Anche stavolta, l’ultima parte è scritta in
prima persona.
---
Epilogo
Every
Breath You Take – Scala & Kolacny
Brothers
2027
Sono passati
diciassette anni.
Davide ne ha 41, ed
è cambiato molto da quando studiava per laurearsi, da quando viveva con la sua
famiglia.
E’ cambiato
fisicamente, tanto per cominciare. I capelli sono corti rispetto a quando aveva
ventiquattro anni, e scuri. Sono ancora biondi, ma sono pallidi, meno lucenti.
Nel tempo ha messo su qualche kg, è diventato più robusto. E’ diventato, a
tutti gli effetti, un uomo. Se una volta era semplicemente carino, adesso è
attraente, e sono molte le donne che glielo ricordano quotidianamente. Perfino certe
sue alunne hanno una cotta per lui.
Già, alunne.
Dopo essersi
laureato e specializzato in ingegneria, Davide ha intrapreso la strada
dell’insegnamento. Dopo anni di supplenze ed incertezze, di trasferte regionali
ed extra-regionali, è riuscito ad avere un posto sicuro. Da quattro anni
insegna matematica al liceo Esse di Roma, la città in cui vive.
Dopo la morte di
Camila, Davide è cambiato anche da un punto di vista non fisico. E’ diventato
introverso, chiuso. Ha smesso di sorridere, e di cercare qualcosa che lo
facesse sorridere.
Si è chiuso in se
stesso e nel dolore per due anni. La sua famiglia ha provato più volte ad
aiutarlo, a fargli comprendere che annegare nel dolore non avrebbe riportato in
vita la persona che amava. Neanche Priscilla, che sempre ha avuto su di lui un
buon ascendente, è riuscita a liberarlo dal senso di colpa per non essere
riuscito a salvare in tempo la ragazza di Carovigno.
Per due anni interi
Davide si è crogiolato nella sofferenza e nel ricordo. Ha rivissuto l’unica
notte con Camila fino ad odiarla, quasi. Fino a rivedere frammenti del suo
sorriso e dei suoi occhi azzurri ancor prima di pensare a lei, ancor prima di
iniziare a ricordare.
L’ha cercata a
lungo. Nelle donne con cui è andato a letto dopo quei due anni di letargo,
nelle ragazze che ha incontrato alle feste, all’università. L’ha cercata con
disperazione, fino a che si è rassegnato. Fino a che non ha capito che Camila
era scomparsa per davvero, per sempre, e che niente e nessuno avrebbe potuto
riportargliela. I buchi nell’acqua fatti dalle indagini volte a trovare il suo
assassino non lo hanno aiutato. Chiunque abbia ucciso Camila è svanito nel
nulla, impedendo a Davide di avere risposte e giustizia.
Lentamente, con
l’aiuto della sua famiglia e dei suoi più cari amici, l’allora ragazzo ha chiuso
quel libro e ha provato ad aprirne un altro. Ha provato a dimenticare e a
rifarsi una vita, e dopo numerosi tentativi falliti ci è riuscito.
Undici anni fa ha incontrato
Giovanna, una collega che insegna italiano. All’inizio non le piaceva, non la
trovava neppure simpatica. La considerava snob e superficiale, oltre che
brutta. Ma poi, giorno dopo giorno, ha imparato a conoscerla e ad apprezzare le
sue qualità. Nel giro di un anno si sono sposati (una cerimonia semplice, in
municipio) e hanno comprato casa, un appartamento poco lontano dal quartiere in
cui si trova l’abitazione dei suoi genitori. Con Giovanna, grazie a Giovanna,
Davide è tornato a sorridere.
Il matrimonio,
tuttavia, è durato soltanto sette mesi. A differenza di Simona, sua madre,
Davide non è riuscito ad andare avanti, come invece avrebbe dovuto. Non è
riuscito a rifarsi una vita, ad innamorarsi completamente
di un’altra donna.
Giovanna lo ha
lasciato dopo aver capito che in lui c’erano una solitudine ed un vuoto troppo
grandi per essere colmati da una famiglia felice solo in apparenza o da un
figlio che Davide non ha mai voluto mettere al mondo e che quindi non è mai
arrivato. Davide, a sua volta, si è reso conto che la sua amarezza e il senso
di colpa probabilmente non spariranno mai, e che non può essere di compagnia a
nessuna donna, né tantomeno proporsi come candidato per un futuro felice.
Dopo la separazione
e il divorzio da Giovanna ha avuto altre relazioni, più o meno brevi, ma non si
è più fermato. Non ha più fatto progetti di lungo periodo.
Il ricordo di lei non lo abbandona mai. Qualcuno
potrebbe giudicare il suo attaccamento a Camila non-salutare, e forse avrebbe
ragione, ma a Davide non importa.
Ogni anno, in
occasione del compleanno di Camila, Davide va nel luogo in cui una volta c’era
il suo appartamento, l’appartamento che divideva con Alessia e Ida. Al suo
posto, adesso, c’è uno dei pochi parchi verdi di Roma. La metropoli è cambiata,
e trovare uno spazio dedicato alla natura è praticamente impossibile. Questo è
un parco aperto da qualche anno, dopo la demolizione di alcuni palazzi, fra cui
quello in cui viveva Camila e quello da cui proveniva la musica che loro due
ascoltavano nel giardino. E’ molto ampio, include un piccolo laghetto
artificiale, numerosi alberi e piante di ogni tipo. C’è perfino una zona
dedicata agli animali, una specie di zoo in miniatura.
Ogni anno, Davide
va lì da solo e cammina nei prati, in mezzo alle aiuole. Siede sempre sulla stessa
panchina, e quando questa è occupata aspetta che chi vi è seduto vada via.
Non ne è certo, ma
per lui quella panchina si trova nello stesso punto in cui si trovava la
panchina del giardino abbandonato del palazzo in cui Camila viveva.
Ogni volta, si siede
e resta così per un po’ di tempo, a pensare.
Ogni volta, porta
con sé una piccola barretta al cioccolato. La scarta e la mangia, un minuto
prima di andare via.
Pensa alla ragazza
di Carovigno. Pensa a quando era giovane e spensierato, a quando la sua più
grande preoccupazione era quella di aggiornare la classifica di hockey su prato
sul suo computer. Pensa a quando nascondeva le barrette nel ripostiglio di
casa, in attesa che lei le trovasse.
Ha dimenticato
molte cose, ma certe non riesce a cancellarle. Ricorda ancora il colore delle
ciabattine che usava da bambino negli spogliatoi del campetto di Carovigno.
Ricorda la lunghezza della cintura della giovanissima Camila. Ricorda il
profumo della sua pelle, il sapore dei suoi baci. La felicità che, quella sera,
per la prima e per l’ultima volta, lesse nei suoi occhi mentre facevano
l’amore.
