THIS
IS PEACE
(31 Ottobre 2010)
Tra le lapidi di questo
cimitero aleggia quella fuggevole
nebbiolina che, da piccola, vedevo in tanti disegni fatti dai miei
compagni di
scuola ad Halloween. Quando la maestra ci faceva dipingere ritratti di
cimiteri
più o meno abbandonati dove potevano alzarsi zombie da un
momento all’altro da
sottoterra, la nebbiolina fatta di vapore ed anime perse non poteva mai
mancare.
E non mi era mai capitato
di venire a portare i fiori
sulla tomba dei miei genitori proprio la sera del 31 ottobre,
all’imbrunire,
con una luna che cresce in un cielo azzurro scuro e il freddo che mi
sale per
la spina dorsale e mi arriva diritto al cuore.
Mi accuccio e sistemo i
crisantemi gialli con cura,
mentre sorrido alle foto già sbiadite impresse sulla lastra
di marmo chiaro.
Sono passati cinque anni ormai, ma nei miei orecchi ancora odo le loro
risate e
il nome con cui i miei genitori mi chiamavano: li rivedrò un
giorno, ne sono
certa, in quel paradiso che da anni anelo anch’io.
Mi alzo e mi guardo
attorno, recitando l’ennesimo ‘Eterno
Riposo’: il cimitero è deserto e l’ora
di chiusura si avvicina. E allora è
meglio se me ne vado: mando un ultimo bacio alle loro immagini,
all’effimero
corpo che giace ormai sfatto dentro una cassa di legno, e mi avvio
lungo il
vialetto, tra le tombe solitarie, in un silenzio tetro.
In quel quartiere
periferico di casette basse di legno in
cui si trova l’Evergreen Cemetery di Los Angeles, nessuno
nemmeno per strada…
se non qualche gruppetto di bambini in maschera alle prese con il
‘trick or
treat’ di Halloween. E il buio è sempre
più fitto e sulla carreggiata passano
pochissime automobili. Tutti si saranno già rintanati a
casa, con il cesto di
dolci pronto per i bambini che suoneranno il campanello, ma non io.
Perché io non
ho una vera casa.
Non ho dolci da offrire.
Non ho bambini.
Non ho una famiglia.
In fondo sono sola.
Questo pensiero mi fa
rabbrividire anche di più. Mi
stringo nella mia giacca leggera e solo in quel momento mi rendo conto
che ho i
piedi gelati: le calze nere sarebbero anche di lana, ma i sandali non
sono
chiusi e il gelo si è impossessato delle mie
estremità.
Affretto il passo, non ho
guanti, allora metto le mani in
tasca e, con sorpresa, ci trovo un dollaro.
Sì, certo.
E’ il resto che mi hanno dato quando ho
acquistato i fiori per i miei genitori, ora ricordo. Stringo la moneta
tra le
dita come se fosse la cosa più preziosa che ho e
improvvisamente mi rendo conto
che anche il mio stomaco è gelato e un latte caldo potrebbe
essermi d’aiuto per
sciogliere il ghiaccio che mi attanaglia.
Guardandomi intorno,
dall’altra parte della strada noto
l’insegna di un bar e un uomo che, sceso da una moto, sta
entrando per la porta
di vetro.
Sì. Il caldo di
un bar e un latte bollente.
Ma… lo so,
è peccato.
E’ un peccato
che si chiama ‘gola’.
Dovrò andare a
confessarmi, poi.
Ma un altro brivido mi
percorre la schiena e sono certa
che se non mi scaldo almeno un po’ potrei anche ammalarmi.
E allora attraverso la
strada di corsa, decisa, in mezzo
ai fantasmi di nebbia di una sera d’autunno.
Dannazione, merda, cazzo,
porco***!
E chi più ne ha
più ne metta!!! Porca puttana troia!
Appoggio con furia il casco
della moto sul bancone di
quel merdoso bar che ho trovato per strada mentre girovagavo in moto
senza meta
per le strade di Los Angeles, continuando ad imprecare tra me e me
furiosamente.
Nebbia a Los Angeles?
Nebbia a Los
Angeles?!!?!??!!?
