Saint Seiya Gunther
Un ragazzo difficile
Chicago non è un buon posto dove nascere.
Industrializzata fino al midollo, la sua skyline è una infinita
selva di grattacieli e di ciminiere che instancabili come vulcani mai
sopiti, vomitano sulla città il loro fumo denso e greve,
puzzolente di olio e motori.
Laggiù, avvolti nelle sue spire grigie, osano vivere uomini che
giorno dopo giorno continuano a perdere diritto a tale appellativo,
immersi fino al collo in quella fabbrica a cielo aperto che un domani
li avrebbe resi evanescenti come fantasmi e grigi come macchine spente
e silenziose.
Non si scherzava mai, a Chicago. Non c'era tempo.
Nessuno lì, in effetti, aveva mai tempo per qualcosa che non
fosse aumentare la produttività in una giornata scandita da
impegni precisi e consuetudini ritmiche, definiti dal moment in cui
aprivano gli occhi a quello in cui li chiudevano, quando, unico e vero
istante di libertà della giornata, si chiedevano se l'indomani
li avrebbero riaperti.
Perchè la grande metropoli era anche questo: nei palazzi, le
macchine la facevano da padrone, ma le strade appartenevano ad ogni
sorta di rifiuto della società: chi aveva perso il passo con i
ritmi frenetici ed era stato "eliminato" dal sistema e chi nel sistema
non aveva voluto avere a che fare, ora governava quel regno di
immondizia e sudiciume, fango, sporco e lacrime; piccoli re che
cercavano di mangiarsi l'uno con l'altro per accrescere quello che per
loro era potere.
Accadeva anche, talvolta, che taluni di questi piccoli re crescesse
fino al punto di rientrare nei palazzi dai quali erano stati cacciati;
ma, se la crudeltà necessaria non mancava a nessuno, lo stesso
non si poteva dire dell'intelligenza e della forza di volontà
necessari ad arrivare in cima.
Gunther aveva sempre pensato, anzi, saputo, che lui sarebbe stato uno di quelli che ce la avrebbe fatta.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, poteva quasi assaggiare, estatico,
la sensazione del potere su quela città di morti che magari
sarebbe stato solo il primo passo verso ben altre mete.
Il sedicenne dai capelli blu, alto per la sua età, si concesse
un sorriso ferino mentre si beava nelle sue fantasie all'ombra di un
muretto dove aspettava il suo primo, vero incarico importante.
Certi tipi gli avevano proposto di portare una valigetta ad altri tipi.
Non ci voleva un genio per capire quello che avrebbe dovuto fare,
probabilmente sarebbe stata droga o al massimo armi.
Potendo scegliere, avrebbe preferito la prima: nel caso in cui avesse
incontrato sbirri, con un pò di polvere si poteva sistemare
tutto e magari il destinatario non si sarebbe accorto di nulla mentre
con le armi sarebbe stato più difficile contrattare.
Sapere che stava per aiutare una persona ad ammazzarsi o ad ammazzarne
altre non gli causava alcun problema: dal suo punto di vista, lui non
si impicciava degli affari della gente e la gente non doveva fargli
girare le scatole o avrebbe assaggiato la potenza dei suo pugni.
Assorto nei suoi pensieri, non si era reso conto dell'arrivo di un
uomo, che ora lo sovrastava dall'alto. La pelle scura e l'abito di
ottimo taglio lo denotavano immediatamente come straniero, ma quello
che inquetava davvero era il volto fermo e inespressivo, non malvagio o particolarmente cattivo quasi un
blocco di pietra dove solo gli occhi testimoniavano la vita.
Occhi che sembravano scavare a fondo in quel ragazzino che sedeva nella
polvere, muto e con la bocca leggermente aperta in una espressione
sorpresa.
Una delle regole fondamentali della strada era capire al volo chi potevi fottere e chi no.
Era bastato incrociare gli occhi per capire che non poteva fargli del male in alcun modo.
"E... Hey, amico! Tutto bene?" sorrise, un pò strafottente tanto
per spezzare la cappa di silenzio che si era venuta a creare. "Ti sei
perso, per caso?"
"... Così pare." ammise senza problemi l'altro senza smettere di fissarlo.
Quasi come se se lo fosse aspettato, la voce non trapelava nessun
sentimento o intonazione particolare, se si escludeva il pesante
accento che lo etichettava come prodotto non made in USA.
