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Sihaya, la donna-bambina
C’era una volta un bambino, piccolo ma
già coperto di peli come una giovane bestiola. C’era una volta un uomo, che quel
bambino non era ancora riuscito a diventare… Vorrei essere capace di raccontare
questa storia così, come una bellissima favola, con una misericordiosa terza
persona che mi permetta di dissociarmi da quel bambino, da quella bestia non
ancora uomo.
Ora sono un uomo, in tutti i modi in
cui qualcuno può esserlo, in tutti modi in cui tanti non lo sono e non lo
saranno mai, e se sono ciò che sono, il merito è solo suo: Sihaya.
Ma andiamo con ordine…
Prima di tutto sono stato un bambino. E
allora, con l’innocenza e l’egocentrismo dell’infanzia, ero convinto di essere
una persona. Al circo dormivo in una gabbia, e gli altri bambini non giocavano
mai con me, ma non mi importava. Quel mondo fatto di sbarre e solitudine era il
mio mondo, lo era sempre stato e non volevo di più.
All’inizio la gente del circo non mi
esponeva negli spettacoli. All’inizio non usavano le catene e la frusta.
Fu quando diventai adolescente,
abbastanza grande da sembrare un animale feroce, che il Padrone iniziò ad
addestrarmi come una delle sue bestie. Allora entrai nel cerchio dello
spettacolo, allora vidi le altre persone allenarsi nei loro esercizi, e compresi
che non ero come loro.
Il Padrone usava la frusta per
insegnarmi a gridare come una belva, e in principio furono solo urla di dolore,
ma presto imparai che il ruggito faceva tacere la frusta, la parola la faceva
fischiare. Smisi di parlare ed iniziai ad ascoltare le altre bestie per imitare
loro. Ero uno scherzo di natura che voleva tornare sulla retta via.
Mangiavo da una ciotola, non avevo
abiti ma solo la mia naturale pelliccia, vivevo sempre con una catena legata al
collo, uscivo dalla gabbia solo per gli esercizi con il Padrone e gli
spettacoli. Non pensavo di meritare di meglio, non credevo di poter avere di
più, ma attraverso le sbarre che delimitavano il mio mondo e la mia stessa vita,
guardavo il blu immenso e senza catene del cielo.
Poi, un giorno… no, una sera, mi giunse
all’orecchio un suono dolcissimo e triste, che sembrava richiamare la mia voce
di essere umano dal luogo celato e dimenticato dove l’avevo nascosta. Mi faceva
venire voglia di alzarmi sulle zampe posteriori per camminare come un uomo, di
uscire dalla gabbia a respirare le stelle. Qualcosa, in quella che non sapevo
fosse musica, mi diceva che non potevo essere una bestia, perché non era
possibile che una bestia potesse soffrire tanto di nostalgia per qualcosa che
non aveva mai avuto.
La musica tornava tutte le sere, ma io
non vedevo chi la suonava e ormai pensavo che fosse solo la mia mente crudele ad
ingannarmi. Iniziai a piangere ogni sera, non perché volevo che la musica se ne
andasse, ma perché non riuscivo a volerlo, né a rinnegare quel dolore dolce
nell’anima che non pensavo di avere.
Alla fine, fu la musica a sentire me.
Si avvicinò, curiosa di una bestia che sapeva piangere a quel modo, e fra le
sbarre mi apparve il viso dolce di una donna che era stata una bambina solo
qualche giorno prima. Aveva occhi grandi e neri che sembravano riflettere il
mondo intero, e assorbirlo al tempo stesso; la pelle liscia e dorata dal sole, e
dalla libertà che solo le persone possono avere; i capelli neri, lunghi e
morbidi come un cuscino di piume d’un angelo caduto. Era la cosa più bella che
avessi mai visto, e sebbene la musica non ci fosse più, quel dolore dolce
nell’anima che non potevo avere sembrò diventare ancora più intenso.
La donna-bambina mi osservava curiosa,
sorridente e senza paura, come solo i fanciulli sanno guardare qualcosa di nuovo
e strano. Le piccole mani afferravano le sbarre fredde e la testa cercava di
spingersi al di là di esse, come volesse raggiungere me e il mio mondo. Gli
occhi, i suoi enormi occhi scuri, si fissavano nei miei come se volesse toccarmi
con essi. Mi ritrassi, perché ero io ad avere paura: paura di essere sfiorato.
Ero troppo vecchio per conservare la curiosità innocente di un bambino, e avevo
imparato troppo presto che toccare le persone provocava dolore.
