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MOMIZI MATSURI SAGA
PARTE 3
LA TOMBA SOTTO GLI
ACERI
Kyoto, Arashiyama. Nonomiya Shrine.
Malgrado il vento che soffiava
forte, increspando la superficie argentea del fiume, il cielo era sgombro di
nubi in quella mattina di metà Marzo.
Le colline attorno si tingevano
di un verde via via più brillante tanto più il Sole si alzava nel cielo,
proiettando la sua luce tutto attorno, mentre sull’acciottolato che era la riva
del fiume una familiare figura di ragazzo camminava a passo rapido verso il
ponte metallico che sembrava tagliare di netto a metà il paesaggio.
Stretto nel cappotto, il giovane
attraversò, zaino in spalla, la via e s’inerpicò su per il ben conosciuto
sentiero che si snodava nel silenzioso bosco di bambù.
Questi sorrise tristemente
mentre i suoi piedi affondavano nell’erba e nel terriccio molle, e strinse forte
al petto un bouquet di fiori da campo, come se da esso potesse trarre una
qualche forza: non ne aveva voglia, ma doveva farlo.
Quantomeno per rispetto.
Ci aveva riflettuto a lungo ed
era giunto a quella conclusione: era giusto così.
La strada gli era così familiare
che avrebbe potuto farla a occhi chiusi, ogni singolo rumore, per lui, era un
po’ come un suono domestico, alla stregua dei passi cui aveva fatto l’abitudine
e cui aveva associato uno dei fratelli, ogni flessuoso giunco che sfiorava con
la mano era un vecchio amico che salutava il suo ritorno, e il cuore ebbe un
vero e proprio sobbalzo non appena i suoi occhi e il suo cervello registrarono
la presenza del grande toro d’accesso, nulla di speciale né di troppo elaborato,
ma i rami che gentilmente lo sfioravano gli avevano fatto sempre pensare a una
carezza della natura nei confronti di un luogo che tanto gli aveva donato e
insegnato.
E anche nei propri confronti, di
riflesso.
Poi vide il pannello in legno
dove venivano affisse le preghiere, e infine la scalinata di pietra con
l’edificio principale sullo sfondo.
Una cartolina deliziosa.
Era arrivato.
Ma, con sorpresa e una punta di
tristezza, non trovò chi stava cercando ad attenderlo fuori, ma solo un giovane
sacerdote, che spazzava il piazzale bisbigliando un mantra a bassa voce.
Con un po’ di timore, Jabu Kido
si avvicinò: “Mi scusi…” chiese titubante, facendogli alzare la testa, “Il
superiore del tempio dov’è?”. L’altro ragazzo sorrise, doveva avere al massimo
un paio d’anni più di lui, era ancora un bambino, “Sei Jabu-kun, vero?” gli
domandò quello di rimando.
Poi, senza aspettare la minima
risposta da parte sua, lo afferrò per la mano e lo trascinò via: “Satomi-ojiisan
mi ha detto di riferirti che tornerà presto, e che intanto dovevo accompagnarti
qui.” spiegò lui, fermandosi infine di fronte alla tomba di Mitsumasa Kido; poi
si congedò con un inchino, sparendo rapidamente via.
Jabu sospirò, levandosi il
cappuccio: era da Novembre che non passava da quelle parti… quasi provava una
sorta di rimorso.
Era vero, non lo riconosceva più
come padre, eppure non riusciva a odiarlo come forse avrebbe voluto: era
stupido, ma era la verità, suo malgrado; era figlio di Mitsumasa Kido, il legame
di sangue ruggiva a gran voce e gli veniva da piangere.
E avrebbe voluto non essere lì
da solo, e desiderava avere accanto, in quel momento più che mai, la sua
famiglia: ma probabilmente nemmeno sapevano di quel suo viaggio, neppure
sapevano che a volte spariva per prendere il treno o la corriera per Kyoto e
trascorrere del tempo in quel piccolo santuario che tanta importanza aveva per
la loro famiglia.
Poggiò con delicatezza il
bouquet sul cumulo di terra mentre un vento leggero gli scompigliava i capelli.
“Ciao papà.”
La voce del ragazzino era
strana, l’intera situazione sembrava paradossale, ai suoi occhi, quella parola
aveva un gusto amaro nella sua bocca.
“Quando Saori-chan ci ha detto
tutto, è stata dura. Molto dura.
Seiya era conciato male e
sembrava non potesse farcela a sopravvivere e la notizia è stata un’ulteriore
mazzata per tutti: non rischiavamo più di perdere solo un amico, ma un
fratello.” perché la voce era così roca? Perché gli occhi gli pungevano?
