Dè a tha thu_5
SCENA II:
GOCCE D’INCHIOSTRO SU CENERE NEL VENTO
Non capii esattamente nemmeno io come tutto fosse
iniziato, oppure quando avessero
cominciato a susseguirsi poi giorni, mesi, anni.
Avevo veduto quel piccolo fiore
iniziare a sbocciare dinanzi ai miei occhi, e il momento in cui sarebbe
stato
raccolto aveva cominciato a farsi sempre più vicino. Durante
quei mesi che
aveva passato in nostra compagnia, William aveva legato parecchio con
Henry, il
quale,
dopo essersi finalmente abituato a quella sua strana presenza, aveva di
poco
messo da parte pennelli e tele per insegnargli ciò che
sapeva della vita e del
mondo. Gli aveva parlato delle bellezze di Parigi, dei boulevard che di
primo
mattino odoravano di pane appena sfornato, persino della grandezza
della Torre
Eiffel e di come da lassù le luci della città
risplendessero, simili a tanti
piccoli diamanti, al calar della sera.
Non erano poi state rare le volte
in cui, quando tornavo dai miei lunghi e solitari viaggi, trovavo
quello stesso
Henry intento a leggergli testi in francese - che spesso William non
capiva - o
vecchie favole, quasi fosse un padre premuroso che accudiva il figlio.
Quel
lato di lui non l’avevo mai visto e mai avrei creduto
esistesse, sebbene lo
conoscessi ormai da lunghi anni. Tornava ad essere se stesso solo
quando sentiva
avvicinarsi l’ora di dipingere. E quando essa scoccava nel
suo orologio
interno, scacciava rapidamente William e gli imponeva di cercarsi
qualcos’altro
da fare, tornando ben presto a lavorare su quelle vecchie tele. Quel
suo modo
di fare, però, non faceva altro che incuriosire quel
ragazzino, che gli si
avvicinava di soppiatto per spiare il suo operato.
Più e più volte
l’aveva
pregato
d’insegnargli anche quello e, nonostante i tentennamenti
iniziali, Henry aveva
infine ceduto. Gli aveva mostrato come impastare i colori, come
stenderli poi
sulla tela per creare uno sfondo di base, spiegandogli in seguito come
avrebbe
dovuto impostare i soggetti da rappresentare, ottenendo però
risultati
tutt’altro che soddisfacenti. Erano state molte di
più le tele impiastricciate
da William che quelle dipinte da Henry nell’ultimo periodo.
Ciò in cui quel nostro
piccolo amico
eccedeva era la musica. Se ci rifletto adesso, forse, posso comprendere
fin
troppo bene il motivo per cui cominciava a suonare non appena gliene si
presentava
l’occasione. La sua vita, fino al momento del
nostro incontro, non aveva avuto altri colori se non quelli dei tasti
di quello
strumento. Nessuna sfumatura, nel corso dei suoi dodici anni, soltanto
una vita
bianca e nera. Una vita bianca e nera che fino ad allora gli era
bastata e che
aveva poi cominciato ad andargli stretta, non lasciando però
che la passione
per il piano si spegnesse a poco a poco come era accaduto per tutto il
resto.
L’avevo trovato seduto dinanzi
al
piano, un giorno, esattamente come quando l’avevo portato
lì per la prima
volta. Aveva cominciato a pigiare su quei tasti un po’ alla
rinfusa e, non
capendo cosa stesse facendo, al principio avevo persino temuto che
potesse
scordarmelo. Invece aveva in seguito iniziato a dar vita ad una melodia
quasi
indefinita, mai sentita fino ad allora, e non aveva smesso
finché non mi aveva
visto con la coda dell’occhio, spaventandosi.
Quelle sue scuse frettolose mi
avevano fatto sorridere. Si era strofinato gli occhi, rossi
probabilmente per la mancanza di sonno o altro, ed era sceso dallo
sgabello,
pronto a sgattaiolare via in fretta. Io l’avevo fermato,
avvicinandomi e
invitandolo ad accomodarsi ancora una volta. E nel sentirlo
così vicino,
battito contro battito, mi aveva colto una sensazione di quiete e pace
che mai,
dal momento in cui ero rinato
in tale forma, mi aveva avvolto.
Sotto il suo sguardo
incantato, avevo poi cominciato a suonare come non avevo mai fatto,
probabilmente perché, in cuor mio, ero sempre stato un
esibizionista
ammaliatore e volevo che da quella mia esibizione ne restasse
esterrefatto.