- Cosa sei? -
La donna-bambina tornò tutte le sere e
suonò per me. Aveva un flauto, un piccolo bastoncino di legno chiaro che
produceva un suono dolce ed acuto che sembrava vivere di vita propria, tanto
libero e spensierato che mi trovai ad invidiarne le note. Tutte le sere, la
donna-bambina sporgeva la testa tra le sbarre e mi fissava negli occhi, mi
ripeteva la domanda e se ne andava senza una risposta.
Non si aspettava una risposta, era la
domanda la cosa importante.
Non so quanto tempo trascorse in questa
routine di cui mi stavo innamorando. Il tempo non aveva un gran significato nel
mio mondo di sbarre e ruggiti e fruste, ma vidi che la donna-bambina stava
crescendo. Di tanto in tanto, la vedevo esercitarsi: si piegava in pose
straordinarie e i movimenti lenti che trasformavano il suo corpo in un magico
oggetto di meraviglia erano ipnotici. Di giorno, però, lei non mi guardava mai,
la notte era il nostro regno: il regno della donna-bambina e dell’uomo-bestia.
Infine, una sera, lei corse da me
appena dopo il tramonto, come sempre, come se il calare del sole spezzasse
quell’incantesimo che teneva imprigionato me nel corpo di una bestia, e lei
nelle sembianze di una bambola di fumo e incanto. Il suo viso era raggiante di
felicità, si gettò in ginocchio davanti alle sbarre e vi infilò in mezzo il viso
eccitato ed ansimante.
- Io lo so cosa sei -
Sorridente e in attesa, forse che
l’incantesimo si spezzasse davvero, per sempre, forse solo che io facessi
qualcosa, restò a fissarmi, il bastoncino di legno chiaro abbandonato accanto
alle ginocchia, le mani strette sulle sbarre come se dovesse riuscire ad aprirvi
finalmente un varco.
- Suona -
Non so da dove provenne quella parola,
ma so che mi riempì di terrore, perché le parole significavano dolore. Mi coprii
il viso e mi rannicchiai, aspettando il sibilare della frusta, che non arrivò.
Era una magia, era la magia della donna-bambina. Il suono dolce e trillante del
flauto mi richiamò dal mio universo di paura e questa volta, mentre suonava, lei
mi guardò fisso, mi guardò piangere per l’incredibile sollievo che quella parola
e quella musica mi avevano dato.
- Io ti vedo -
Mi disse quella sera, quando la voce
della musica ebbe smesso di cantare per me, quindi tese il braccio all’interno
della gabbia. Malgrado avessi un timore cieco di ciò che poteva accadere,
lasciai che le sue dita sfiorassero i peli che ricoprivano il mio viso. Fu come
se tutte le note, gli sguardi e le domande ci avessero condotto per mano solo a
quel momento.
- Io ti sento -
Lei mi vedeva, lei mi sentiva. Io
esistevo.
I suoi occhi neri divennero liquidi e
luminosi, mentre si riempivano di lacrime, ma lei non li chiuse, continuò a
fissarmi come se il suo stesso sguardo mi stesse dando vita ed identità, e
lasciò che gocce salate e brucianti scivolassero sui suoi zigomi alti. Le sue
lacrime mi sembrarono preziose e brillanti, troppo splendide per lasciare che
scorressero fino alla fine, perdendosi in quel sudicio pavimento di stalla.
Allungai una mano e sfiorai la sua guancia, lasciando che una piccola stilla si
posasse sulle mie dita tese. Lei allontanò le mani dalle sbarre, per la prima
volta, e le alzò per prendere la mia e premersela contro il viso. Solo allora
chiuse gli occhi: ci stavamo toccando, la vista non contava più, lei lo sapeva
perché questa era la sua magia, la magia della donna-bambina.
La sera successiva, dopo aver suonato,
lei pianse di nuovo mentre mi fissava, rannicchiato nel fondo della mia gabbia.
Tese di nuovo la mano verso di me ma io non mi avvicinai, perché quella
nostalgia, il dolore dolce nell’anima che iniziavo ad avere, stava diventando
insopportabile, mentre cominciavo a sentire la vita che mi scorreva sotto la
pelle.
- Perché non sai cosa sei? -
Me lo chiese fra le lacrime, con una
voce tanto triste che avrebbe commosso le montagne, una voce grave e profonda
come quella di una donna, una voce incredula e curiosa come quella di una
bambina. Capivo, in qualche modo, nell’anima che lei mi stava costruendo, che
questa volta lei aspettava la mia replica e io avrei tanto voluto risponderle,
ma proprio non sapevo, quello proprio non potevo saperlo. Continuai a fissarla,
con gli occhi sbarrati, confuso e perso in quella che le persone liquidano senza
importanza con una parola di sole quattro lettere.
Come si può usare una parola tanto
piccola per una cosa tanto grande?