E’ lì anche ora,
Davide, al parco, durante una pausa di lavoro. Il cielo di Novembre è grigio e
carico di pioggia, ma nonostante questo il parco è popolato come sempre. La
temperatura non è bassa, a dispetto del maltempo imminente. Vi sono bambini a
spasso con i genitori, o con le baby sitter, o con i nonni. Vi sono donne che
portano a spasso i cani, uomini e donne che si baciano sulle panchine.
Davide osserva ciò
che lo circonda con attenzione, e ad un tratto scorge due dei suoi alunni
intenti a giocare con un frisbee. Sembra che i due avessero già notato il
professore, perché nel momento in cui Davide gli sorride, i ragazzi smettono di
giocare e si avvicinano, camminando svelti.
“Professore,” dice il primo, un ragazzo basso dai capelli lisci e neri,
e i lineamenti asiatici. “E’ venuto a passeggiare qui?” chiede, sorridendo.
“Non l’abbiamo mai vista al parco,” aggiunge.
“Già,” gli fa eco l’altro, più alto del primo. “Vuole giocare un
po’ con noi? Agli altri non piace il frisbee,” dice.
“Abbiamo anche un pallone, potremmo fare qualche tiro.”
Non è raro che gli
alunni di Davide siano spontanei e amichevoli con lui. Il rapporto con i suoi
allievi è sempre stato molto importante per lui, e dal momento che la sua è una
materia ostica, Davide ha ben pensato di renderla più semplice alleggerendo il
clima, in classe e fuori. Molti dei suoi alunni lo trattano come un vero e
proprio amico, gli confidano i loro problemi e accettano volentieri i suoi
consigli.
Insegnare, per
Davide, non è solo far apprendere una materia, e di questo i ragazzi sono
felici.
“Grazie, Liu,
grazie, Teo,” dice Davide, rimanendo seduto. “Ma oggi
non posso accettare. Ci sono anche gli altri?” domanda poi. “State facendo un
pic-nic?”
“Sì,” risponde Liu, il ragazzo basso. “C’è tutta la terza, compresi i nuovi arrivati. Teo vuole fare colpo sulla
ragazza americana,” dice, dando una gomitata al suo
amico, il quale gliene restituisce una velocemente. “Non ha alcuna possibilità,
glielo dica anche lei, prof. Visto che siamo in tema, hai zero possibilità,” dice allo spilungone. “Anzi, meno zero.”
Davide sorride. “Meno zero non esiste,
Liu. Te l’ho detto centinaia di volte. Visto che siamo in tema, fra
qualche ora riferirò questa sciocchezza ai tuoi genitori. Sono certo che tua
madre sarà felice di sapere di ‘meno zero’.”
Liu fa una smorfia.
“Accidenti, l’incontro con le famiglie. Me ne sono
dimenticato. Aspettatemi qui, devo avvisarli.” Tira
fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e si allontana per telefonare.
L’altro ragazzo, Teo,
ne approfitta e si siede sulla panchina con Davide.
“E’ un idiota,” dice Teo. “Però è simpatico.”
Davide annuisce. “Hai avvisato i tuoi genitori? Anche gli altri,” dice indicando il gruppo di ragazze e ragazzi nascosti
dagli alberi, “hanno dato la notizia a casa, vero? Non fatemi sorprese come
l’anno scorso,” continua Davide. “O vi boccio tutti.”
“No,” risponde il ragazzo. “Stia tranquillo. I miei saranno
puntuali come al solito, e così pure i genitori e le famiglie degli altri. A
dire il vero abbiamo approfittato dell’incontro con i professori per passare un
po’ di tempo insieme, per conoscerci.”
“E per fare colpo
sulla ragazza americana,” dice Davide facendogli
l’occhiolino. “Com’è che si chiama, Angela?”
“Angela,” ripete Teo. “Angela Ryan. E’ carina,
no?”
“Penso di sì,” risponde Davide, osservando la ragazza mora di cui stanno
parlando. E’ seduta ai piedi di un albero con la sua compagna di banco,
un’altra nuova arrivata.
Negli ultimi dieci
anni si è avuta una rivoluzione nella scuola italiana. Gli scambi culturali con
le nazioni europee ed extra-europee si sono moltiplicati, e per questo in ogni
classe ci sono almeno sette o otto differenti nazionalità. A volte le
differenze possono causare dei problemi e delle incomprensioni, ma a Davide
piace che le sue classi siano ricche di giovani provenienti da ogni parte del
mondo. Cina, Brasile, Stati Uniti, Zambia, Germania, Russia. Alcuni vivono a
Roma con la loro famiglia d’origine, ma la maggior parte è ospite di famiglie
che, tramite apposite organizzazioni, si offrono di ospitare i ragazzi durante
il periodo del liceo.
“Secondo me è
spettacolare,” dice Teo. “Peccato che se ne stia
sempre con l’altra, Consuelo. Sembra quasi che le faccia da guardia del corpo.” Il ragazzo sbuffa. “Ha qualche consiglio
da darmi, prof? Lei è una bomba con le donne. Mi dia
un po’ di saggezza.”
Davide scuote il
capo e si lascia andare ad una risata. “Teo, Teo, Teo.
Prima o poi dovrete dirmi chi mette in giro certe voci sul mio conto.”
Teo sorride. “Sul
serio, prof. Mi dia qualche consiglio, la prego.”
Davide appoggia le
mani sul legno dipinto della panchina e riflette. Desiderava un momento per sé,
un momento per ricordare Camila, e invece si ritrova a dare consigli d’amore ad
un ragazzo che potrebbe essere suo figlio.
“Non cercare a
tutti i costi di apparire,” gli dice ad un tratto. “Angela
è sveglia e intelligente, e non ha bisogno di un ragazzo che si prostri ai suoi
piedi come fai tu ogni giorno. Ti ho visto,” aggiunge
subito. “Ti offri sempre di aiutarla a fare i compiti, sei sempre disponibile
per farle da guida in città. Rallenta, Teo. Lascia che
lei si accorga di te, non asfissiarla.”
“E’ quello che gli
sto dicendo dall’inizio dell’anno, prof,” interviene
Liu, che ha finito di parlare con sua madre e che ha ascoltato tutta la
conversazione. “Devi mantenere un profilo basso, farti desiderare… un po’ come
faccio io con Consuelo,” aggiunge, facendo
l’occhiolino ad entrambi.
“Perché vi ostinate
a chiamarla Consuelo?!” esclama Davide. “Non è quello il
suo nome.”
“E’ colpa di
Gianmarco,” dicono i due contemporaneamente. “E’ lui
che dà i soprannomi ai nuovi arrivati, e a lei è toccato
Consuelo,” conclude Teo.
“Perché? Perché viene dal Brasile?” Davide osserva il vuoto con perplessità.