I minuti passavano lenti, ma l'uomo non si decideva ad aggiungere
altro, mentre Gunther stava per perdere la poca pazienza che aveva: che
quello fosse stato uno sbirro in incognito? Scartò
immediatamente l'idea: il buonsenso gli diceva che un tipo così
appariscente non sarebbe mai potuto passare in incognito.
Appariscente, poi? A guardarlo distrattamente, non sarebbe mai sembrata la
parola giusta, ma quel tipo riempiva l'aria con la sua presenza.
Per la prima volta nella sua vita, Gunther sentì il cuore
rallentare i battiti, come un lago increspato che finalmente sta tornando piatto e
limpido come uno specchio.
Non c'era più spazio per la paura, solo per una assurda sensazione di pace e benessere.
"Non dovresti rilasciare così il tuo cosmo, Anil"
Un altro tipo strano si stava avvicinando.
Come l'uomo che aveva chiamato Anil, vestiva uno splendido completo, più chiaro rispetto all'altro.
I corti capelli biondo platino gli conferivano un aura dura, confermata
dal volto freddo e spietato come il ghiaccio. Era anche più
alto di Anil stesso, ma non era tanto questo a spaventare quanto il
fatto che a prima vista si indovinava come il tipo capace di ucciderti
con il semplice respiro.
"Io ho finito. Se non sbaglio, ti avevo chiesto di aspettare alla stazione."
Nemmeno lui era americano. Probabilmente europeo o giù di lì.
L'asiatico non sembrava particolarmente impressionato dal tono
dell'altro, ma almeno sollevò lo sguardo, incrociando i suoi
occhi.
"Scusami. Volevo vedere come era fatta una vera città".
"Hm. Lasciamo perdere, abbiamo altri posti da controllare".
Un ultimo sguardo al ragazzino e finalmente Anil si decise ad andare,
per seguire il suo compagno che nonostante i modi freddi, sembrava
godere della sua fiducia.
Ad una certa distanza, il biondo si decise a parlare.
"E' successo qualcosa, Anil?"
"Quel ragazzino. Non hai notato niente di strano?"
"Nulla di particolare... se non che avrebbe bisogno di una bella doccia, perchè?"
"Nulla... solo una impressione" mormorò, più a sè stesso che all'altro.
"Porca.... che gente!" sibilò Gunther, accorgendosi solo adesso
che aveva praticamente trattenuto il fiato per tutto il tempo in cui
era stato sotto lo sguardo dell'indiano.
"Yoooooo... ? Gun! Bastardo, dove sei?"
"Non urlare, coglione! Sto qua!" gridò in risposta, decidendo all'istante di dimenticare quello che era appena successo.
"Yooo, Gun... lavato il collo? Cambiato le mutande? Sai, ti succedesse qualcosa e finissi in ospedale..."
"Fanculo, pagliaccio!"
"Brutta storia, affidare roba preziosa ai mocciosi... dove andremo a finire?"
Il rumore sordo di una pietra che si frantumava nella mano di Gunther
fece capire a quel pesce piccolo che non era il caso di tirare troppo
la corda: diversi prima di lui avevano osato prenderlo in giro e tutti
erano finiti a fare compagnia al letto per molte, molte settimane.
"Calmo, bello" cercò di conciliare l'altro "Ecco la roba" gli
lanciò una sorta di borsone da squadra di basket, verde e con
una cinghia che permetteva di portarlo appeso su una spalla.
"Finalmente" ringhiò il ragazzino "Se mi dicono qualcosa
dò la colpa e te e poi ti vengo a cercare!" urlò, mentre
l'altro se ne andava agitando con strafottenza una mano.
"Tsk... bastardo".
Protestare non sarebbe servito a niente, quindi si risolse a mettersi
all'opera. Giocando tutto il giorno per quei quartieri, aveva acquisito
una conoscenza impareggiabile sulle strade migliori da percorrere,
specie quando si vuole passare inosservati agli occhi della
"legge".
Eppure, anche passare per i vicoli bui e nascosti della città,
cosa che lo faceva sentire sempre come se ne fosse stato il sovrano,
non lo tranquillizzò del tutto nè gli diede un minimo
barlime di gioia. Aveva ancora davanti a sè gli occhi dello
straniero, neri e luccicanti come una piccola galassia.