Il ragazzino si fermò,
osservando la tomba come se questa potesse in qualche modo rispondergli.
Ma la nuda pietra non ebbe un
moto.
“ti ho odiato profondamente, e
così credo anche gli altri, hai abbandonato i tuoi figli per un bene superiore,
molti di noi fratelli non ci sono più… ma il tempo lenisce ogni cosa…” mormorò
faticosamente, asciugandosi una lacrima fuggiasca con la manica: “Quello che
voglio dire… è che non ti odio più.” Confessò, liberando il cuore, l’aveva
detto!
“Non ti odio più.” ripeté il
moro come per convincersi.
Poi cadde in ginocchio,
singhiozzando senza controllo, stringendo i radi ciuffi d’erba e ferendosi le
mani con le pietre sporgenti dal terreno.
Mentre un abbraccio, improvviso
e inaspettato, gli cingeva le spalle, strappandogli un urlo spaventato, prima di
riconoscere il familiare e rassicurante odore di pane e dolci… Ma com’era
possibile che…?
“Avresti dovuto dircelo.” borbottò Seiya, aggrappato al suo collo: “Non dovevi
affrontare tutto questo da solo.” rincarò Shiryu, poggiandogli le mani sulle
spalle, “Siamo anche noi figli suoi.” non lo stava rimproverando, il suo tono
era gentile e affettuoso, era preoccupato per lui, per le sue lacrime.
Unicorn sentiva la testa girare,
erano tutti lì, ne sentiva la rassicurante presenza tutto attorno, anche se non
aveva la forza di alzare lo sguardo per guardarli negli occhi: non ne aveva
bisogno, in fondo erano le vie del Cosmo a collegarli e basta un attimo per…
Eccoli! C’era Ichi, che teneva Nachi per mano… C’erano Hyoga e Shun che stavano
alle sue spalle, con Ikki, Geki e Ban erano accanto a Shiryu…
Non era più solo.
“Come avete fatto?” mugolò il
quattordicenne, stretto a Seiya.
“Il vecchio sacerdote ha
chiamato Saori-neechan, stamattina presto, e le ha chiesto di venire qui con
noi, non era giusto che fossi solo tu a portare questo fardello.” Interloquì
Nachi, facendogli alzare la testa per poggiargli un bacio sulla fronte, un bacio
tenero e affettuoso.
“È questa?” domandò secco Ikki,
avvicinandosi al tumulo con sguardo torvo; Jabu annuì: “Si.” rispose
semplicemente, senza interrompere il contatto fisico col Saint di Pegaso, che
gli stava coscienziosamente accanto.
La Fenice sospirò, e tirò fuori
dalla tasca della giacca una scatola di bastoncini di incenso: “Prendetene uno
ciascuno e aspettiamo Saori.” concluse il maggiore dei Kido, distribuendo ai più
giovani i rametti profumati di cannella e citronella.
E attesero.
§§§
Era una situazione irreale
quella in cui Jabu di Unicorn si trovava coinvolto, irreale e meravigliosa, la
vicinanza dei suoi fratelli lo rinfrancava e lo faceva stare bene: lì, sotto il
vento di Marzo, si sentiva più forte e invincibile che mai.
Con gli occhi chiusi e le mani
giunte, i Kido tutti pregavano per l’anima di Mitsumasa, un’anima pur se
profondamente contorta, quasi corrotta, ad occhi esterni, era pur sempre quella
di loro padre.
Anche Saori era lì con loro.
Non mancava nessuno.
“Beh, a questo punto direi che
non esistono, e non devono più esistere, segreti tra di noi.” affermò Ichi,
rompendo il silenzio che li aveva avvolti: “No?” chiese il giovane; “Ovviamente.
Saori-chan, torneremo per l’Obon?” domandò Seiya, cercando la sorella con lo
sguardo.
Con un dolce sorriso, tenendo
Jabu per mano, la Dea annuì: “Verremo ogni volta che vorrete.” dichiarò lei con
semplicità.
“Venitemi a trovare quando
volete, ragazzi! È bello vedervi!”
La voce dell’anziano sacerdote
strappò un sorriso a Jabu, il cui viso si illuminò non appena lo vide sbucare da
dietro uno degli alberi che circondavano lo spiazzo; gli corse incontro e lo
abbracciò forte, nascondendo il viso sulla spalla coperta dal vestito bianco
latte.
I suoi singhiozzi silenziosi
vennero uditi solo da lui, così come il suo ringraziamento.
Il tutto, sotto lo sguardo
silenzioso della tomba sotto gli aceri.
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