“Gianmarco sa che in Brasile si parla portoghese, vero? Sa che Consuelo è un
nome spagnolo, vero?”
“Credo di no,” risponde Liu. “Ma ormai il soprannome ha attecchito, e
poi Consuelo non dice nulla.” Si volta verso la ragazza bionda seduta accanto
all’americana. “E’ un angelo,” sospira.
“Smettete di
chiamarla Consuelo,” dice Davide con un tono di voce
serio, da professore e non più da amico. “Ha un nome, ed è anche un bel nome:
usate quello.”
Teo e Liu si
guardano per un attimo e abbassano la testa.
“Adesso andate a
divertirvi,” dice Davide, tornato ad essere un amico.
“Ci vediamo più tardi a scuola. Liu, i tuoi genitori verranno?”
“Sì,” risponde immediatamente il ragazzo. “Grazie per avermelo ricordato, prof.”
“Di nulla. Fatemi
un favore, ragazzi: ricordatelo agli altri. Magari qualcuno ha dimenticato di
dare la notizia a casa. L’incontro di oggi è il primo dall’inizio dell’anno, e
quindi è importante che i genitori e le famiglie ospitanti partecipino. D’accordo?”
“Tutto chiaro, prof,” dice Teo. “Grazie per la chiacchierata. A più tardi.”
Davide li guarda
mentre tornano dai loro amici e sorride.
Sono un fallimento in tante cose, pensa. Ma
nel mio lavoro me la cavo.
Controlla
l’orologio, e si accorge di essere in ritardo. La chiacchierata con i suoi
alunni gli ha portato via il tempo che avrebbe voluto dedicare a Camila e alla
barretta di cioccolato.
Buon compleanno, Camila, pensa mentre si avvia al parcheggio. Anche se a volte mi piace immaginarti
invecchiata, come me, ai miei occhi resti sempre la ragazza sorridente della
foto che trovai in quella valigia.
Continui a mancarmi.
***
Molte cose sono
cambiate in diciassette anni, ma gli incontri fra genitori e insegnanti avviene
come avveniva una volta.
I registri e le
lavagne sono elettronici, e alcune lezioni possono essere seguite anche da
casa, tramite il computer, ma tre volte all’anno, all’inizio, a metà strada e
alla fine, insegnanti e famiglie si incontrano faccia a faccia per discutere
degli studenti, dei loro progressi e delle loro (eventuali) lacune.
I professori si
dividono in due o tre classi, scelgono un banco che farà loro da ‘studio
privato’ e attendono che i genitori. Questi si avvicinano ai banchi uno alla
volta, proprio come accadeva quando lo stesso Davide frequentava il liceo.
“Grazie a lei,
signora Di Biasi,” dice Davide, stringendo l’ennesima
mano. L’incontro è iniziato da due ore, e lui segue quattro classi: i genitori fanno
il via vai dall’aula in cui Davide ha sistemato il suo banchetto.
La donna gli
sorride, indugiando più del dovuto sull’affascinante professore di matematica. “Grazie a lei, professore. Buona serata.”
“Grazie, buona
serata,” dice Davide, ricambiando il sorriso, ma senza
indugiare. Si concentra sul registro elettronico, invece, per passare
velocemente alla pagina relativa a Teo, il ragazzo invaghito della compagna di
classe americana. Davide ha notato che i suoi genitori sono in attesa che la
signora Di Biasi vada via.
“Teo
è un ragazzo in gamba.
Vorrei averne trenta come lui,” dice dopo aver
salutato con una stretta di mano i coniugi Carraro. “Il programma di quest’anno
prevede alcune…”
I minuti passano; i
genitori si susseguono, accompagnati, a volte, dagli stessi figli, che li
indirizzano ad un professore piuttosto che ad un altro.
Davide parla con la
famiglia ospitante di Angela Ryan, e con la madre di Liu. Consiglia a due
famiglie l’aiuto di insegnanti privati per i rispettivi figli, e impreca
sottovoce quando deve riavviare il registro elettronico a causa di un problema
della rete centrale.
Se ne sta seduto
nel banchetto, basso per le sue lunghe gambe, e tiene gli occhi sulla tastiera
dell’aggeggio, in attesa di poter reinserire il suo codice di sicurezza
personale.
“Professore?
Professore, la disturbo?”
“No,” dice lui, riconoscendo la voce della sua alunna. Digita
rapidamente il PIN e sorride quando il registro prende di nuovo vita. “Ecco
fatto.” Sospira e alza gli occhi, pronto ad accogliere la famiglia della
ragazza. “Ciao, Az…”
La voce gli muore
nella gola quando la vede. Non la ragazza, non la sua alunna. Non Azzurra, dai suo compagni soprannominata Consuelo. No. Non lei.
Ma lei. Lei.
Per anni, Davide ha
creduto di vederla in giro per la città, nei volti delle altre donne, sulle
pagine dei giornali. Per anni si è fermato in mezzo alla strada, convinto di
aver visto un fantasma. Desiderando
di vedere un fantasma.
Ora quel fantasma è
lì, davanti a lui, a pochi passi da lui. E non è un fantasma, no.
E’ lei. E’ vera. E’
reale, non è un sogno.
E’ Camila.
“Professore, lei è
mia madre.” Azzurra gli sorride, e quando lo fa a Davide manca il respiro.
Accade velocemente,
ma ai suoi occhi appare al rallentatore. Osserva i capelli biondi della
ragazza, i suoi grandi occhi azzurri e le labbra piene, proprio come quelle di…
“Professore?
Professore?”
“Azzurra, il professore
ci ha viste.” E’ lei a parlare. E’ lei, Camila. “Perché non
vai a chiedere ad Angela se vuole venire a cena da noi, stasera? Io
resto qui a parlare col tuo insegnante.”
“No!” dice la
ragazza sottovoce. “Ti ho detto che devo rimanere anch’io, altrimenti farai
confusione con gli altri profes-”
“Azzurra, vai!”
esclama Camila, guardando sua figlia negli occhi.
La ragazza abbassa
la testa e sbuffa. “Lui è il mio professore di matematica,”
dice, arrendendosi. “Quella lì è l’insegnante di italiano. Non fare confusione, ok?”
“Ok,” risponde Camila, sorridendo. “Ora vai. Ci vediamo fra
poco.”
“Arrivederci,
professore,” dice Azzurra. “Ci vediamo
domani in classe!”
Davide è ancora
seduto. Non ha avuto la forza di alzarsi. Non ha avuto neanche la forza di parlare,
di salutare Azzurra.
Osserva la donna
che gli è di fronte, e ancora non crede ai suoi occhi.
Forse sto sognando. Forse si tratta davvero
di un fantasma, di una visione.
Non può essere lei. Lei è morta. L’ho visto
con i miei occhi, pensa. Sono stato sulla sua tomba, in Germania. Ho pianto la
sua morte. Non può essere lei, no.