"Psst... Gun!"
"Che ca... Leon!" sorrise il ragazzino sorpreso, riconoscendo un vecchio
compagno di giochi, il vecchio Leon dai capelli castani e lo sguardo
serio di chi è cresciuto troppo velocemente.
"Ohi, man... ci sono anche io, aspettate!" un altro tipo con cui aveva
passato la vita, un ragazzino con un giubbino smanicato verde e una
bandana rossa che copriva i lunghi capelli neri e arruffati.
"Ralf! Che fate da queste parti? Non stavate più su?"
"Lavoro, cretino" sorrisero, mostrando i diversi zaini che portavano a loro volta.
I ragazzini si concessero un rapido sorriso complice, che svanì
nell'apprendere il fatto che avrebbero dovuto consegnare tutti la roba
alla stessa persona.
"Ma a che gioco sta giocando, quello?"
Leon si passò la mano dietro la nuca, mentre rifletteva furiosamente.
"Chiedere rifornimenti a tre clan diversi... qui qualcosa puzza!"
"Scusate, colpa mia!"
"Ma che schifo, Ralf!"
Ancora preoccupati, raggiunsero finalmente la loro destinazione, un vecchio drive-in abbandonato.
Solo delle tenui luci riuscivano ad oltrepassare l'alta staccionata di
legno, rinforzata da quando era stato eletto covo ufficiale del
capoccia locale. All'ingresso, due gorilla facevano la guardia, fucili
in pugno, ma senza fare storie e contrariamente alle loro aspettative lasciarono che i ragazzini entrassero.
Era una sua impressione o gli era sembrato che i due si scambiassero un sogghigno complice? Forse era solo paranoia...
-Anche volendo... che potrei fare?- si chiese, il cuore che andava a
mille. Ralf sembrava spensierato, ma Leon doveva condividere più
o meno i suoi stessi pensieri, a giudicare dal viso pù contratto
del solito.
Il capo era più o meno identico a tanti altri che aveva
incontrato, compreso il suo attuale datore di lavoro. La testa rasata e
gli occhiali da sole erano una sorta di status symbol per tipi come
quello: Gunther aveva deciso da tempo che non avrebbe mai toccato i
suoi splendidi capelli blu che lo facevano spiccare al di sopra della
massa.
Sorrise, quasi a volersi ingraziare i tre e invitarli a farsi avanti,
ma il suo più che un sorriso sembrava un taglio netto e sottile
come quello di un serpente.
"Prego, prego, non siate timidi" ghignò "Voi dovreste essere i corrieri, giusto?"
Ad uno schiocco delle sue dita, alcuni dei suoi uomini strapparono gli
zainetti dai ragazzini che esplosero in versi di indignazione, per poi
depositarli ai piedi del capo. Uno di loro, aprendo lo zaino di
Gunther, saggiò la qualità della polvere contenuta in un
sacchetto, per sputarla un attimo dopo disgustato.
"Un taglio di merda, non è nemmeno un terzo di roba, questo! Avevamo chiesto tre quarti, ci prendono per il culo!"
"Aha..." commentò il capo, conciliante, come se si aspettasse
una cosa del genere, per poi voltarsi verso i ragazzini con aria
dispiaciuta.
"Questa è una grave offesa, piccoli miei. I vostri capi ci vogliono fottere, e non è mica giusto, non trovate?"
"Non so di che parlate. Noi consegnamo la roba e basta" lo sfidò
Gunther, prima di essere spedito la tappeto da un calcio arrivatogli da
qualcuno alle sue spalle.
"Ambasciator non porta pena, eh? Mi spiace, piccoli miei, ma qui
è una regola che non vale" sorrise, sadico "penso proprio che vi
riconsegnerò a chi vi ha mandato... tagliati male come questo
schifo, si intende".
"Rispediamoli a rate!" urlò qualcuno, acclamato dagli altri che
risero come pazzi, mentre il loro capo tirava fuori un coltellaccio da
uno degli stivali che indossava.
Inaspettatamente il primo a partire fu Ralf, che si lanciò urlando in
una folle carica contro il capo a testa bassa.