Oltre ad Henry, però, fino a quel momento nessun altro aveva
mai avuto il
privilegio di sentirmi suonare. C’erano stati sì
momenti in cui da giovane
avevo intrattenuto mio padre con la cornamusa, ma quei tempi erano
ormai un
ricordo che andava pian piano svanendo.
Avevo dunque trovato strano il mio
aver un pubblico così giovane, da poco entrato nei primi
anni della pubertà.
Bastava che muovessi anche soltanto di poco le mani e lui le seguiva
con lo
sguardo, quasi rapito, intonando di tanto in tanto qualche bassa
melodia
sfruttando le vibrazioni delle corde vocali. Ne era uscita una musica
senza
alcun senso, in realtà, ma nessuno di noi due, quel giorno,
aveva aperto bocca per
farlo notare all’altro.
Forse ciò che mi fa ancora
ridere
è il fatto che fosse ormai divenuto quasi un rituale per
entrambi. Quando la
sera ritornavo nell’appartamento mi si presentava dinanzi
agli occhi sempre la
stessa scena: Henry seduto sul proprio sgabello, intento a dipingere
con una
concentrazione tale che sembrava fuori dal mondo, e William al piano
che lo
intratteneva con la sua musica, come un tempo facevo io, esercitandosi
persino
nella Sonata in Sol maggiore [1].
Non
appena si accorgevano della mia presenza si voltavano entrambi a
guardarmi, e
quello che era ormai diventato il mio piccolo tesoro mi sorrideva e,
scendendo
dallo sgabello, mi correva in contro, afferrandomi una mano per
portarmi al
piano lui stesso.
Era una delle poche libertà
che
gli concedevo, quella. Sapevo quanto amasse sentirmi suonare, quasi
più di
quanto non adorasse vedere Henry dipingere. Fino a quel momento non
aveva mai
visto un quadro, o almeno così ci aveva raccontato. Aveva
solo qualche vago
ricordo di quella musica particolare che di tanto in tanto si dilettava
a
suonare, ma non rammentava da dove essa provenisse.
Anche chiedergli della sua
famiglia non aveva portato a nessun passo avanti. Sapeva soltanto che i
suoi
genitori erano entrambi morti a causa di una malattia genetica, ma non
aveva
idea di quanto tempo avesse passato per strada. Guardando i calli sulle
sue
dita si poteva pressoché dedurre che, fin da piccolo, aveva
compiuto in nero
qualche lavoro manuale, però era difficile capire quando
avesse realmente iniziato.
Molto probabilmente la figura più vicina ad un padre che
aveva avuto in
quegl’ultimi anni, era stato un certo Beaver, uno dei ragazzi
che avevano
occupato con lui la catapecchia in cui aveva vissuto fino a quel
momento. Ci
aveva raccontato che era stato questo Beaver a provvedere a loro,
pensando lui
stesso a rubare del cibo per farli mangiare. A portarlo via era stata
la
malattia, e lui e gli altri bambini erano rimasti nuovamente soli.
Forse era
anche per quel motivo che molti avevano deciso di andare al Foundling,
chi
poteva dirlo. Su questo punto, William non era stato mai abbastanza
chiaro.
La malattia, però, a dispetto
di
ciò che noi tutti avevamo creduto, non aveva risparmiato
neanche lui. Quel
bagliore morente, che sempre più di frequente gli vedevo
negli occhi, ne era la
prova tangibile. Spesso, sempre più spesso, sembrava
sforzarsi nel mettere a
fuoco oggetti e persone, e a nulla era servito munirlo di un paio
d’occhiali.
Solo in seguito scoprimmo che quel suo problema era legato ad una
malattia
della vista [2],
ma a quel tempo non c’era alcun modo per curarla. Ai giorni
nostri basterebbe
intervenire chirurgicamente per sostituire il cristallino, ma, nel
novecento,
chi mai avrebbe potuto fare una cosa del genere? Io non conoscevo nulla
di
medicina, e anche sapendo almeno le basi non avrei comunque potuto far
nulla
per far sì che la vista di William migliorasse.
Io ed Henry potevamo soltanto
assistere impotenti all’avanzamento progressivo di quella
malattia che lo
privava, giorno dopo giorno, del senso visivo. Se ci fossimo realmente
trovati
tutti e tre in questo ventunesimo secolo, nel piccolo appartamento
a St.
Louis che utilizzo quelle rare volte in cui, come adesso, mi ritrovo a
mettere
nero su bianco le esperienza vissute in tutti quegl’anni,
probabilmente il mio
William non avrebbe sofferto in quel modo.
Aveva perso quasi del tutto la
vista all’età di diciassette anni. Compiva sforzi
sempre maggiori, e nemmeno il
mio decidere di portarlo in giro per il mondo era servito a qualcosa.
