Avevi sporcato il desktop di gelato.
La stanza era buia.
(Bene, un’affermazione. È già un gran passo)
Ero sola.
(Continua…)
Un paio di labbra, anzi no, due labbra miravano alla mia ugola. Se premevano forte sulla gola
la voce si distorceva e a quel punto i synth a che servono(?), dico io.
Le lucette leziose degli antifurti
stavano all’erta.
Non ero sola. Lo so.
Che tempo verbale devo usare?
Presente, passato. Il futuro non è credibile, capisci?
‘Scorre sui miei alibi, scorre sui rimpianti, scorre su di noi’
-L’importante è che tu pensi
seriamente di non essere sola. Perché al quel punto non lo sei. Poche parole,
ma fanno più compagnia di qualche coperta.-
In quella stanza sembrava piovere.
Mentre sentivo che lui
s’accasciava accanto a me, con le spalle contro l’armadio azzurro acquamarina,
persi un battito cardiaco, m’accorsi delle doppie punte, della puzza di
fragola, del mio accento del sud, del gelato sulle mie mani, delle unghie viola
nella carne ormai porpora del mio palmo.
Mi accorsi di tante piccole imperfezioni
che esistevano nella mia testa da pochi attimi, ma nel mio cuore da sempre.
Piccole cicatrici mai guarite e fratture mai ingessate.
Quando poi ci cammini, su una
frattura, o non si aggiusta più e ci convivi o si ricompone in maniera errata e
l’osso rimane in una posizione scomoda, errata. Storta.
Tutto storto.
Mentre ormai lui mi torceva i
capelli ed io chiudevo gli occhi, mille molecole nella mia bocca avevano paura
di disintegrarsi.
Pensai di dover chiamare mia
sorella e dirle di scaldare un posto a Roma. La tangenziale ci aspetta, caro.
-Che fai?-
-Nulla.-
E continuiamo a respirare
malaticci al muro, nell’angolo, poi nello sgabuzzino dove piango un po’.
A Roma si muore d’amore, dice il
cantante.
Una saponetta bolle nella vasca
idromassaggio. Avevi un cruciverba nella
tasca del giubbotto. Anche Anasclerol.
Poi t’accorgi di parlare sempre
delle stesse cose, ti accorgi che, però, i suoi occhi sono sempre vivi di
curiosità. Nell’ascoltare per la quinta volta la storia della fermata del bus
non m’ha fermata.
Non ha detto ‘non mi interessa,
già l’hai detto’.
Pendeva dalle mie labbra come le
ciliegie troppo mature pendono alle fronde degli alberi, così, come se stesse
per cadere sul terriccio del giardino.
Era il mio piccolo bunker protetto
nel buio artificiale.
Ed era il perimetro del mio corpo.
Ed era le anafore.
Ed era i pomeriggi in spiaggia col
tramonto che non avremmo mai trascorso.
Era le passeggiate utopiche.
Era il vento che mai avrebbe
potuto scuotergli i capelli.
Era il raggio di luce che mai
m’avrebbe lasciato contemplare il suo viso.
Perché, in quel buio malato, non
avevo mai osservato quegli occhi, quelle labbra; lasciavo ogni probabile
descrizione al tatto, i miei polpastrelli annotavano febbrili (ha un piccolo
foruncolo dietro l’orecchio, sembrerebbe un neo) e tracciavano un vago ritratto
a matita sul foglio della mia mente.
In questo modo viaggiavo.
Fra le sue labbra ero a Tokio, fra
i suoi capelli a Copenaghen, mordergli l’orecchio era Vienna e il tepore del
suo braccio attorno al mio fianco era pura Barcellona.
Il buio acuiva il resto. Il suo
respiro era musica abbondante. Le sue parole canto diafano.
-Pronto.Veniamo a Roma-
-Tu e…?-
-Io e un amico.-
-Oh, perfetto.-
Telefonata conclusa.
Avevo davvero intenzione di
portarlo fuori di lì. Decisamente visionaria, come cosa.
-Andiamo.-
-Dove?- disse lui.
-Fuori- risposi.
Il silenzio gravava ancor di più,
nel nero pece.
-Ma non posso.- rispose calmo –Non
posso uscire di qui, capisci?-
Ed allora pioveva ancor di più in
quella stanza. L’armadio contro cui erano appoggiate le nostre schiene andava
sciogliendosi. Sentivo l’ipotetico legno dipinto color acquamarina sciogliersi,
la testa cadere all’indietro, il buio infittirsi. Come in un film di Kubrick,
mi sentii un po’ sciogliere anche io.
-Perché non puoi?- sussurrai
piano, con voce da pulcino, spaventata e spaventosa allo stesso momento.
-Ma come. Non lo sai?-
Immaginavo sorridesse. La sua voce
era Sodoma. Forse Gomorra. Era il punto più profondo dell’Inferno. Forse la sua
testa era incastonata nel ghiaccio. Oppure ispirava i suoi dolci discorsi alle
leccornie grammaticali che soleva spesso propinarci Lucifero, quell’angelo
demoniaco.
-No, non lo so. Perché non puoi
uscire?-
-È alquanto semplice, non credevo
di dovertelo dire.-
-Dillo.- E mentre parlavo lenta la
cattiveria raggiungeva i miei polpastrelli e li sommergeva di sangue.
-Perché io, ecco, io non esisto.-
E allora l’armadio alle nostre
spalle ormai è una pozzanghera, i miei capelli vi si immergono.
Ho le tempie acquamarina.
-Allora
vai via, cosa aspetti.- dissi.
-Addio-
disse.
-Scorro
sui rimpianti.- conclusi.
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