“Sono Elena Ado
Silva. Sono… Sono la madre di Azzurra.”
Camila allunga la
mano verso Davide, e lui si accorge immediatamente che sta tremando.
Lui osserva le dita
sottili, le unghie curate, il tremolio silenzioso di un orologio sottile. Segue
la mano verso l’alto, verso il braccio e verso il volto della donna che gli è
di fronte.
E in quel momento
trova la forza per alzarsi.
“Elena…” dice, a
voce talmente bassa che neppure lui riesce a sentirsi.
“Elena Ado Silva,” ripete lei. Fa un passo verso il banco, la mano ancora
tesa nella direzione di Davide. “Sono lieta di… di conoscerla,
professore. Mia… mia figlia parla spesso di lei.”
Forse sto
sbagliando. Forse non è lei. Forse si tratta di una incredibile
somiglianza. Forse sono semplicemente suggestionato dai ricordi, che mi stanno
consumando sia l’anima che il cervello.
In fondo non si
chiama Camila, ma Elena.
In fondo ha i
capelli corti, molto corti, mentre Camila li aveva lunghi.
“Io… lei…” Davide
si arrende quando capisce che non riuscirà ad emettere alcun suono
comprensibile, e allunga istintivamente la mano verso quella della madre di
Azzurra. Non arriva neanche a sfiorarla, che Camila l’afferra con irruenza,
come se non aspettasse altro.
Ed è così, in
effetti. Non aspettava altro. Da diciassette anni.
Alcuni parlano di
scintille, in situazioni come queste. Alcuni parlano di scosse elettriche che
da una mano passano all’altra.
Camila non avverte
né le scintille né la scossa. Camila avverte una sensazione di calore, di pace.
Si sente, anche se forse è strano ammetterlo, di nuovo a casa.
Ed è per questo
che, stringendo con le dita sottili la mano di Davide, si lascia andare, si
rilassa.
Abbassa la testa
lentamente, e senza rendersene conto inizia a piangere. E’ un pianto
silenzioso, il suo. Invisibile agli occhi dei genitori che passano loro
accanto, ma non a Davide, che si accorge immediatamente delle lacrime sulle sue
guance.
La presa della sua
mano diventa allora più stretta, e nell’improvviso stupore degli occhi di
Camila… capisce.
“Sei tu,” sussurra. “Sei… sei tu.”
Camila può solo
annuire velocemente e abbozzare un sorriso. “Sono io,”
dice sottovoce.
Il cuore di Davide
esplode per la gioia.
E’ viva. Sei viva.
Vorrebbe
abbracciarla, stringerla a sé, gridare. Chiederle cos’ha fatto per diciassette
anni, com’è possibile che sia morta e poi risorta. Vorrebbe chiederle di sua
figlia.
Tutto ciò che
riesce a fare, però, è accarezzarle il dorso della mano con il pollice.
Lentamente. Con dolcezza.
Camila riesce a
calmare le lacrime e a riprendere le redini della sua voce.
“Professore…”
Non sono un professore. Sono Davide.
“Professore, io…”
Lascia andare la mano di Davide rapidamente, ma con garbo. Senza che lui o gli
altri presenti se ne accorgano, Camila afferra dalla giacca un biglietto
ripiegato, e glielo porge.
Davide accetta il
pezzo di carta senza capire.
“Ti prego,” gli dice lei, avvicinandosi fino quasi a sfiorargli il
viso. “Leggilo, e fai come c’è scritto.”
Davide non riesce a
dirle di non andare via. Camila è più veloce nell’allontanarsi e nel
disperdersi nel gruppetto di alunni e genitori. Apre allora il biglietto, il
cuore al limite dell’esplosione.
Vediamoci al parco di via
Giolitti fra un’ora. Ti prego.
***
Il parco di via Giolitti
è quello in cui Davide ha trascorso parte del pomeriggio, quello in cui ha
incontrato i suoi alunni. Quello in cui si reca ogni anno per celebrare il
compleanno di Camila.
La trova lì,
Davide, seduta su una panchina diversa da quella in cui è solito sedersi ogni
volta.
La vede
immediatamente, perché è lei a farsi vedere. Si alza e si sbraccia nella sua
direzione, quando si accorge che lui è arrivato.
Non un’ora dopo,
come c’era scritto nel biglietto. Ventisei minuti dopo. Il tempo necessario a
lui per fingere un’urgenza e per correre in auto fino al parco. Il tempo
necessario a lei per riportare a casa Azzurra e recarsi al parco ad attendere
l’arrivo di Davide.
Ora che le va
incontro, Davide può osservarla meglio, meglio di quanto ha fatto a scuola.
Camila indossa un
paio di pantaloni aderenti, neri, e un paio di scarpe molto basse, verdi e blu.
Verde è anche il dolcevita stretto che indossa sotto
una stola nera dai bordi blu. I capelli sono corti, e le punte sono più chiare
delle radici. Tendono al caramello.
Quando la
raggiunge, si ferma a pochi passi da lei.
Ancora una volta
vorrebbe riuscire a parlare, a farle tutte le domande a cui ha pensato per
quasi vent’anni.
L’abbraccia,
invece. Riempie la distanza che li separa con due passi, e chiude le braccia
dietro il suo corpo esile.
E’ come scontrarsi
con un’onda. E’ come lanciarsi su un letto di piume.
Camila risponde
all’abbraccio gettando a terra la borsa che aveva fra le mani, per stringerlo
come si deve, per accarezzargli la schiena, le spalle.
Piange, Camila. Il solito pianto silenzioso e
invisibile, che negli anni ha collaudato e perfezionato. Un pianto simile ad un
lamento, un pianto che solo Davide riesce ad avvertire.
E proprio quando è
stretto a lei, Davide ritrova la sua voce. “Sei viva,”
sussurra. “Sei viva.”
Si scosta per
guardarla in viso. Gli anni sono passati anche per lei. Piccole rughe di
espressione disegnano il contorno degli occhi e quello delle labbra. Il viso è
ancora rigoglioso, ma nei suoi occhi c’è sempre quel velo di malinconia, di
turbamento, che Davide ha imparato a conoscere e ad amare.
Le sue labbra sono
bagnate dalle lacrime e curvate in un sorriso emozionato, un sorriso pieno di
speranza.
“Non sei morta,” dice Davide. “Non sei morta.”
Camila continua a
sorridere. Gli prende le mani, le stringe. Se le porta al petto, sul viso.
Cerca un contatto
che ha sognato, immaginato e desiderato per diciassette anni. Lo cerca e lo
trova, perché Davide l’accarezza, facendosi sopraffare dall’emozione e dalla
commozione.
“Sei
viva,” ripete lui, come per esorcizzare la triste possibilità che si
tratti di un sogno.