Volevo che
vedesse le bellezze delle città europee prima che non
potesse più farlo, ma
nonostante la felicità iniziale che gli si dipingeva in viso
quando si
ritrovava a vedere cose come la Chiesa di S. Mattia [3]
a
Budapest, la Oude Kerk [4]
di
Amsterdam o l’interno del Louvre [5]
a Parigi
e i suoi meravigliosi quadri, nulla poteva nascondere ad entrambi la
realtà
della situazione. Ma lui aveva affrontato quel suo destino a testa
alta, senza
smettere un solo istante di vivere e sorridere.
Se ci ripenso adesso, non
l’avevo
mai sentito lamentarsi. Mai una volta che avesse fatto una qualche
scenata, che
avesse pianto disperatamente o imprecato contro una qualsiasi
invisibile
presenza. Niente. Semplicemente, aveva accettato il fatto che sarebbe
diventato
cieco e che, con molta probabilità, la malattia che
l’aveva privato dei suoi
genitori avrebbe portato via anche lui. Non sapeva quando sarebbe
accaduto e
nemmeno gli interessava, quel che aveva fatto era stato solo continuare
a
godersi ogni singolo giorno o attimo che si susseguiva, uscendo sempre
più
spesso e volentieri e riuscendo persino a portarsi dietro Henry, che da
quanto
ricordassi non aveva visto la luce per anni.
Quel pittore stravagante non era
stato per niente contento della decisione di William, ma
l’aveva assecondato
soltanto in onore di quell’affetto che aveva cominciato a
provare per lui. E in
fin dei conti lo comprendevo. Avevamo visto quel bambino crescere,
diventare
quasi un uomo, maturare dinanzi ai nostri occhi. Ma quella
spensieratezza e
quell’innocenza che l’avevano sempre caratterizzato
non era mai scomparsa,
anzi, sembrava persino essersi rafforzata.
E c’erano momenti in cui lo
guardavo da lontano, mentre se ne stava semplicemente seduto sul
pavimento tra
fogli e scatoloni a leggere, o quando ci ritrovavamo ad uscire tutti e
tre
insieme per dirigersi al Victoria Park [6],
dove
si accomodava accanto ad Henry e l’osservava dipingere quei
nuovi soggetti che
richiamavano spesso l’attenzione di molti. Era rapito dal
modo in cui
rappresentava su tela l’enormità degli spazi verdi
presenti in quel parco, o
quando si concentrava sui laghetti e sulle piccole onde create a pelo
d’acqua
dalle folaghe. E io lo vedevo lì, seduto vicino al pittore,
un esserino entrato
nella nostra vita senza nessuna ragione, ma che sembrava aver portato
un po’
d’equilibrio nella vita di entrambi. C’erano
momenti, però, in cui metà della mia
anima non riusciva a sopportare la sua vicinanza, ed era proprio in
quelle
occasioni che mi allontanavo per giorni e giorni da loro, cercando
conforto per
quel mio cuore maledetto.
Fu proprio durante quei periodi
che uccisi il primo essere umano e ne assaporai il sangue. Era stato un
furfante e un uomo di poco conto, in realtà, ma il privarlo
della vita innescò
in me una reazione spaventosa. La bestia aveva cominciato a ribollire e
a
chiedere sempre di più, godendo del sapore malvagio che
possedeva l’anima di
quello sventurato. Ma la mia ragione, quella parte umana che era morta
in
quello sprazzo d’erba in mezzo al nulla delle Highland secoli
prima, aveva
cercato in tutti i modi di ricacciarla indietro. E non ero tornato a
casa
finché non ci ero realmente riuscito. Avevo passato giorni
d’inferno,
attimi in cui sentivo il cuore battere forte e vedevo le vene dei polsi
pulsare
contro la pelle sottile, ed ero sempre stato più che sicuro
che, se mi fossi
visto allo specchio, l’immagine che quell’oggetto
avrebbe riflesso non sarebbe
stata quella a cui ero sempre stato abituato. Se sono qui a raccontare
tutto
questo, lo devo solo alla mia forza di volontà, che mi aveva
fatto ricordare chi
ero stato e non cos’ero diventato.
La paura che ciò potesse
succedere
ancora, però, al principio si era insinuata nel mio animo.
Spesso, quando
vedevo William in compagnia di Henry, dentro di me montava una rabbia
così
cieca che mi ci voleva tutto il mio autocontrollo per ritornare in me.