Come se se lo aspettasse, il capo arretrò di un passo per farlo
andare a vuoto, inchiodandolo a terra con una mano per il collo, mentre
Leon e
Gunther venivano tenuti bloccati e tenuti in ginocchio. I due amici,
immobili, furono costretti ad
assistere allo spettacolino del capoccia che affilava il coltellaccio
contro una cinghia e lo passava delicato sulla guancia di Ralf, quasi
carezzandolo, prima di staccargli come se fosse stato di burro un
orecchio.
Gunther non sentiva più niente: le voci dei delinquenti, le urla
rabbiose di Leon, gli strilli acuti di Ralf... tutto stava sparendo
pian piano, lasciando il posto ad una fitta oscurità: il lago
del suo cuore cominciò ad agitarsi come mai prima d'ora,
vorticando furiosamente; dentro di sè sentiva una rabbia mai
provata, una sorta di esplosione, come un fiume di luce che gli scorreva
in ogni singola fibra del corpo.
Fu un attimo, in cui la sua presenza riempì l'aria intorno a
sè, rilucendo come una stella mentre alle voci divertite si
sostituivano mormorii impauriti.
"LASCIALO!" ringhiò Gunther, facendo volare via i suoi aguzzini con la sola forza dell'aria. "STARE!!!"
Non ci fu il tempo di regire, che la testa di quel delinquente prese a ciondolare, il collo spezzato di netto.
Solo per un attimo, il malavitoso si resse ancora sulle ginocchia prima
di crollare a terra dove il suo sangue si mescolò alla polvere
formando una larga pozza.
La breve esplosione di rabbia aveva lasciato tutti intimoriti, ma
furono lesti a riprendersi e a puntare le armi da fuoco contro il
ragazzino.
"Non so che trucco tu abbia usato, bastardo" esclamò il tipo che
aveva controllato la droga "Ma fa un solo passo e ti ritrovi con
più piombo che carne"
"Avevo ragione, a quanto pare" mormorò una voce bassa, mentre fiocchi di neve cominciavano a cristallizzarsi nell'aria.
"Neve? A luglio? Ma che ca..."
Dove prima c'erano solo i ragazzini, ora si stagliavano due alte figure che fissavano con algido disprezzo i delinquenti.
Anil giunse le mani sull'orecchio ferito di Ralf, interrompendo la
perdita di sangue: sembrava che dalle sue mani venisse proiettata una
sorta di luce d'oro, quasi brillante come quella delle stelle, che
mozzò il fiato a Leon e Gunther.
"Ecco fatto. Per l'orecchio perduto non posso fare nulla, ma almeno non perderai più sangue".
"Gr...grazie, signore"
Anil annuì, prima di riprendere il suo posto di fianco al biondo.
"E voi da dove cavolo spuntate? Fateli secchi, ragazzi!"
Ma il freddo, di colpo, si fece più pungente che mai: le armi si
rivestivano in un lampo di una spessa coltre gelida per frantumarsi
nelle mani dei possessori.
"A noi Santi di Atena è proibito usare il cosmo contro semplici
esseri umani, per quanto questi possano rivelarsi infimi e disgustosi.
Tuttavia, non sfidate troppo la sorte o ne pagherete il prezzo."
affermò con fredda superiorità il biondo. Molti, cedendo
più alle sue parole che alla sua tecnica, cominciarono a
scappare, ma altri, incarogniti e sconvolti, si lanciarono in un
disperato assalto.
"Arretra, Milan. Se continui potresti fare loro del male: penserò io a loro."
Senza scomporsi, Anil giunse le mani in preghiera, lasciando che il suo
cosmo si raccogliesse intorno a sè. Diverso dal gelido vento del
nord scatenato dal suo compagno, il suo cosmo era il sole sulle foglie
in una giornata d'estate.
"Tenbu Horin. (Celeste Danza del Prezioso Circolo)" sussurrò.
Una luce accecante investì tutti i presenti: al suo dissiparsi,
i ragazzini si accorsero che i delinquenti erano fermi, immobili come
statue. Alcuni tremavano, agitando disorientati le mani innanzi e
intorno, altri avevano la bocca aperta in un urlo completamente muto.
Sembravano nulla più che burattini retti da fili invisibili.