- Io te lo insegnerò -
Dopo queste parole se ne andò, quella
sera. Se ne andò piangendo ma lentamente. Se ne andò piangendo ma non si voltò,
e mentre guardavo il suo corpo sempre acerbo di donna-bambina, le sue spalle
minute ma solide mi raccontarono di una decisione irrevocabile, una decisione
contenuta in quelle quattro parole, ma tanto grande che non poteva veramente
esservi contenuta tutta. Come la Vita con le sue quattro lettere.
Le sere successive non venne, ma io non
credevo che mi avesse abbandonato, che fosse finalmente diventata una donna e
basta, perché le sue spalle mi avevano detto della decisione, e perché la sua
magia era ancora con me: tutte le sere mi si posava sull’anima che si stava
formando, riportandovi il dolore dolce ed intenso. Durante il giorno, per la
prima volta in anni e anni, ricominciai ad ascoltare le parole degli uomini. Non
conoscevo niente della donna-bambina, sapevo solo cos’era, ma dalle parole degli
uomini imparai, imparai parole per parlare di lei, imparai cosa gli uomini
pensavano che fosse, imparai cosa aveva reso i suoi occhi rassegnati e le sue
spalle decise.
Nel mondo degli uomini la donna-bambina
era Sihaya. La chiamavano così, e la chiamavano contorsionista, e la chiamavano
donna. Nel mondo degli uomini la donna-bambina non era bambina, non era magica,
era la donna del capo, era un suo possedimento tanto quanto lo ero io. Non
capivo come una persona preziosa e magica come la donna-bambina potesse essere
posseduta, poi pensai che forse poteva essere magica solo per una persona, e
infine capii che lei era sempre magica, ma che gli uomini del giorno non
potevano vederla, e fui triste per loro.
Poi, una notte , quando stavo per
addormentarmi con il mio dolore dolce stretto nell’anima che già iniziava ad
essere non più mia, lei arrivò e questa volta non si inginocchiò. Mi guardò, ma
non come faceva abitualmente, fisso negli occhi, per guardare l’embrione della
mia anima: questa volta mi guardò tutto, tutto il mio corpo ormai adulto coperto
da fitti peli marrone scuro, e mi guardò tutto perché mi amava tutto, tutto
intero, così com’ero. Era scritto nei suoi occhi, e per un attimo ebbi paura
dell’amore tanto intenso della donna-bambina. Lei afferrò le sbarre, non per
aprirle come aveva fatto mille volte prima di allora, ma per amare anche quelle,
per accettarle come accettava me, per accettarle perché erano parte di me. Alzò
le braccia e fu un filo, un filo sottile che avrebbe potuto infilarsi ovunque,
nessuna porta le era preclusa ed era incredibile quanto quella libertà potesse
esserle inutile. Fece un passo di lato, la testa girata verso di me, e la sua
magia di donna-bambina la portò oltre le sbarre, oltre il suo mondo, dentro il
mio. Poi lasciò che il suo vestitino blu le scivolasse fino ai piedi e venne a
sdraiarsi di fianco a me.
Spariti i vestiti sparì la paura.
Perché ora lei era come me, sdraiata sul fondo sporco della gabbia, muta in un
mondo di parole, e il suo tocco non era quello alieno di una persona, non era
quello di Sihaya, era quello magico della donna-bambina. Si strinse a me e mi
appoggiò la testa al petto, i suoi capelli neri si confondevano con la mia
pelliccia castana e odoravano di buono. Mentre lei ascoltava i battiti del mio
cuore li potevo sentire anch’io, appena sotto la pelle, e ancora più in
profondità, la mia anima che voleva diventare sua vibrava al ritmo della sua
musica. La mia donna-bambina iniziò ad accarezzarmi e si sdraiò sopra di me,
guardandomi con i suoi occhi ibridi d’innocenza e di desiderio, con i suoi occhi
seri di donna, con il suo sorriso semplice di bambina.
Quello che lei, i suoi occhi, il suo
corpo, i suoi movimenti, risvegliavano, non erano gli istinti animaleschi, che
avevo dati per scontati quando il Padrone mi portava nella stanza con i cuscini,
dove ricche donne annoiate giocavano con me solo perché lo ritenevano meno
riprovevole che giocare con bestie di altro tipo.
Lei mi guidava, guidava le mie mani, il
mio desiderio e i suoi occhi mi incatenavano, mi trascinavano in un posto che
non era il mio mondo, e nemmeno era quello delle persone: era il mondo della
donna-bambina e dell’uomo-bestia. Il nostro mondo era lì, solo una battito di
cuore più in là. E mentre ero sprofondato in lei, bruciante con il fuoco di una
innocente passione, guardai la donna-bambina sospirare con il piacere che io le
procuravo, sentii la donna-bambina stringersi al mio corpo grosso e peloso
perché era quello che desideravo, gustai la donna-bambina che mi si donava
completamente, che mi prendeva completamente, che mi insegnava finalmente. E
capii cos’è l’amore, e capii cos’ero io e cos’era lei, e cos’eravamo noi. Il
tocco magico della donna-bambina.