A quel tempo non potevo sapere che
quella sorta di gelosia era dovuta al sentimento che, nel mio essere,
avevo
cominciato a nutrire per William. Dirlo adesso ad alta voce non mi fa
più lo
stesso effetto che mi faceva durante quei giorni, ma, anche a causa
della
mentalità dell’epoca, per me era stato
più che difficile da accettare. Non
potevo credere che io potessi provare sentimenti simili per un
ragazzino. E non
soltanto per il semplice fatto che, in fin dei conti, ero un mostro. Lo
trovavo deplorevole, immorale, oltremodo controproducente, e il solo
pensare che quei miei pensieri
e
sentimenti potessero sporcare un’anima candida come la sua,
mi mandavano
letteralmente in bestia.
Se fosse stato l’animo di
qualcun
altro... non mi sarei fatto problemi, lo ammetto. In fondo, che senso
avrebbe
avuto? Adesso che comprendo cosa sono davvero, me ne importa
relativamente
poco. Avrei potuto anche contaminare ogni singola anima delle persone
che
abitavano a Londra, ma non la sua. La sua doveva restare immutata e
così era
stato, fino al giorno in cui si era spento per sempre e ci aveva
lasciati
entrambi.
Ricordo perfettamente
quegl’ultimi
anni, quei momenti in cui, durante la notte, ci sedevamo in un angolo
impolverato della stanza e, con il solo ausilio d’una lampada
ad olio,
illuminavamo quel piccolo rifugio e cominciavamo a leggere, aiutando
anche
William a farlo quando la vista gli si stancava troppo. Oppure quando,
mentre
Henry dipingeva come suo solito, noi due occupavamo il nostro posto,
dinanzi al
piano, e io gli guidavo le mani sui tasti giusti finché non
ne imparava le
posizioni, cosicché potesse suonare liberamente pur non
potendo vedere alla
perfezione. Imparò ben presto ad improvvisare la Sonata
anche ad occhi chiusi
sebbene il risultato fosse tutt’altro che soddisfacente,
visto il modo in cui
suonava di solito. Eppure non per questo si perdeva d’animo,
insistendo ancora
e ancora finché non crollava quasi mezzo addormentato sulla
tastiera. E a quel
punto era Henry a metterlo a letto, augurando frettolosamente la
buonanotte
anche a me prima di coricarsi a sua volta. Ma io non dormivo. Io
vegliavo su
quel mio piccolo tesoro che dormiva placidamente, stanco ma felice. Il
viso
bambinesco e spettrale con cui l’avevo conosciuto aveva
lasciato spazio ai
futuri lineamenti d’un uomo, ma nessuno di noi tre, a quel
tempo, avrebbe mai
potuto sapere che non lo sarebbe mai diventato.
A volte, quando lo sentivo parlare
con Henry mentre io accordavo il piano, si ritrovava a chiedergli come
mai non
avesse ancora famiglia, ricevendo sempre la solita risposta.
«Non fa per me», diceva Henry,
e quello io non lo contestavo affatto. Come padre se l’era
cavata bene, non lo
negavo, ma non ce lo vedevo proprio ad occuparsi a tempo pieno
d’una famiglia
tutta sua. E William non insisteva oltre, fantasticando però
su come sarebbe
stato l’aver moglie e figli, lasciando dentro di me una
bizzarra sensazione
d’amarezza. Quando poi era Henry a rigirargli la domanda,
chiedendogli se lui
avesse voluto metter su famiglia, William rispondeva che aveva
già tutto e che dunque
non gli interessava. La verità era che sapeva che avrebbe
solo fatto soffrire
la donna che avrebbe sposato in futuro, lasciandola da sola troppo
prematuramente. Era un ragazzino e già ragionava come un
uomo, in alcuni
momenti. Quella, però, era una cosa che mi rendeva
orgoglioso
di lui, e che non
faceva altro che rafforzare ciò che avevo già
cominciato a provare anni
addietro.
Forse quella mia convinzione fu
intensificata anche da William stesso, persino oggi non saprei darmi
nessuna
risposta. Ma quella lontana sera la ricordo ancora, ed è
tuttora il ricordo più
prezioso che ho di lui.
Avendo cominciato a dipingere
per strada, Henry era stato subito notato da un grande stimatore
d’arte
dell’epoca, il cui nome in questo momento mi sfugge. Era
stato dunque invitato
a presenziare al sontuoso banchetto che l’uomo avrebbe tenuto
nei pressi della
sua residenza, lasciando me e William da soli in casa nonostante la
riluttanza
che l’aveva animato. Non se la sentiva di andarci, infatti,
ma non perché
temesse un possibile pubblico. Essendo peggiorato, William aveva
cominciato a
vedere unicamente le sagome di cose e persone, e la febbre che aveva
contratto
a causa del freddo non aveva giovato. Si era convinto solo dopo molte
insistente del malato in questione, che lo aveva rassicurato come solo
lui
sapeva fare. C’ero io con lui, aveva detto, e ciò
aveva fatto sì che Henry si
decidesse.