"Avete riso della sofferenza, vi ho tolto la voce. Non avete udito le
urla delle vittime, vi privo dell'udito. Vi siete deliziati delle
torure, tatto e vista vi hanno abbandonato. Rimanete così, privi
dei vostri sensi, finchè la Dea non decida altrimenti".
La condanna di Anil arrivò, implacabile ed esatta come la giustizia stessa.
"Penso avrebbero preferito una fine più clemente, Anil".
"Non sta a noi scegliere se spegnere le vite. Forse, anche per loro ci sarà speranza dopo l'espiazione".
"Scusate... "
A parlare era stato Gunther, che aveva lasciato Leon ad occuparsi di Ralf.
"Ma voi, chi siete?"
"Noi siamo Santi di Atena, ragazzo" gli spiegò Milan, altero. "E tu potresti essere uno di noi"
"I.. IO!?"
Anil annuì "Quando ci siamo incontrati, ero sicuro di avere
sentito il cosmo agitarsi dentro di te: è evidente che deve
avere reagito in risposta alla nostra presenza, per questo sei stato in
grado di evocarlo, prima. La preoccupazione per i tuoi amici ha tirato
fuori il tuo vero essere".
Il ragazzino arrossì leggermente di fronte ad una spiegazione così "da femminuccia"
"Ed è stata una vera fortuna: se non avessimo avvertito
l'esplosione del tuo cosmo non saremmo mai potuti arrivare in tempo".
"Io... io non capisco niente... Cosmo? Santi?"
"Se vuoi una risposta, seguici. Ti porteremo in Grecia, al Grande
Tempio" concesse Milan "Là, scoprirai se sei degno o meno di
indossare una armatura e diventare anche tu un Santo".
Gunther alzò lo sguardo, fissando stupefatto in cielo. Il
potente sole del Mediterraneo faceva risplendere i marmi bianchi dei
templi e faceva sembrare roventi le alte rocce brune che
racchiudevano il capo di addestramento dei futuri Santi di Atena
Davvero era quella, la Grecia? Anche se erano passati alcuni mesi da
quando era arrivato, comparato a Chicago sembrava sempre un posto
ultraterreno, quasi un altro pianeta.
Aveva scoperto al suo arrivo che nei dintorni del luogo si trovavano
diversi villaggi, i cui abitanti riverivano da tempo immemorabile Atena
e i suoi cavalieri conservando nelle linde e sobrie case ricordi di un
epoca passata; da uno di questi, era stato condotto lungo una lunga e
stretta scalinata, quasi infinita, che li avevano portati nel cuore
delle montagne.
Nè Anil nè Milan avevano parlato molto con lui, dopo il
loro incontro, men che meno per dargli ragguagli sulla vita di un
cavaliere aggiungendo che non sembrava loro corretto; almeno, questo fu
Anil ad aggiungerlo, perchè Milan era più il tipo da
fissarlo sprezzante.
Ora si trovava il mezzo ad un ampio spiazzale rotondo, ricoperto di
marmo, aspettando come di consueto il momento di cominciare con
malcelata inpazienza.
Il semplice abito di lino bianco che indossava era abbastanza fresco
per il clima e non gli spiaceva affatto; tuttavia, quello che di
più apprezzava di quella divisa era la sommaria armatura in
cuoio, semplici sandali e un giustacuore in cuoio che copriva solo la
parte sinistra del torace assieme a lunghi bendaggi dello stesso
materiale avvolti intorno alle braccia.
Portandosi i pugni davanti al volto, sentì l'odore acre del cuoio che gli andava dritto nel cervello, esaltandolo come
non mai, quasi come tornare a respirare profumo di casa dopo una lunga
assenza.
Da diversi sentieri che conducevano a spartane casette disseminate
lungo il pendio del monte, glli altri allievi stavano arrivando alla
spicciolata, ragazzi di
età compresa dai dodici ai diciotto anni; non c'era un periodo
preciso di anni da dedicare all'allenamento, come gli era stato
spiegato: i cavalieri combattono con il cosmo e prima questo viene
risvegliato appieno, prima si potrà ottenere un armatura e
cominciare a fare sul serio. Non erano un esercito, per niente: era il
valore individuale a sabilire chi andava avanti e chi pasteggiava a
pane e polvere.
Il ragazzo aguzzò lo sguardo: su una alta rupe gli era parso di
distinguere un tipo alto dalla testa rasata, scomparso appena aveva
provato a guardarlo direttamente.
