Schwarz

di livingfiamme
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La forza d'inerzia era qualcosa di straordinario: lui lo realizzò nel momento in cui, con la febbre a trentanove, si scoprì ancora in grado di lavorare, e di farlo anche bene. Poteva essere strano, poteva essere contro natura, ma lui la normalità non l'aveva mai conosciuta, in fondo.
-Signore, il make-up artist è arrivato.
-Sì, digli di aspettarmi. Arrivo fra cinque minuti.
L'uomo sospirò. Prese una compressa di antidolorifico, blanda secondo i suoi standard, e scese le scale drappeggiate di rosso. Ogni passo gli sembrava troppo pesante, e fu sul punto di cadere una o due volte. Ciononostante non ci badò e si stampò in faccia il suo miglior falso sorriso.
Il make-up artist era un giovane uomo sulla trentina, e aveva un viso simpatico.
Forse posso resistere un altro po'.
Forse. Il ragazzo aveva una parlantina ipnotica, e l'uomo si rilassò. Si appoggiò allo schienale della sedia e si lasciò cullare dalle mani esperte di Sean, questo il nome del ragazzo. Il pennellino del fondotinta che scivolava delicatamente sulla sua pelle lo rassicurava.
C'è sempre un artificio per coprire un difetto naturale.
Dopo due ore di seduta trucco l'uomo poté ritenersi soddisfatto. Salutando Sean, risalì le scale di seta e giunto in camera sua aprì la portafinestra. Era al quinto piano, e sotto di lui c'era la stradina che conduceva alle giostre classiche.
Quello era il suo mondo personale, fantastico e privo di brutture. Soprattutto, inesistente. Ecco. Inesistente.
Lui era un essere pesante, e non poteva di certo sperare di alleggerirsi di tutto quel peso con semplici pensieri. No. Non poteva.
L'unico palliativo possibile era illudersi, perché altrimenti... altrimenti avrebbe visto. E sarebbe stato peggio, proprio peggio.
Però che senso aveva? Prese un'altra compressa. Poi un'altra.
Prima o poi starò bene.
Da lì era alto. Da lì si vedeva il cielo.
Aveva preso quella casa in affitto a Roma per due mesi, perché voleva fare una vacanza.
Altro che relax.
Salì fino all'ultimo piano. Si affacciò alla finestra. Le macchine scorrevano tranquille, nel quartiere pariolino. Era una bella giornata, venerdì venticinque giugno millenovecentonovantadue. Una bella serata, anzi. Erano le undici, tre minuti e ventisette secondi, e le stelle brillavano in cielo. Solo che l'uomo non riusciva a vederle. Vedeva tutto nero. Nero black negro Schwarz.
Strinse la ringhiera di ottone fra le mani.
Non ce la faceva. Gli avevano attribuito una violenza non sua. E lui ora era colpevole.
Guilty.
Poggiò i piedi sulla ringhiera; diede le spalle alla strada e il viso al vento. Guardò il cielo, due lacrime caddero.
Cadde anche lui. Non sentì più nulla: solo felicità.
Erano le undici, ventisette minuti e venticinque secondi.
La musica era morta. E Michael Jackson anche.
 





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