Ore dopo avevo controllato che
William si fosse addormentato, e avevo cominciato a suonare da solo
come ormai
non facevo da tanto, chiudendo persino gli occhi per aiutare la
concentrazione.
E mi ero letteralmente estraniato dal mondo, giacché non
avevo nemmeno
avvertito l’arrivo di William poco tempo dopo. Non aveva
fatto nessun rumore e
mi si era avvicinato, restando semplicemente immobile fino a quando non
mi ero
reso conto della sua presenza.
Non avevo smesso di suonare, ma
avevo soltanto lanciato un’occhiata nella sua direzione prima
di tornare a
fissare distrattamente dinanzi a me. «Cosa stai ascoltando,
mo chridhe [7]?»
gli
avevo chiesto in tono scherzoso, avendo intravisto nei suoi occhi
ormai
opachi un baluginio di serenità. E lui, socchiudendo le
palpebre
e sorridendomi, mi si era avvicinato per prendere posto al mio fianco,
stando
attento ad ogni singolo passo che faceva.
«La tua
musica», aveva sussurrato
poi. «È allegra e
vivace, ma fra le note nasconde
anche tristezza e malinconia».
Quelle sue deduzioni mi avevano
fatto sorridere a mia volta, a dir poco compiaciuto.
«È una
vecchia canzone
del mio paese natale», gli avevo confessato. «Fino
a questo momento, non l’avevo
mai suonata con uno strumento del genere».
«È
bella», una constatazione
semplice e chiara, pura e cristallina come l’acqua
d’un ruscello delle
Highland. «Mi piacerebbe vedere la tua casa, un
giorno».
Ma sapevamo entrambi che quel
suo desiderio non si sarebbe mai realizzato. Anche se
l’avessi portato in
Scozia, quella Scozia che non visitavo da secoli, lui non sarebbe mai
riuscito
a vederne le bellezze, ad accarezzare con gli occhi le brughiere e le
lowlands.
«Ti ci porterò, mo
gille».
Quelle erano false speranze, lo sapevamo bene, ma avevo lo stesso
continuato a
parlare. «Ti sveglierai tutte le mattine con il canto della
pernice bianca,
che si poserà sul davanzale della tua finestra; verrai
accarezzato dal piacevole vento che si innalza dalle brughiere,
sentendone la frescura sulla pelle,
e vedrai
quegli stessi luoghi sprizzare vita e colori, uno spettacolo che lascia
senza
fiato ogni nuova estate; ci dirigeremo sui gran piani, lungo la costa
occidentale dove ogni zona pullula di rododendri e azalee, e ti
mostrerò le
macchie di felci e i cespugli di ginestre, spiegandoti le loro
proprietà; ti porterò nei
boschi, così che tu
possa osservare i pini e i larici più alti e robusti che tu
abbia mai visto, e
andremo a caccia di lepri e volpi, di cervi rossi e di galli cedroni, e
ti farò
sentire il buon profumo degl’iris selvatici. I miei occhi
saranno i tuoi occhi,
e assaporerai quella libertà che solo nelle Highland
è possibile trovare».
Gli avevo visto spuntare un
nuovo luminoso sorriso sulle labbra, a quelle mie parole, e nonostante
l’espressione sul suo viso fosse apparsa triste e spaesata,
era stato con
quello stesso sorriso che si era voltato a guardarmi con quei suoi
occhi ormai
privi di luce.
«Fammi innamorare di questo
tuo
mondo, Seumas», mi aveva proposto, pronunciando il mio
nome per la prima
volta e con voce ferma e melodiosa. «Fammi innamorare del tuo
mondo, della tua
casa, di tutte quelle bellezze a cui hai appena accennato. Fammi
innamorare
della tua musica».
Fammi
innamorare della tua
musica. Quali pretenziose parole. Ma erano state proprio
quelle a farmi
capire quale fosse stato, tempo addietro, il sentimento che mi aveva
spinto a
tenerlo con me anziché cacciarlo. Probabilmente,
però, se l’avessi fatto, non
avrei sofferto in quel modo non appena ci lasciò.