"Dove stai guardando, Gunther?"
La voce bassa lo colse di sorpresa: Anil era improvvisamente comparso
al suo fianco quando meno di un secondo prima avrebbe giurato che fosse
distante più degli altri in fondo al viale.
"Gh".
"Non essere in collera, non ne hai motivo. Nessun allievo cavaliere
può avere la pretesa di percepire al primo tentativo i movimenti
di un cavaliere d'oro".
"Grande Anil!"
Gli altri ragazzi del corso li avevano finalmente raggiunti: tra questi
spiccava un rosso che aveva praticamente instaurato un rapporto di
cordiale antipatia con Gunther dal primo momento che si erano visti.
"Grande Anil, cosa ci fate, qui?"
"Sono in partenza per una piccola missione, ma prima volevo vedere la nostra prima leva di aspiranti cavalieri".
Non lo dava mai a vedere e nessuno, non conoscendolo, ci avrebbe mai
scommesso; ma il saggio Anil amava osservare da vicino la loro
crescita, non con l'occhio affettuoso del padre e del fratello quanto
di quello del giardiniere, che vuole che le sue piante crescano dritte
e sane per portare ombra e frutti.
Gunther, al contrario degli altri, non lo ascoltava minimamente,
essendo piuttosto impegnato a girargli intorno per osservare e ammirare
a suo piacimento il grande cubo d'oro massiccio che Anil indossva a mo'
di zaino sulle spalle. Non aveva la minima idea di cosa rappresentasse
la figura scolpita sopra, ma sapeva che l'oro contraddistingueva il
grado più alto tra i cavalieri e che davvero pochi potevano
ambire a tale onore e potere.
-Uhm... Sembra davvero oro, oro vero... magari quando avrò anche
io una armatura così mi rivendo la scatola, chissà se mi
ci compro una moto... o due, se sono fortunato. Ma che cavolo
c'è sopra, una donna? Un armatura hentai?-
Niente di meglio che chiedere spiegazioni
ad Anil stesso, anche se la cosa lo infastidiva.
"Anil, questa è la tua amatura?"
"Grande, Anil, idiota! Non mancargli di rispetto!"
"Arceus, rivoglimi ancora la parola e il massimo che potrai fare è annaffiare i fiori" ringhiò il giovane.
Anil, per evitare che si azzuffassero, cosa molto sgradita al tempio, decise di frapporsi ai due: un
semplice dito sulla fronte bastò per scagliarli via a qualche
metro di distanza.
"Non si litiga tra compagni".
"Ow... è un dito o una barra d'acciaio?" piagnucolò Arceus, mentre Gunther tornava alla carica.
Il Santo guardò gli allievi, pensandoci su. Poi, lasciando
cadere a terra lo scrigno, decise che avrebbe dato loro quello che
stavano anelando silenziosamente: pochi secondi dopo, Anil indossava la
sua armatura d'oro completa, splendente come una gemma fatta di pura luce.
"Quando ci conoscemmo, tempo fa" si rivolse a Gunther, che sembrava
paralizzato "Ho omesso di presentarmi in maniera adeguata. Perdona tale
scortesia. Io sono Anil, cavaliere di Virgo, Santo d'oro protettore
della sesta casa".
Un sospiro strozzato sfuggì dalla gola di tutti i presenti: mai,
in tutta la loro vita, avevano immaginato potesse esistere qualcosa di
simile; un cavaliere d'oro era qualcosa che trascendeva i loro sogni
più folli.
"Se volete, questo è anche un ulteriore motivo della mia visita:
il cammino di un uomo è come un ponte sospeso nel vuoto, che per
reggersi ha bisogno di essere saldamete ancorato a due rive, l'inizio e
la fine. Voi, apprendisti cavalieri, cominciate ora ad attraversare
questo sentiero periglioso; io e i miei compagni siamo sull'altra riva,
rappresentiamo quello che sarete se avrete la forza e la volontà
di perseverare. Ce la farete a raggiungerci, o vi perderete nelle
nebbie a metà strada?"
"... tsk. Esibizionista. Vuole solo mettersi in mostra, il cavaliere della donna" borbottò
a bassa voce l'americano; tutti lo udirono, ringhiando la loro
disapprovazione per quella mancanza di rispetto, ma Anil sorrise.