Camila si limita ad
annuire e a sorridere, mentre cerca anch’essa di realizzare
che è tutto vero, che non sta sognando.
***
“E’ stato Umberto a
rapirmi.”
Camila e Davide
sono ora seduti sulla panchina. Si tengono per mano.
Dopo alcuni istanti
di commozione per entrambi, è stata lei a prendere la parola.
“Voglio raccontarti
tutto,” ha detto. “Devo raccontarti tutto, dall’inizio.”
Davide ha annuito,
senza lasciare la sua mano.
“E’
stato Umberto a rapirmi.
Lui e i suoi amici. E’ a causa loro che sono scappata dalla Basilicata,
vent’anni fa. Sono scappata per fuggire da loro. Erano ricettatori.
Trafficavano in armi e droga. Erano strozzini. Scappai dalla Basilicata con il
desiderio di rifarmi una vita, di andarmene dall’Italia. In quei tre anni a
Roma ho lavorato per mettere i soldi da parte e andarmene in Brasile. Non
parlavo a nessuno di me, non dicevo a nessuno che ero sposata… perché ancora lo
ero, all’epoca. Ero davvero sposata con Umberto.
“Furono loro a
rapirmi mentre camminavo con Bilbo.”
Camila parla
lentamente, e Davide ha subito l’impressione che lei abbia provato e riprovato
questo discorso, questa lunga confessione. Non sbaglia,
Davide.
“Mi portarono a
Sabaudia. Mi tennero chiusa a chiave. In una casa sul lago, per mezza giornata,
per cercare di convincermi a seguirli. Volevano che tornassi in Basilicata, che
tornassi a fare la moglie muta e sorda… la moglie che ero stata negli anni in
cui… negli anni in cui fingevo di non vedere ciò che Umberto faceva. Mi dissero
che se non li avessi seguiti mi avrebbero uccisa… e avrebbero..
avrebbero fatto del male anche a te. Mi dissero che ti tenevano d’occhio, che
erano pronti ad ucciderti.”
Camila alza gli
occhi per guardare quelli di Davide. In essi legge dolore e meraviglia.
“Decisi
di andare con loro.
Decisi che avrei lasciato Roma pur di proteggere te e la tua famiglia. Accettai
di tornare con Umberto. Volevo farlo, ero pronta a farlo, a non… a non vederti
mai più. Tutto, pur di assicurarmi che saresti… che non ti avrebbero fatto del
male. Ma poi… poi mi hanno uccisa. O almeno… o almeno hanno creduto di… di
avermi uccisa.”
Si ferma per un
attimo, strofina la punta del dito indice sotto al naso.
“Seppero
che eri andato alla Polizia, e hanno avuto… hanno avuto paura. Si sono sentiti in pericolo. Hanno capito
che ero… ero solo un rischio, per loro. Volevano solo che tenessi la bocca
chiusa, che non raccontassi a nessuno dei loro affari. E allora decisero di
uccidermi. Entrarono nella camera in cui mi tenevano rinchiusa,” dice, le dita che si chiudono con forza attorno a quelle
di Davide. “Carmelo mi tenne ferma. Federico sparò.”
Parole secche, sussurrate, ma allo stesso tempo lame roventi per il cuore di
Davide.
“Non ricordo niente
di ciò che è successo dopo,” continua Camila. “Mi sono
risvegliata in ospedale dopo l’intervento, e accanto a me c’era l’ispettore
Fermi.”
Il nome non è
nuovo, per Davide. “Fermi?”
“Fermi,” gli fa eco lei. “Lo stesso ispettore che si occupò della
tua denuncia.”
“Ma… Ma come…”
“Umberto e i suoi
amici mi portarono al lago. Mi hanno gettata nell’acqua, con l’intento di far
sparire il mio cadavere. Non sapevano, però… Non sapevano che lì vicino,
nascosta dagli alberi, c’era un’auto con dentro un uomo e una donna. Erano
appartati nel bosco per fare l’amore,” dice con un
mezzo sorriso, “e si sono allarmati quando hanno sentito lo sparo e quando
hanno visto il mio corpo nell’acqua. Hanno aspettato che l’auto dei tre
ripartisse, e mi hanno salvata. Ero viva. Ero ancora viva.”
L’ennesima lacrima muta si ferma sulle sue labbra. “Mi hanno portata in
ospedale, hanno chiamato la Polizia. Mi
hanno salvata.”
“Ma Fermi…
l’ispettore…”
Davide è sotto
shock.
“La donna che mi ha
salvata era sua moglie,” dice Camila, alzando gli occhi.
“Quante sono le probabilità che una cosa del genere possa accadere? Quante sono
le probabilità che la donna che ti salva la vita è la moglie dell’uomo che ti
sta cercando?”
Davide è senza
parole.
“Quella donna,
Pamela, telefonò a suo marito nonostante lo stesse
tradendo prima di salvare me. Chiese a lui cosa fare del mio corpo, dove
portarmi. Era agitata, spaventata. Fermi ha collegato i punti solo quando mi ha
vista in ospedale, a Roma.”
“A
Roma? Eri…
Eri a Roma?” chiede Davide, stavolta ad alta voce.
Camila annuisce. “Il proiettile mi ha sfiorato il cuore. Per estrarlo sono servite
cinque ore di intervento. Fermi era lì, al mio risveglio, il giorno dopo. Assieme
ad un medico. Mi dissero che ce l’avevo fatta. Mi dissero che mi sarei rimessa
in sesto. Mi dissero che il mio era un miracolo.
“Fermi
voleva interrogarmi.
Voleva chiedermi i nomi dei miei rapitori, voleva che gli raccontassi tutto, ma
prima… prima di parlare con lui parlai con un medico… una donna. E fu allora che… fu allora che seppi di…” La voce di Camila è rotta
dall’emozione. I suoi occhi sono lucidi. “Mi disse che
ero incinta. Mi disse che avevano fatto gli esami del
sangue, e che…” Si ferma di nuovo, inspirando profondamente prima di andare
avanti. “Mi consigliarono di prendermi del tempo per pensare al da farsi. Mi dissero che… Mi dissero
che avrei dovuto raccontare tutto alla Polizia, per permettergli di… di trovare
ed arrestare colui che…” Camila inizia a piangere, stavolta singhiozzando.
I suoi movimenti, quando cerca il suo fazzoletto in borsa, sono rapidi e
precisi. Si asciuga gli occhi e il naso, inspira profondamente prima di
riprendere a parlare.
“Pensavano
che mi avessero stuprata.
Ne erano convinti, tutti, ma io… io sapevo che… che non era così. E in quel
momento, quando seppi di essere incinta… Ero sopravvissuta, Davide, ed ero… ero
incinta… ero incinta, ed era… era tuo.”
Davide lascia
andare la mano di Camila come se fosse una pietra incandescente.
“Azzurra… Azzurra
è… mia figlia?”