Si era spento del tutto a soli
diciannove anni. Aveva tenuto duro finché aveva potuto,
continuando a dar vita
a quella musica assurda e geniale che era stata la sua vita fino a quel
momento, ballando su di essa quel che restava dei suoi anni e
assaporando la
felicità fin dove gli era stato concesso.
Ma era soltanto un essere umano, e
il suo orologio interno si era fermato del tutto. Non avevo fatto
nemmeno in
tempo a realizzare quel suo ultimo desiderio, quello di portarlo nella
mia
bella e amata Scozia. In un primo momento non ero quasi riuscito a
crederci, in
realtà. Sembrava che mi rifiutassi di assimilare quella
notizia,
quell’avvenimento che aveva accartocciato il nostro piccolo e
idilliaco mondo.
Se io non avevo accettato il
concetto della sua morte, Henry era stato letteralmente distrutto dal
dolore.
Aveva cresciuto quel ragazzo come un figlio, accudendolo nei lunghi
mesi in cui
io partivo per i miei viaggi, e il rendersi conto che ormai non
c’era più aveva
intaccato quel poco equilibrio mentale che gli era rimasto. Il dolore
l’aveva
reso folle, e non passarono molti anni prima che, forse stanco di
vivere con
quella pazzia in corpo - che non gli permetteva neanche più
d’esprimere la sua
arte, la sola cosa che avesse mai fatto -, si togliesse la vita. Ed io,
nuovamente solo, non ero riuscito a restare un attimo di più
in
quell’appartamento pregno di ricordi.
Avevo solo voluto provare a
dimenticare, in seguito. Quando nella mia mente tornavano a
riaffacciarsi
prepotentemente quei momenti vissuti come un comune essere umano, la
metà più
debole della mia anima cadeva in pezzi. In realtà parecchie
cose le ho
volutamente dimenticate per non soffrire, anche se ammetto che questa
è una
cosa che è servita a ben poco. I ricordi più
dolorosi e tristi sono rimasti, proprio
come quello legato al mio ritorno a casa, ad esempio.
Non avevo dimenticato neanche per
un istante la promessa che avevo fatto al mio William. Prima che il
destino ce
lo strappasse così violentemente via, rubando
quell’anima che con tanta fatica
avevo coltivato negli anni, gli avevo promesso che l’avrei
portato alla mia
casa, in Scozia. E anche se così non era stato, ero comunque
partito dopo
secoli di lontananza per tener fede a quel patto.
La sensazione che provai nel
rivederla è tuttora impossibile da definire. Nonostante
fosse
passato tutto quel tempo,
erano ben poche le cose che erano cambiate davvero: volgendo lo sguardo
a quel
cielo azzurro che sovrastava le Highland, avvolte nella quiete come
secoli or
soro, si potevano vedere le pernici e gli altri uccelli che si
libravano liberi
in volo, sempre più su fra quelle nuvole soffici e bianche
mentre si lasciavano andare ai loro canti e stridii; bastava poi
abbassare le palpebre e, figurandosi quelle meravigliose lande nella
mente, respirare a fondo per sentire i mille odori
della
brughiera, e udire i richiami degli animali che popolavano i dintorni.
Uno
spettacolo magico che mai avrei pensato di rivedere ancora, e che avrei
tanto
desiderato poter vedere con lui, con William, il pallido fantasma da
cui
ero stato ammaliato.
«Siamo a casa, mo
chridhe», avevo
sussurrato al vento, sentendolo carezzarmi le guance con dita
leggere e delicate velate di tristezza.
«Siamo a casa».
E da quel momento in poi, seppur
separati dal tempo e dalla morte, lo saremmo stati davvero.
DÈ
A THA THU A’ CLUINNTINN, MO CHRIDHE?
FINE
[1]
Venne composta tra l’estate e
l’autunno
del
1774, e fa parte delle sei sonate per pianoforte che Mozart scrisse.
Come quella in
Re maggiore,
anch’essa si suddivide in tre tempi.
[2]
La malattia a cui si fa riferimento è la cataratta.
Consiste nell’opacizzazione del cristallino, che conduce alla
progressiva
perdita della vista. È
più frequente con
l’avanzare dell’età, ma ci sono anche
casi di cataratta in età più giovane.
I sintomi sono generalmente
caratterizzati da un offuscamento visivo globale, ma il disturbo della
vista è
tanto più evidente quanto più estesa e
più intensa è l’opacizzazione del
cristallino.
La cataratta totale rende
praticamente ciechi ed è necessario intervenire
chirurgicamente, sostituendo il
cristallino opacizzato con una lente artificiale intra-oculare,
posizionata
dietro all’iride. In passato erano stati commercializzati
colliri destinati a
rallentare il processo di opacizzazione del cristallino, ma tali
prodotti nel
tempo non hanno dimostrato una reale efficacia clinica.
