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Un motivetto da usignolo si sparse nell’aria, scandito dalle
labbra strette di una figura. Camminava scanzonata, qualche passo
avanti a noi, quasi stesse facendo una scampagnata. Le suole delle sue
costose scarpe di vernice battevano il ritmo sul selciato inumidito
dalla guazza. Scarpe inadatte ad una notte di duelli. Apriva e chiudeva
il mantello, fingendo fossero le ali di una creatura possente e
temibile. Ne indossava uno lungo fino a terra, di broccato nero. Quella
stoffa era magnifica quanto inadatta ad un mantello da battaglia, il
che testimoniava solo che razza di egocentrico e leccapiedi fosse:
l’aveva scelta solo per assecondare il gusto di Lord Voldemort
per le cose belle e preziose. Gusto che disapprovavo, in quel
frangente, come molti dei miei compagni. Incutere timore con un aspetto
minaccioso, che dichiarasse il nostro status di Purosangue, era un
conto. Volersi arrabattare tra crinoline e orpelli da donnicciole, un
altro.
«Non ti piace, non è così?» rantolò una vocina.
Abbassai appena lo sguardo su Alecto che caracollava al mio fianco. Il
fisico grassoccio e le voluminose sottogonne le impedivano di tenere il
nostro passo mentre avanzavamo lungo la via fiocamente illuminata.
«Esatto» risposi sintetico.
Per me, parlare di Regulus Black, era piacevole quanto essere conteso
fra le zanne di due Ungari Spinati digiuni da un secolo. Di tutti i
Mangiamorte che avevo avuto la sorte di conoscere, era certamente
quello che meno sopportavo. O meglio, era quello che odiavo sopra ogni
altra cosa. Persino quello sciagurato Mezzosangue di Severus Piton mi
riusciva più accettabile: almeno era un mago che sapeva il fatto
suo. Era abile, capace, determinato; uno che stava cercando con ogni
mezzo di redimere le lordure del proprio sangue. Col suo impegno si era
guadagnato il mio rispetto. Black no.
Black era solo un gran chiacchierone dalle maniere accattivanti, bella presenza e poca sostanza.
«Ottima serata per una caccia, vero?» canticchiò.
«Alza la voce, cuginetto» lo incitò Bellatrix,
prendendolo sottobraccio. «Canta! Grida! Dì a tutti gli
indegni che sta per compiersi il loro destino!»
Levarono insieme il braccio, pronunciando l’incantesimo. Un alone
verde, nebuloso e impreciso, tinse la notte. Il grande teschio si
delineò nella volta celeste in pochi istanti, inghiottendo la
luce della luna. L’ordinata schiera delle abitazioni
sembrò essere sprofondata sul fondo di una palude melmosa.
«Laggiù» indicò lei con un sospiro folle.
Nella casa a metà dell’isolato c’erano due luci
accese, entrambe a piano terra. Una si spense in quello stesso istante
e così molte altre dietro le finestre circostanti,
puntualizzando in maniera inequivocabile che la nostra presenza era
nota.
«Andiamo!» rise eccitato Black, trascinandosi dietro la cugina in una corsa a perdifiato fino alla porta.
Due adulti che facevano giochi da bambini.
Quando li raggiungemmo, stavano ancora riprendendo fiato. L’altra
luce all’interno della casa si era abbassata, mutandosi in un
tremulo baluginio.
«Edwards» lesse distrattamente il novellino sulla targa d’ottone, ripetendolo più volte.
Le sua espressione interrogativa non mi sfuggì. Doveva ricordargli qualcuno, ma poco importava.
«È solo un nome, Regulus» sibilò mollemente
Bellatrix. «Non ci riguarda. Sono le loro azioni che veniamo a
punire!»
Ci dividemmo: le donne si Smaterializzarono al piano superiore mentre a
noi era affidata l’irruzione dagli ingressi su strada.
«Prego, messere. A voi il retro» schernì aspramente Avery, battendo una mano sulla spalla del ragazzo.
Questi fece una smorfia azzardando una protesta, subito messa a tacere.
Indossata la maschera, svanì con fare teatrale. Almeno su
quello, eravamo concordi: non poteva dirigere l’attacco alla sua
prima uscita. Doveva accontentarsi di badare ad eventuali vie di fuga.
«Imbecille» mormorai, scrutando intorno in cerca di segnali d’allarme.
Eravamo vicini alle dimore di alcuni Auror, sarebbe bastato poco per
far capire loro dove ci trovavamo con esattezza e mandare a monte
l’operazione. La dea bendata ci assistette, nascondendo il duello
dietro l’omertà dei vicini. La famiglia si era rintanata
in una stanzetta malamente Occultata. Trovarli fu semplice, altrettanto
ridurli al silenzio eterno, nonostante l’angusto spazio in cui
eravamo costretti a duellare. Disarmammo l’uomo ed eravamo pronti
a dargli il colpo di grazia, quando Black ci raggiunse, scansandoci in
malo modo. Tendeva il braccio in avanti, pronto a scagliare
l’Anatema. Avrebbe meritato di riceverne uno a sua volta per quel
gesto da spaccone, ma, all’improvviso, abbassò la
bacchetta.
«Cal?» chiamò, sollevando la maschera perché quello potesse vederlo in faccia.
Per un istante meditai di ucciderlo insieme a quell’altro.
Mostrarsi era un’assurda leggerezza. Preferivamo proteggere le
nostre identità, in attesa del giorno in cui i nostri avversari
avrebbero ceduto definitivamente le armi. Solo Bellatrix combatteva
senza maschera, talmente era sicura di non dare scampo alle sue vittime.
«Calvin, sei proprio tu?»
A giudicare dal tono, doveva conoscere il mago nascosto sotto i lividi e gli abiti laceri.