“Sì,” dice lei. Gli sorride. “E’ tua figlia.
La mia prima ed unica figlia.”
Al sorriso di
Camila non corrisponde quello di Davide. Lo shock non gli permette di elaborare
le informazioni. Camila è viva. Ho una
figlia. Abbiamo fatto l’amore due volte. Camila è sopravvissuta. Le hanno
sparato. Fermi sapeva.
Quando le parla, lo
fa per chiederle di lui, dell’ispettore. Non di Azzurra. “Perché…
Perché non me lo hai mai detto? Eri a Roma, e Fermi… lui venne a casa
mia, lui venne a dirci che-”
“Fermi mi ha
aiutata,” interviene Camila. “Dopo aver parlato con i
medici, capii di avere un’unica possibilità.”
“Sparire?”
“Sparire,” gli fa eco lei. “Non potevo rimanere a Roma. Non potevo
rimanere in Italia. Non potevo rischiare di nuovo di… Non potevo rischiare di
nuovo che mi trovassero. Avevo… Ero… Ero incinta.”
“E quindi hai finto
la tua morte.” Le parole di Davide sono spente, vuote. Ritira la mano da quella
di Camila, abbassando gli occhi.
“Fermi mi disse che
non sarebbe stato facile inserirmi in una programma di
protezione. Mi disse che, se anche ci fosse riuscito, non avrei comunque potuto
lasciare l’Italia. Io allora lo supplicai,” dice
Camila, cercando la mano di Davide, ma senza trovarla. “Lo supplicai di farmi
scappare, di lasciarmi libera di andarmene. Gli diedi i nomi dei tre in cambio
della mia morte. E lui… E lui mi fece morire.”
“Ho saputo della
tua morte guardando il telegiornale,” dice Davide,
amaro. “Ero… Io… E tu invece eri viva.”
Camila ignora il
tono ferito della sua voce, e continua a raccontare. “Fermi
organizzò un finto ritrovamento, chiamò un suo amico giornalista per filmare
tutto, per dare a Umberto e ai suoi amici l’impressione che… che fossi morta
davvero. Avvisò i miei genitori, che non hanno mai vista…”
“Sono andato in
Germania,” interviene Davide con durezza. “La mia
famiglia si offrì di pagare per il funerale, e i tuoi genitori accettarono. Tennero
il funerale senza avvisarci, e io andai in Germania tre settimane dopo. Ho
pianto sulla tua tomba,” dice, senza alcuna emozione
nella voce. “Chi c’era in quella bara?”
“Probabilmente
nessuno,” sussurra Camila.
“I tuoi genitori lo
sapevano? Chi lo sapeva?”
“Nessuno,” dice lei. “Soltanto io, Fermi e sua moglie, che ha sempre
mantenuto il segreto.”
Fra i due cala il
silenzio.
Per Davide ci sono
tante informazioni, tante notizie da incamerare, e Camila lo sa. Per questo
motivo gli lascia il tempo per riflettere, prendendosi una pausa di qualche
secondo.
Davide si alza in
piedi e prende a camminare davanti alla panchina.
“Perché non me
l’hai detto?” chiede ad un tratto, quando si rende conto che è questa l’unica
cosa di cui gli importa. “Perché non mi hai detto che eri incinta? Perché hai scelto di morire?”
“Per proteggere il
figlio che avevo dentro,” risponde subito, alzandosi e
raggiungendolo. “Per proteggere te, per proteggere me. Non sarei mai potuta
rimanere a Roma, con l’incubo di essere rintracciata di nuovo. Non avrei
vissuto da persona sicura, non avrei potuto assicurare a nostra figlia la
sicurezza di cui…”
Davide interrompe
le sue parole con un gesto della mano, dandole le spalle.
Camila si ritira,
tornando a sedersi. Sapeva che non sarebbe stato facile spiegargli i motivi che
l’hanno spinta ad andarsene. Sapeva di non potersi aspettare assoluta
comprensione.
“Ho usato i miei
risparmi per andare in Brasile,” dice ad un certo
punto. Ha bisogno di raccontare, e vuole che lui sappia. “Dissi
a Fermi del mio libretto quando lui mi fece capire che la Polizia non avrebbe potuto
aiutarmi economicamente. Andò all’appartamento che era lì,” dice, indicando il punto del parco in cui sorgeva il
palazzo, “e prese il libretto dei risparmi. Con quello, dopo una settimana in
ospedale, partii per il Brasile.
“Ho vissuto in un
ostello per i primi due mesi. Non conoscevo nessuno, non parlavo il portoghese.
Ho fatto la cameriera, ho fatto la lavapiatti.” Davide
si volta, la guarda. “Poi mi sono trasferita a Guaratinga, a sud sulla costa, e
ho iniziato a lavorare in una fabbrica che produceva cacao.” Si ferma,
trattiene il fiato prima di continuare. “Mi sono sposata.”
Davide impallidisce.
“Sei… Sei sposata.”
“No,” sussurra lei. “Non più. Martim era il figlio dei
proprietari della fabbrica di cacao,” riprende. “Aveva
quarant’anni, all’epoca. Si innamorò di me, e continuò ad esserlo quando gli
dissi che ero incinta. Continuò ad esserlo anche quando gli raccontai la mia
storia. Si offrì di aiutarmi, di sposarmi, di darmi una casa, una vita normale.
Si offrì di fare da padre ad Azzurra.”
“E tu hai accettato,” dice Davide in un respiro.
“Ero sola,” risponde Camila. “Ero all’ottavo mese
di gravidanza, e non avevo nulla. Nulla da dare a mia figlia, nulla di
meglio di ciò che i miei genitori avevano dato a me. Dissi a Martim che lo
avrei sposato e che sarei stata sua moglie, ma gli dissi anche che non l’avrei
mai amato. Che non avrei mai potuto amarlo. Lui accettò,”
dice con un sospiro. “E’ stato un uomo magnifico,”
continua. “Un marito unico, un padre… un padre impeccabile.
Dopo la nascita di Azzurra ho iniziato a studiare. Sono diventata fotografa,” dice. “Lavoro per una rivista di moda brasiliana,
adesso.” Prova a sorridere, ma non ci riesce. Guarda gli occhi di Davide, e in
essi non legge più lo stupore, ma la delusione, l’abbattimento. Si sforza, ciò
nonostante, di continuare.
“Martim
è morto due anni fa, a causa di un infarto. E’ stato allora che ho deciso di ritornare in Italia. Ci
avevo già pensato, in passato, ma lui me l’ha sempre impedito. Non voleva che rischiassi di trovarmi in pericolo, non voleva che…”
Si passa una mano sul viso, per catturare le lacrime. Resta seduta,
mentre Davide resta immobile. “Non ti ho mai cercato, in
tutti questi anni. Non sapevo così avrei scoperto sul
tuo conto, non sapevo cosa… Non avevo idea di come avrei fatto a dirti di
nostra…” Si alza, gli va accanto. Non accarezza le mani di Davide come
ha fatto prima, non lo sfiora neppure. Capisce, dai suoi occhi, che lui la sta
rifiutando.