"Se per te è un incentivo migliore, così sia, Gunther.
Questo è il potere di un cavaliere d'oro, a cui non puoi per ora
nemmeno aspirare".
"Argh! Anil di Virgo" fece, scimmiottando il modo in cui si era
presentato "Non cullarti troppo! Dammi un paio d'anni e ti
costringerò ad ammettere che sono diventato un cavaliere
migliore di te!"
"Aspetto con ansia tale momento" concluse accondiscendente il cavaliere, quasi lasciandosi scappare un breve sorriso.
Le menti che cedevano facilmente all'ira e all'orgoglio erano così facili da manipolare....
Così, il giovane cominciò il suo periodo d'addestramento.
Animato dallo spirito di rivalsa nei confronti del cavaliere della
Vergine e di Milan, che aveva scoperto essere il cavaliere di Acquario,
non interrompeva per un solo giorno gli allenamenti, costringendosi
agli esercizi più massacranti, con il sole e con la pioggia.
Non si accorgeva, che contro la sua stessa volontà il modo di
pensare, di agire dei Santi lo stava plasmando: un vero mondo di onore
e rispetto, non di quello fasullo delle strade dove è solo una
parola e un incrociarsi di pugni; una vita in cui dimostrarsi
più forti, pronti e veloci era tutto, ma che non lasciava spazio
a trucchi o scorciatoie di sorta.
Piano piano, il ragazzino che fumava nelle strade e si divertiva a fare
casino con le moto veniva lasciato indietro, soppiantato dall'uomo che
stava diventando.
Ma se Gunther faceva passi da gigante, gli altri non erano da meno:
ogni giorno, ormai, uno o due dei suoi compagni venivano portati via
per diventare cavalieri a tutti gli effetti e spediti a conquistarsi
l'armatura, ma non si concedeva più di un istante per pensare a
loro; i loro cosmi, paragonati a quello che sentiva proprio, erano
risibili. Si sarebbe stupito che questi potessero ottenere più
di una semplice armatura di bronzo.
Persino Arceus aveva conquistato una armatura, addirittura una
d'argento, quella dell'Auriga, come si era premurato di fargli sapere
presentandosi in pompa magna durante uno dei suoi allenamenti per
pavoneggiarsi; Gunther si era limitato a un ghigno leggermente
sprezzante, così il ragazzo aveva deciso bene di attaccarlo.
Era la prima volta che combatteva contro un vero cavaliere e fu
sorpreso da quanto indossare l'armatura o meno incidesse sulle
capacità di un guerriero: era riuscito addirittura a tenergli
testa per più di dieci minuti, prima che venisse sbattuto al
tappeto come al suo solito sotto gli ochci vigili e nascosti di
osservatori interessati.
"Maledizione, ancora lui" borbottò con disapprovazione Etiènne
"Non passa giorno che non litighi con qualcuno. Uno così
può davvero essere degno di indossare una armatura?" inveì
"Se è la volontà delle stelle, nemmeno tu potrai opporti,
Etiènne di Capricorn" mormorò la donna che lo
accompagnava, assorta.
"Mi perdoni, mademoiselle. Un uomo così irascibile, rissoso,
irrispettoso... A costui non importa nulla di servire la giustizia,
combatte solo per se stesso".
La donna sembrò riflettere alle parole dell'uomo, ma alla fine scosse il capo.
"Ci sono molti modi di perseguire la giustizia, a questo mondo.
Inoltre, ho sempre diffidato degli uomini che affermano a parole di
volere difendere la giustizia. Costoro in genere sono i primi a
ritirarsi quando le cose si fanno serie. Preferisco una persona come
lui... e come te, per inciso: non vi nascondete e siete sempre sinceri
con voi stessi".
Annichilito, l'altro chinò il capo, promettendosi che avrebbe
comunque tenuto d'occhio quel giovane che gli era sempre sembrato tutto
meno che un cavaliere.
Erano ormai passati due anni da quando era stato salvato, quando tornando al
tramonto dal consueto allenamento, incrociò sulla sua strada
Anil e Milan, con indosso le rispettive armature.
Lo sguardo tagliente dei due gli ricacciò le parole sfrontate in
gola: i due gli diedero le spalle, ordinandogli, sommessamente di
seguirli.
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