«R-Regulus… B… B-Black?» balbettò
quello, strabuzzando gli occhi prima di accennare un sorrisetto smunto
e tremante.
Un lampo di speranza lo illuminò. Ruotò lo sguardo su di
noi, per riportarlo su Black. Gli si gettò ai piedi,
singhiozzando terrorizzato. Pareva incredulo di tanta fortuna e lo
supplicava, gemendo sull’orlo sporco del broccato.
«Aiutami… t-ti prego! Tu… noi s-siamo amici!
Diglielo… diglielo! Non voglio… morire! Danielle…
i bambini… loro… t-ti prego, Regulus!»
Quelle parole si abbatterono su Black con la violenza di un Cruciatus.
Un vago stordimento lo colpì, facendolo ondeggiare.
«Ecco,» pensai con orgoglio e disgusto, «sta cominciando».
Ero sempre stato diffidente nei confronti di quel ragazzino, la sua
boria m’insospettiva. Non ne avevo mai fatto mistero, ma nessuno
si era schierato dalla mia parte. La convinzione che l’erede di
Orion Black fosse degno di stima e fiducia era talmente radicata che le
mie rimostranze passavano per ridicoli sfoghi d’invidia. Invidia
per il suo antico blasone completamente anglosassone - noi Lestrange
eravamo in parte Normanni di Avranches -, invidia per la sua innata
eleganza, per la sua raffinatezza, per la sua conturbante adolescenza -
al suo confronto, sembravo molto più vecchio, nonostante ci
dividessero solo quattro anni -. Ora però, la conferma delle mie
proteste appariva fondata: Black titubava.
«Che significa? Io conosco questa persona, era il mio capitano di
quidditch. È un Purosangue quanto noi! E appartiene a
Serpeverde! Non può aver commesso nulla contro…»
strillò, frapponendosi a braccia spalancate.
«Le sue colpe sono gravi. Non possono essere tollerate» spiegò distrattamente la Carrow.
Un rapido sguardo corse fra i due che avevo di fronte. Incertezza,
paura, domande non esternate. E ricordi. Ognuno si stava aggrappando
alla speranza di corrispondere ancora all’immagine presente nella
mente dell’altro. Pregavano di avere la ragione dalla loro,
invocavano i grandi maghi affinché si trattasse solo di un
errore, imploravano per una via d’uscita.
«No. No! Vi sbagliate…» insisté, scuotendo il
capo con forza. «Garantisco io per lui! Giuro che non è
come pensate! Siete in errore! Devono averci dato informazioni
sbagliate, non c’è altra spiegazione!»
Ci furono sguardi di aperta derisione. Credeva davvero quel piccolo
incapace, di poter redimere quel traditore con le sole parole? Che
garanzie poteva fornire, a sostegno della sua totale ed incondizionata
redenzione, quando le tracce del suo disonore erano evidenti in tutta
la stanza? E pensava davvero che fossimo pronti ad uccidere qualcuno
che avrebbe potuto tornarci utile? Qualcuno che avrebbe potuto essere
stato soggiogato suo malgrado? Illuso! Stupido idealista! Noi
conoscevamo perfettamente le colpe vergognose di chi stava difendendo.
«Diglielo! Diglielo, Calvin! Questa è una famiglia di
Purosangue, come le nostre! Danielle è una Purosangue! Me
l’hai detto tante volte, Calvin! Digli che si sbagliano!»
Il traditore tremò, scosso. Chinò il capo e smise di
stringere le caviglie di Black, indietreggiando nell’angolo della
stanza. Il peso del suo peccato era evidente, chiunque se ne sarebbe
accorto. Anche il suo sciocco difensore.
«No… Calvin… non puoi…» biascicò sconvolto.
Che immagine splendida. Sorrisi dietro la maschera, sentendo il petto riempirsi d’orgoglio per me, che mai avevo esitato.
Dubbi, timori, paure, distorcevano i lineamenti delicati in una smorfia indecifrabile.
«Non avresti capito… non l’avresti accettata…
Ho dovuto mentire» ammise infine, girando la testa, il volto
rigato di lacrime. «Io l’amavo, ma tu davi più
importanza al suo sangue che alla sua persona…»
Black fece altrettanto e fu allora che li vide: il corpo di una donna e
di due bambini. Giacevano faccia a terra, aggrovigliati e scomposti,
l’uno sull’altro.
Approfittai della sua distrazione per lanciare l’Avada Kedavra.
Il corpo del reietto cadde in avanti come un sacco vuoto, rumoreggiando
pesantemente sul pavimento.
«Quest’ignobile rifiuto aveva sposato una lurida Nata
Babbana e ci aveva figliato! Schifoso maledetto!» sibilò
Avery, prendendo a calci il cadavere.
Era il più disgustato di tutti noi: lui e quel mentecatto erano
imparentati, anche se alla larga. Nessuno di noi avrebbe potuto
sopportare l’onta di annoverare simili abomini nel proprio albero
genealogico. Meglio liberarsi di una macchia tanto ingiuriosa. Black
avrebbe dovuto capirlo meglio di chiunque altro.
«Oh, povero il mio cuginetto, Regulus!» lo canzonò
ironica Bellatrix, giocherellando con i suoi capelli come avrebbe fatto
una sorella maggiore o una madre. «Davvero credevi che ci fossimo
sbagliati?»
Il ragazzo alzò lo sguardo inorridito su di lei che sorrideva affabile.
«Noi non sbagliamo mai» conclusi.
Questa storia ha partecipato al "Il mio miglior nemico/La mia migliore
nemica" indetto da Maeve_ e Mizar19, classificandosi prima.
Riporterò il giudizio ottenuto al termine del capitolo conclusivo.
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