“Ti credevo morta,” dice, le labbra che tremano assieme al resto del corpo.
“Ho pianto per te, mentre tu eri qui, a Roma. Viva. Te ne sei andata, ti sei
rifatta una vita. Hai… Hai avuto una figlia. Non riesco a guardarti,” dice, abbassando gli occhi. “Non posso guardarti.”
Arretra verso
l’erba, sollevando le mani per proteggersi. Non da Camila, ma da ciò che il suo
racconto significa.
“La mia vita si è
fermata in quel momento,” dice Davide. “Quando ho sentito il giornalista dire ‘Il corpo di Camila Romano è
stato ritrovato nel lago di Sabaudia’. In quel momento,”
dice, il sapore della lacrime sulla lingua, “io sono morto con te. Sono
annegato nel senso di colpa, per non averti salvata, e nel dolore per la tua
morte. E tu vieni a dirmi che eri viva? Che hai sposato un produttore di cacao?
Che sei diventata una fotografa? Io ho pianto sulle tue fotografie. Le ho
esposte, le ho mostrate al mondo, e ho pianto su ognuna di esse. Ho pianto perché sapevo che non avrei mai più sentito la tua voce o
visto i tuoi occhi, e tu… e tu eri… Ora vieni a dirmi che hai avuto una vita
piena, che hai avuto un marito magnifico e che Azzurra ha avuto un padre che…”
Si ferma. Si copre il viso con le mani. Impreca. “Non hai mai pensato a me?”
chiede. “Non ti è mai passato per la testa di come… di cosa…” Scuote il capo.
La guarda.
Camila piange in
silenzio e non dice nulla. Sa che non può dire nulla, sa che non c’è nulla da
dire.
“Perché sei
tornata?” chiede Davide, con durezza. “Che cosa pretendi, adesso? Che cosa vuoi
da me, adesso? Vuoi dirmi che ho una figlia? Bene, me l’hai detto. Puoi anche tornartene in Brasile.”
Scosso dallo shock,
dalla rabbia, dalle lacrime, Davide si allontana da lei e prende a camminare
verso l’uscita del parco.
“No!” esclama Camila,
inseguendolo. “Non te ne andare, no! Davide!” Lo raggiunge correndo, afferrandogli la mano ed
abbracciandolo.
E’ un abbraccio
diverso da quello di prima. E’ un abbraccio a senso unico, visto che le mani di
Davide restano ferme. E’ un abbraccio con cui Camila cerca di impedirgli di
lasciarla, di andarsene.
Si aggrappa a lui,
e gli parla. Senza lasciarlo, senza guardarlo negli occhi. Gli parla
all’orecchio, stringendolo a sé.
“Fra
vivere e morire ho scelto di morire, e lo farei di nuovo pur di proteggere te e
Azzurra. Lo farei di
nuovo. Ti ho pensato ogni giorno. Ogni momento. Sempre. Sempre. Ogni volta che
guardo Azzurra… E’ il tuo ritratto. Hai i tuoi capelli, ha il tuo sorriso. E’
curiosa come lo eri tu da bambino.
“Non
pretendo che tu mi ami ancora, o che sia disposto ad accettare me, amare me o…
o nostra figlia. Non ho
mai avuto l’opportunità di dirti che ti amavo … fino ad ora. Ti amavo, Davide. Ti amo. Me ne sono andata per proteggerti e
per proteggere Azzurra. Ma ti amavo. Ti ho sempre amato. Ti amo.” La mano le trema,
quando l’avvicina ai suoi capelli. Li accarezza per un breve momento. Ne sente
il profumo dolce.
Prova ad
allontanarsi, ma lui è più veloce e riesce a trattenerla. Scosta il capo per
guardarla. “Anch’io ti amavo,” dice. “E una parte di
me continua ad amarti. Però… però non sei tu
la donna che amo. Io non provo nulla per Elena
Ado Silva. Non la conosco, non so chi è, non è... Camila Romano, la ragazza
di Carovigno: è quella la persona che amo. E’ lei. Non tu, non
Elena.” Pronuncia il nome con repulsione. “Io non posso… Dopo diciassette anni,
Cami… Elena,” si corregge.
“Hai aspettato diciassette anni per dirmi che ho una figlia. Hai aspettato
diciassette anni per dirmi che non sei morta.”
Davide sposta la
mano con cui tiene ferma Camila. Si allontana, fa un passo indietro.
“Camila Romano è
morta diciassette anni fa,” le dice. “Tu non sei lei.
Io non ti conosco, Elena. Addio.”
***
“Mamma, sei sicura
di stare bene?” Azzurra entra nella mia camera da letto prima di andare a dormire.
Indossa già il pigiama, e il profumo dello shampoo che ha usato dopo cena
riempie l’aria.
“Sì,” dico, fingendo un sorriso. “Sono solo un po’ stanca.”
“Sicura? Non sei
preoccupata per la mia nuova scuola, vero? I professori hanno davvero parlato
bene di me?”
“Certo,” rispondo. “Sono tutti molto contenti del tuo inizio, e di
come ti sei integrata con i compagni di classe. Tranquilla,”
aggiungo. “Ho solo un po’ di mal di testa.”
“Va bene,” dice lei, camminando fino al letto per darmi un bacio.
“Io vado a letto, allora. Notte, mamma.”
“Notte, tesoro.”
L’abbraccio come faccio di solito, stringendola come se il vento stesse per
portarla via. “Ti voglio bene, Azzurra.”
“Ti voglio bene
anch’io. Buonanotte.”
Non mi pento di
essere ritornata in Italia. Ho preso tutte le opportune misure di sicurezza,
prima di trasferirmi a Roma.
Non mi pento di
essere ritornata, e non nascondo il motivo per cui l’ho fatto. Davide.
Sono tornata per
lui. Per lui soltanto.
Ho sbagliato? Sono
stata egoista? Avrei dovuto continuare a fingermi morta?
Probabilmente sì. Probabilmente
avrei dovuto continuare non solo a fingermi morta, ma anche a fare solamente ciò
che ho fatto per tutti questi anni. La madre, la moglie (la vedova, negli
ultimi due anni), la fotografa.
Per diciassette anni
ho ignorato la voce che mi chiamava verso lui, verso Roma. Ho ignorato i miei
bisogni, ho ignorato il mio cuore di donna. L’ho cementificato,
questo cuore. L’ho reso simile ad una pietra. Aperto solo per Azzurra, aperto
solo per il mio lavoro.
Non mi sono più innamorata.
Non ho più amato.
