io a sbagliare, ve!».
Lovino uscì dalla stanza sbattendo la porta, imprecando ad
alta voce, quando, alzando gli occhi, vide la Ludwiga e si
fermò attacar lite: «’Giorno,
mangia-patate! Speravo che oggi saremo stati allegri insieme, per una
volta»
«Mah … Come direbbe quel vinofilo: que
serà, serà!»
«Fammi ‘sto piacere: quel cervello di spaghetti del
curato mi ha propinato certe ragioni che non ho capito per niente,
spiegami tu perché non può o non vuole sposarmi,
oggi!»
«Ti pare che io conosca i segreti di Don
Felibondio?», chiese evasiva la perpetua.
E Lovi esclamò: «Allora è vero che
c’era qualcosa sotto!»
«Senti, Lovì, io non so proprio niente dei segreti
del mio curato, so solo che lui non ha colpa e per difenderlo, non
posso parlare! Sapessi, ci sono tanti birboni e prepotenti a questo
mondo!»
«Bastardi, prepotenti e birboni! Su! Dimmi chi
sono!»
«Ah, tu vorresti farmi parlare, Lovino! Ma quando ti dico che
non so niente, è come se avessi giurato di tacere! Potresti
anche torturarmi, e io sono abituata alle peggiori torture, non mi
caveresti neanche una parole di bocca! Addio, è tempo perso
per tutti e due!».
Lovino rimase basito e perplesso, tornò indietro con gli
occhi stralunati, urlando a Don Felibondio: «Chi è
quel prepotente che vuole che non sposo la mia Lucia?!».
Don Felibondio, veloce come una lepre, cercò di scappare
dalla porta della sagrestia, ma Lovino, furbo come una volpe, chiuse la
toppa della serratura e si mise la chiave in tasca.
«Ahah! Ora parlerai, maledetto bastardo! Tutti sanno i fatti
miei, tranne me! Voglio saperli anche io, maledizione! Come si chiama
questo bastardo?»
«Lovi, Lovi, bada a quel che fai, vee! Pensa
all’anima tua!»
«Penso che voglio sapere tutto, e subito!», e
così dicendo, prese il manico del coltello.
«Per la Santa Pasta!», escalmò
fiocamente Don Felibondio
«Lo voglio sapere!»
«Mi vuoi morto?», tremò il povero curato.
«Voglio sapere ciò che è mio diritto
conoscere» replicò seccato il giovane sposo.
«Ma se parlo sono morto! Non mi devo curare della mia
vita?»
«Sei morto anche se non parli: dunque parla!»
«Prometti, mi giuri che non lo dirai a nessuno?»
«Ti prometto che farò uno sproposito se non mi
dici subito il nome di quel bastardo!».
Don Felibondio, spaventato a morte, iniziò a tremare:
«Don … Don … »
«Don? Don chi?», gli domandò furioso
Lovino, curvo sul curato, come per ascoltare meglio.
«Don Antrigo!» pronunciò in fretta il
povero minacciato.
«Ah cane!», urlò Lovino, «Cosa
ti ha detto per …?»
«Cosa mi ha detto, ve?», rispose con voce sdegnata
Don Felibondio, «Vorrei che fosse toccato a te quello che
è toccato a me! Così non avresti più
tanti grilli per la testa» e così il prete
iniziò a raccontare con toni terribili il brutto incontro
con i bravi e il loro maledetto CD e in seguito a rimproverare il
giovane per averlo messo alle strette, chiedendogli infine:
«Cosa hai intenzione di fare adesso che sai tutto? E mi
raccomando, giura che non dirai nulla!»
«Ho sbagliato: mi scuso!», e Lovino
scappò senza giurare!
Don Felibondio sconvolto chiamò a gran voce la sua perpetua,
ma invano perché la teutonica era all’orto e non
poteva sentirlo.
Si sedette alla sedia, tutto tremante e lamentoso e li lo
trovò la Ludwiga che entrò in casa con un cavolo
sotto il braccio: non appena la vide, Don Felibondio
l’accusò di aver parlato troppo con Lovino e la
poverina cercava di discolparsi dicendo che non aveva assolutamente
parlato.
La discussione andò avanti per molto, quando poi Don
Felibondio preso dai brividi della febbre si mise a letto malato,
ordinando alla Ludwiga di sbrangare il portone e di dire a chiunque lo
cercasse che il curato era malato.
Intanto Lovino tornava a casa, arrabbiatissimo e si immaginava di fare a
fettine Don Antrigo, quel maledetto; si chiedeva poi se Lucia era
consapevole di aver attirato le attenzioni del nobile spagnolo e
perché non lo avesse confessato a lui, il suo futuro sposo!
Giunto a casa di Lucia, Lovino, chiese ad una graziosa fanciulla dalle
accentuate quanto deliziose sopracciglia, Peter, di chiamargli un
attimo in disparte la sua sposa.
Lucia usciva in quel momento tutta agghindata dalle mani della madre: i
capelli acconciati in trecce raccolte da una spilla
d’argento, portava un vestito di broccato a fiori con delle
maniche allacciate con dei bei nastri ed era radiosa come ogni sposa il
giorno del suo matrimonio.
«Vado un momento da Lovi-chan e torno», disse Lucia
alle donne e si diresse verso il suo sposo, ma vedendolo più
inquieto del solito, gli chiese, con un brutto presentimento nel cuore:
«Cosa è successo?».
«Lucia!», rispose Lovino, «Per oggi il
nostro matrimonio è andato a monte, e chissà
quando potremo sposarci»
«Ma cosa mi dici mai? Stai scherzando?»
«No, non sto scherzando!», il giovane le
raccontò brevemente la storia e quando la ragazza
udì il nome di Don Antrigo arrossì violentemente
ed esclamò: «Ah! Fino a questo punto?»
«Quindi, lo sapevi, maledetta?», le chiese Lovino.
«Ogni volta che io e te passeggiavamo insieme, lui ci
rivolgeva delle occhiate infiammate ma non credevo che fosse
ossessionato fino a questo punto!»
«Cos’altro sapevi?», le intimò
il fidanzato
«Non mi far dire altro, non mi far piangere! Corro a chiamare
mia madre!» e mentre lei andava via, Lovino
sussurrò: «Non mi hai mai detto niente!».
«Ah, Lovi!», gli rispose Lucia, rivolgendosi al
ragazzo un momento senza fermasi.
Intanto, la buona Agnese, la madre olandese di Lucia, incuriosita della
sparizione della figlia, scese le scale per vedere cos’era
successo. La figlia la lasciò con Lovi e fingendo che non
fosse successo nulla, andò a congedare gli invitati al
matrimonio dicendo: «Il signor curato, Don Felibondio,
è ammalato, e per oggi non si farà
nulla», e detto così, salutò tutti e
tornò di nuovo dallo sposo e da sua madre.
Gli invitati se ne andarono e si sparsero in città, a
raccontare l’accaduto; due o tre di loro andarono fino
all’uscio del curato per verificare se il prete fosse davvero
ammalato.
«Un febbrone!», rispose la Ludwiga dalla finestra e
questo mise fine alle ipotesi misteriose che già molti si
erano fatti sul mancato matrimonio.
|