- Tu sei Lionel perché hai la criniera
di un leone sul capo e la forza di un leone negli occhi - mi battezzò, cercando
con la sua piccola bocca carnosa, le mie ruvide labbra pelose.
- E io amo Lionel, l’uomo Lionel dagli
occhi di bambino - poi si addormentò sul mio petto.
Quando mi svegliai c’era la frusta a
sibilare senza pietà su di me e la donna-bambina era scomparsa dal mio fianco.
Per la prima volta da molti anni cercai di ribellarmi, ma un uomo che non era il
Padrone mi batté con un bastone finché non riuscii a rialzarmi, poi il Padrone
fece bere alla frusta il mio sangue e rise di me quando rimasi rannicchiato,
tremando sul fondo della gabbia. Rise perché non vedeva il sorriso di uomo che
era sulle mie labbra, il sorriso che era stato della donna-bambina e che lei mi
aveva donato, insieme all’anima che non era più mia, che non era più sua, che
sarebbe sempre stata nostra.
Quando la donna-bambina tornò da me le
mie ferite erano quasi guarite e lei aveva un mantello ed un cappuccio, ma io
non le chiesi di toglierlo. Sapevo che si nascondeva perché qualcuno aveva
cercato di strapparle dal viso la bambina che la rendeva magica. La
donna-bambina prese un sacco e lo aprì, mi lanciò quegli stracci che gli uomini
del mondo delle persone si mettono sempre addosso e aspettò che avessi finito di
infilarmeli, con difficoltà, solo allora aprì la gabbia. Mi travestiva da uomo
perché potessi camminare per il mondo, come aveva fatto lei.
Io restai fermo, impaurito dal mondo
delle persone, terrorizzato dalle persone stesse, che avevano voluto fare del
male alla donna-bambina, estirpare un’anima appena nata dal suo petto.
- Questo è il tuo mondo, mio Lionel,
basta che tu lo voglia. Il cielo è tuo, la terra è tua, la vita è tua - di nuovo
quella parola mi sembrò piccola ed enorme, come lo era la donna-bambina – Ti amo
perché tu sai cosa sono io, e cosa sei tu e cos’è la vita - mi spiegò ancora,
dolcemente, poi mi poggiò la sua piccola mano sulla guancia pelosa.
- Il nostro mondo - riuscii solo a
dire, e non riconobbi la mia voce, perché non era quella dell’uomo-bestia, ma
quella dell’uomo-bambino.
- Il nostro mondo è stato, ora io devo
imparare cos’è la morte e tu devi imparare cos’è il mondo - allora la
donna-bambina mi mise nella mano un pezzo di stoffa dipinto con due buchi al
posto degli occhi –Nasconditi perché se anche tu saprai cos’è il mondo, il mondo
non saprà mai cosa sei tu - poi pianse, come quella prima volta, senza chiudere
gli occhi, lo sapevo anche se non potevo vederla. Si strinse a me, mi baciò
piano come fanno le donne-bambine e mi lasciò da solo ad imparare cos’era il
mondo.
Mia Sihaya, mia donna-bambina, ho
vissuto lunghi anni senza di te, ho incontrato le persone e mi sono nascosto da
loro, ho percorso tante strade e ho dormito sul loro ciglio, aspettando che
passasse qualcosa che valesse la pena guardare, seguire, imparare e ogni volta
ho visto talmente tante cose splendide da non sapere mai dove fosse meglio
volgere lo sguardo. Ho visto la bellezza del mondo passare non vista sotto gli
occhi degli uomini, e ho sentito il cuore scoppiare di felicità e meraviglia
ogni volta che sorgeva il sole, che una goccia di pioggia si impigliava nei peli
della mia mano, che qualcuno mi sorrideva, per qualsiasi ragione, come fossi un
uomo.
Non so se ho imparato cos’è il mondo,
forse ho camminato troppo poco per le sue strade. So che non imparerò mai cos’è
il mondo delle persone, c’è troppo dolore e noia che non riesco capire. Ma ora
devo imparare anch’io cos’è la morte, e se ho saputo cos’era la vita lo devo
solo a te, la donna-bambina, che mi hai dato la tua anima intera perché io non
ne avevo, e poi te ne sei andata perché nessuno può vivere senz’anima. Non
sapevo di poter scrivere, ma se ho potuto farlo, è senza dubbio merito della tua
anima che trema ora nel mio petto per ricongiungersi a te.
Ho amato il mondo, ho amato la vita, ho
amato te, perdonami se mi sono innamorato così presto della morte.
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