Martim è l’uomo che
mi ha cambiato la vita, ma Davide… Davide è la persona
che mi ha salvata. Davide mi ha donato Azzurra, e senza di lei non sarei mai e
poi mai sopravvissuta.
Avrei voluto
spiegarglielo, questa sera. Avrei voluto raccontargli ogni giorno trascorso in
Brasile e avrei voluto chiedergli dei suoi giorni qui, a Roma.
Non ce l’ho fatta,
e probabilmente non ce la farò mai.
Mi ha detto che è
morto con me. Mi ha detto che è morto quando ha saputo della morte di Camila.
Mi ha detto che per lui Camila è morta. Mi ha detto che non mi riconosce, che
Elena non è Camila.
Penso alla sua voce
per ore. Rivedo i suoi occhi marroni, riesco quasi ad avvertire la morbidezza dei
suoi capelli.
E poi sento il
campanello suonare. Una volta. Due volte. Tre volte.
Guardo la sveglia, è
l’una. Mi alzo dal letto e vado alla porta.
Non abbiamo molti
amici, e nessuno di loro verrebbe a farci visita a quest’ora. Chi è? Perché sto tremando come una foglia?
Azzurra è al sicuro?
Appoggio l’occhio
allo spioncino prima di aprire, e il respiro si ferma.
E’ Davide.
Apro la porta
rapidamente, e la prima cosa che mi colpisce è il fatto che ha l’affanno. I
suoi occhi sono sgranati e la bocca è semi aperta. Respira
come se avesse fatto i quindici piani a piedi, senza usare l’ascensore.
“Non mi hai mai…
detto qual era il tuo… desiderio,” dice, affannato.
Appoggia le mani alla porta per sorreggersi Respira in fretta. “Non mi hai mai
detto qual era il tuo desiderio,” ripete.
“Come?”
“Diciassette anni
fa,” risponde, gesticolando. “Quando hai espresso il
tuo… desiderio sulla torta… al cioccolato. Non hai mai…”
Non lo faccio
finire. Non lo faccio continuare.
Mi lancio verso di
lui, sul pianerottolo, e lo abbraccio. E’ l’istinto a spingermi. E’ il cuore a
guidarmi. Stavolta mi abbraccia anche lui. Mi stringe, mi solleva da terra.
Ed è come esplodere.
E’ come risorgere. E’ come rinascere.
Lo stringo a me
come faccio con Azzurra, come avrei voluto fare al parco, e anche Davide mi
stringe. Lo sento piangere, lo sento mormorare qualcosa, per cui mi allontano e
cerco i suoi occhi.
“Rimanere il più a
lungo con… Rimanere il più a lungo possibile con te,”
dico sorridendo. “Era questo il mio desiderio.” Gli accarezzo il viso, i
capelli. Lui mi bacia le mani.
Le sue parole, così
come le mie, sono incoerenti. Non riesco a capire ciò che dice, ciò che
mormora. “Sei viva,” mormora ad un certo punto.
“Sì,” gli dico. “Sono viva.” Sorrido. “E non ho mai… non ho mai
imparato a fare le barchette di carta.” L’incoerenza continua a governarmi,
perché non pensavo di dire una cosa simile. “Non ho mai imparato,” continuo. “Perché dovevi essere tu a…”
Non mi lascia
finire. Mi spinge sulla parete del pianerottolo. Con irruenza, ma senza rabbia.
Non è arrabbiato, no. Mi sorride. Mi sta sorridendo.
“Non ho mai voluto
imparare,” dico. Gli accarezzo i capelli come ho fatto
al parco, mentre lui mi accarezza le guance, le labbra, il collo. “Voglio
raccontarti tutto,” continuo. “E voglio sapere tutto,
tutto di te.” Mi aggrappo al suo giaccone. C’è un folle senso di disperazione,
in me, e posso leggere la stessa disperazione anche nei suoi occhi.
Siamo due persone
che si fanno forza a vicenda.
Siamo cambiati
eppure siamo ancora noi. Davide e Camila.
“Abbiamo una figlia,” dice lui sottovoce, asciugandomi una lacrima.
“Sì,” dico sorridendo, felice come non lo sono stata mai in
tutta la mia vita. “Si chiama Azzurra Ado Silva,” dico
balbettando. “E’ nata il 5 Agosto del 2011. Pesava tre kg e mezzo, e…” Mi
faccio forza stringendo i pugni, per evitare di singhiozzare. “E’ intelligente,
è forte,” dico. “E’ la ragazza più in gamba del mondo
e in tutti questi anni mi ha aiutata a non-”
“Lo so,” dice lui. “Lo so.”
Mi abbraccia, mi
accarezza i capelli e la schiena. Mi ascolta mentre piango, mi dice che mi ama.
Vorrei dirgli che
lo amo anch’io, vorrei continuare a raccontargli di Azzurra e vorrei smetterla
di piangere… ma non riesco a farlo.
Prima o poi mi
calmerò. Prima o poi passerà.
E lui sarà ancora
qui, con me. Lui continuerà a stringermi, continuerà ad amarmi.
“Sei ancora lei,” sussurra Davide ad un certo punto. “Sei ancora Camila, la
mia Camila. Il tuo nome è morto. Tu no,” dice
stringendomi. “Tu sei viva.”
---
Quando passi due giorni e due notti a
singhiozzare perché hai deciso di uccidere uno dei tuoi personaggi allora è
chiaro che hai un problema.
Non potevo lasciare che Camila morisse. E
non per il lieto fine, non per Davide
& Camila. Non per questo.
Non potevo farlo per lei, per Camila. Ho
adorato questo personaggio fin dall’inizio, e l’ho sentito più vicino di tutti
i personaggi che ho creato in tre anni di scrittura.
Meritava di vivere,
Camila. Merita di vivere. Ne ha viste troppe per smettere di esistere.
Molti di voi storceranno il naso e magari considereranno
chiusa la storia con l’ultimo capitolo. Molti di voi saranno felici di questo epilogo
e fantasticheranno sul futuro di Davide, Camila/Elena e Azzurra.
Io sono soddisfatta di questo finale, e
questo mi basta.
Non sarei mai riuscita a scrivere questa
storia (in particolare i capitoli più difficili) senza il supporto e l’affetto
di tutti i miei lettori. Grazie a tutti voi che ci siete stati fin dall’inizio,
dandomi fiducia in un ‘settore’ che non è propriamente
mio. Grazie a chi ha approfittato della storia di Camila e Davide per
raccontarmi la sua. Grazie a chi ha sempre letto e non ha mai commentato.
Un grazie speciale va a Lele
Cullen. Grazie per avermi minacciata, monamùr. E’
servito.
In tanti mi avete chiesto quanto c’è di vero
e di personale in questo racconto. La risposta è: molto.
In anticipo, grazie per tutti i commenti che
lascerete. Alla prossima.