[3]
Si erge sulla piazza della Santissima Trinità, e
nonostante si chiamata con il nome dell’apostolo Mattia,
l’edificio è dedicato
alla Madonna.
Fu costruita tra il 1255 e il
1269 per la volontà del re Béla IV
d’Ungheria. Nel 1541 venne trasformata in
una moschea dai turchi, per poi passare ai gesuiti. Nel 1873 e il 1896
fu
oggetto di restauri da parte dell’architetto Frigyes Schulek,
che la ricostruì
parzialmente in stile neogotico.
E’ uno degli edifici più
interessanti della città di Budapest e patrimonio artistico
e turistico della
città.
[4]
In olandese
significa “Vecchia chiesa”, ed è
l’edificio parrocchiale più vecchio di
Amsterdam.
Fu consacrata nel 1306
dal vescovo di Utrecht, e le sue fondamenta vennero gettate su un
cumulo
artificiale, ritenuto il terreno più solido in quella
provincia paludosa.
Il disegno originale dell’edificio
era audace e la chiesa era in piedi da solo mezzo secolo quando vennero
fatte
le prime modifiche, le navate laterali vennero allungate e avvolte
attorno al
coro a semicerchio, così da sostenerne la struttura.
Non molto dopo l’inizio del
XV secolo alla chiesa vennero aggiunti i transetti nord e sud, creando
la
pianta a croce. Il lavoro su questi rinnovamenti venne completato nel
1460,
anche se è probabile che l’avanzamento venne
interrotto dai grandi incendi che
colpirono la città nel 1421 e nel 1452.
[5] È
uno dei più
celebri musei del mondo, e come se non bastasse la vera origine del
termine
Louvre è dibattuta.
Il palazzo che ospita il museo fu originariamente
costruito durante la dinastia dei Capetingi, sotto il regno di Filippo
II, e
attualmente la collezione del museo comprende alcune delle
più famose opere
d’arte del mondo, come la “Gioconda” e la
“Vergine delle Rocce” di Leonardo da
Vinci, “Il giuramento degli Orazi” di Jacques Louis
David, “La Libertà che
guida il popolo” di Eugène Delacroix, la
“Venere di Milo” e la “Nike” di
Samotracia.
[6]
Situato
nella zona dell’East End, è uno dei parchi
comunali della città di Londra.
Il parco fu aperto al
pubblico nel 1845. Questo grande parco è simile a
Regent’s Park ed è
considerato da alcuni come il miglior parco dell’East End.
È attraversato su
due lati da canali: il Regent's Canal e l’Hertford Union
Canal.
In esso sono rimasti pezzi
del vecchio London Bridge, demolito nel 1831, posti accanto
all’Hackney Wick,
monumento celebrativo della Seconda guerra mondiale.
[7]
Letteralmente significa “Cuore mio” ed è
gaelico
scozzese. Si tratta inoltre di un ovvio richiamo
al titolo che fa da completo perno al racconto.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa storia ha
partecipato al contest indetto da Ale2 e ThePhantomAgony,
“Citazioni
di Alessandro Baricco”, e si
è stranamente classificata prima.
Viene quasi da chiedersi come
diavolo sia venuta fuori una roba del genere, in verità.
Ebbene, non ne ho la
più
pallida idea nemmeno io, se devo essere sincera.
Potrei dire che quando ho
letto la frase che ho scelto e che ho seminato un po’ ovunque
nella storia, tipo
in questo passaggio “La
sua vita, fino al momento del nostro incontro, non
aveva avuto altri colori se non quelli dei tasti di quello strumento.
[...]
come era accaduto per tutto il resto” o in
questo “Aveva
tenuto duro
finché aveva potuto, continuando a dar vita a quella musica
assurda e geniale [...]
assaporando la felicità fin dove gli era stato concesso”,
ho avuto una
sorta di visione, ma sarebbe quasi come mentire. Non lo so affatto come
questa
storia sia stata stesa. Diciamo più che altro che
quando ho aperto il foglio Word, le parole sono scivolate da sole e
hanno preso vita propria,
sarebbe di
sicuro la versione più giusta. Riserva in sé un
pizzico
di me - come ogni mia storia, ma questa ne ha un po' di più
-, e
devo dire di essermi particolarmente affezionata a tutto il background.
Ammettiamolo: non tutti
i personaggi mostrati sembrano sani di mente... specialmente il
protagonista
principale, che non si capisce esattamente cosa sia. Avevo in mente una
spiegazione abbastanza illogica per spiegare la sua natura, dunque ho
voluto
giocare più sulle spiegazioni avvenute nelle note
anziché tentare di darne una
piuttosto incoerente io. Possiamo piuttosto prenderlo
come una sorta di cadavere posseduto da un demone, e dunque ancora in
grado di
muoversi, o come un hanyou. Per fare un esempio, basti
pensare a come sia nato Naraku di Inuyasha, sebbene a quei tempi si
pensasse
che la possessione demoniaca non fosse rara.
Avrei voluto dare una
spiegazione migliore, ma non c’è un vero e proprio
modo per spiegare la nascita
contorta di questo protagonista, di cui viene rivelato il nome soltanto
verso
la fine della storia. Se ci si fa caso, però, viene
vagamente accennata la sua natura, precisamente in questo pezzo
“Ma
d’altra
parte sembravo attendere proprio il momento in cui quella sua vita si
sarebbe
spenta, consumandosi a poco a poco come la cera d’una
candela. Era come se
aspettassi pazientemente qualcosa, senza riuscire ancora a comprenderne
il
motivo. [...] Quelli erano attimi in cui qualcosa, dentro di lui,
fremeva,
premeva insistentemente per poter uscire, e io ero lì ad
osservare, pronto a
ghermirla non appena si fosse liberata”. Nella
mia mente contorta, mentre
procedevo con la stesura, mi aveva in qualche modo ricordato quando
Sebastian
di Kuroshitsuji attende di gustare l’anima di Ciel. Dunque,
per l’appunto, può
essere considerato una sorta di demone.
Spero che in un qualche contorto modo vi sia piaciuta, vi lascio al
commento della giudice:
GIUDIZIO
Grammatica,
sintassi e stile: Credo mi troverai
estremamente breve nei miei commenti, ma come dire, mi hai preso
talmente tanto che non riuscirei ad essere prolissa nemmeno volendolo.
Non ho trovato errori, la storia è scorrevole, forse
soltanto
la lunghezza dopo un po’ può stancare il lettore,
ma letta in capitoli
separati e non tutta in una volta, credo dia tutt’altro
effetto. Non so
commentare, mi è sembrato tutto molto appropriato, dalla
scelta del
lessico, ai tempi che hai voluto dare alla vicenda. Forse
l’unico
appunto, da farmi meritare un ‘senti chi parla’
è l’uso delle virgole,
che in qualche caso mi sembrava errato, ma essendo anche io confusa su
questo tema non mi sento di farlo valere come errore.
Voto: 9,5
Originalità: Qui potrei
scrivere un tema, ma non lo farò, tutta la fan fiction per
me
è
originale, dai personaggi, alle interazioni che hai creato tra di loro,
dall’attenzione incredibile che hai dato a tutti i
riferimenti che hai
messo, all’atmosfera forse un po’ gotica del tutto,
alla vicenda
stessa. Non riesco a commentare con parole più positive,
anche la
relazione che hai fatto instaurare tra i due protagonisti,
così velata,
è decisamente perfetta.
Voto: 9
Personaggi: Adorati tutti dal primo all’ultimo.
Dal protagonista ed il suo
cambiamento in una soprannaturalità che non conosce ma che
è costretto
a vivere, al pittore in cerca d’ispirazione che poi con il
piccolo
William finisce per diventare paterno e si lascia coinvolgere in una
maniera inaspettata e totalizzante. E poi William, mi ha davvero
coinvolto in una maniera inaspettata, è semplice ed ingenuo
come vuole
la sua età, però riesce a capire cose che nemmeno
i due improvvisati
genitori capiscono, soprattutto direi ‘ti strappa
l’amore dal cuore’.
Un’originale è terribile quando si tratta di
caratterizzare personaggi,
perché non si ha mai la certezza di quello che il lettore
percepirà, io
dico che è stato un lavoro che ha fatto entrare i tuoi
personaggi
dritti nella mia testa.
Voto: 9,5
Uso
della citazione: Ammetto
che su questo campo ho dovuto rileggere la fan fiction ed i tuoi
commenti più volte per riuscire a capire come
l’avevi inserita. Poi ho
avuto l’illuminazione e devo dire che è stato un
modo molto elegante
per inserire una citazione estremamente complessa.
Anche qui mi ritrovo a parlare poco, forse avrei enfatizzato
ancora di più i passaggi in cui risulta chiara
l’ispirazione dovuta
alla frase scelta, ma è un commento personale, quindi
assolutamente da
prendere come un’annotazione.
Voto: 8,5
Totale: 36, 5
Spero alla prossima ♥
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