Credevo che la nebbia al
tramonto proveniente dalla baia
fosse una prerogativa di San Francisco, e non della città
degli angeli,
accidenti! Non vedevo nulla di nulla, in moto, e, soprattutto, non so
nemmeno
dove sono finito!
Ma in fondo non mi importa.
Mi sono perso e…
forse è meglio così, perché…
Beh…
io.non.ce.la.posso.fare.
No. Non ce la faccio
più.
Sono a frantumi.
Sono stanco, ridotto in
miliardi di pezzi che non
ricomporrò mai più, me lo sento. Non questa volta.
Mi siedo su uno degli
sgabelli davanti al bancone ed
ordino una birra. La prima di una lunga serie, ho deciso.
L’anno scorso a
quest’ora stavo intagliando la zucca di
Halloween con K., la mia ragazza, e sua figlia, mi nutrivo di biscotti
fatti in
casa e bevevo thé caldo. Quest’anno la zucca con
K. e sua figlia la intaglia un
altro uomo e a me hanno chiuso la porta in faccia.
Giustamente.
Perché io per
primo non mi sono comportato bene con loro.
Perché non sono
affidabile, posato, tranquillo,
responsabile come
il nuovo fidanzato di
K.
Perché non posso
essere un buon padre per sua figlia,
sono uno sbandato puttaniere e tutto quello che è successo
in questo 2010, lo
dimostra ampiamente. Tutto il gossip su di me, le mie tre donne a
notte, le
groupies e le modelle di vent’anni più giovani di
me. Tutto il puttanaio di cui
mi circordo, le mie notti brave, la mia fama di dongiovanni incallito,
le mie
colossali sbronze, le mie innumerevoli dipendenze.
Tutto è contro
di me.
E quindi K. non si fidava
più.
Non si fida più.
Giustamente.
Ma mi fa male.
Un male da morire.
Un male al cuore al quale
non trovo rimedio, da mesi, non
solo da oggi.
Perché io la
amavo, a mio modo ma la amavo. Era l’unica
donna che mi capiva al primo sguardo, che aveva capito chi fossi
davvero, che
non stava con me per soldi o fama. O, per lo meno, non del tutto.
Ma io ho rovinato tutto.
Soltanto io.
E trovarmi per caso in
questo bar vicino ad un cimitero
della periferia, dopo averla girata per tutto il pomeriggio, proprio
questa
sera di Halloween, io, da solo con il barista, è ancora
peggio. Una umiliazione
senza precedenti, per me.
Una guerra persa.
Una guerra contro tutto e
tutti.
E anche contro me stesso.
Prendo la birra e ne bevo
un lungo sorso. Ho il malumore
alle stelle, ma se torno a casa da Jared, mio fratello me lo fa venire
il
doppio tentando di psicanalizzarmi.
Appoggio i gomiti al
bancone e mi prendo la testa tra le
mani, mi stringo le tempie, socchiudo gli occhi: vorrei far uscire
tutti i miei
pensieri, tutta la rabbia e il dolore che provo, ma non so come, cosa
dire,
come agire e…
La porta del bar si
spalanca e la folata di vento quasi artico
che mi si appoggia sulla nuca come una mano gelida, mi fa girare di
scatto.
Ecco.
Attorniata da un velo di
nebbia diaccia, ci mancava anche
quella ragazza lì, che entra nel bar vestita in maschera,
per accrescere
l’anima nera che mi divora.
Due o tre anni?
Non so, ma è
tanto che non entro in un bar.
E quei due paia di occhi
che mi fissano intensamente non
mi aiutano ad affrontare con leggerezza questa cosa.
Il barista e quel
motociclista che ho visto entrare
prima, mi osservano ad occhi aperti, spalancati, dalla testa ai piedi.
Lo so che è
quasi ora di cena e sono una donna sola ma…
non hanno mai visto nessuna vestita come me?
Ed io arrossisco. Non sono
abituata a vedermi osservata
così. Mi ci vuole un attimo per riprendere il controllo,
vincere l’imbarazzo e
ad avanzare verso l’interno del bar, chiudendomi
l’entrata dietro.
Timidamente saluto e mi
avvio verso l’ultimo sgabello del
bancone, quello più lontano dalla porta e da quello strano
motociclista che,
con stizza mal nascosta, ora si è rimesso a fissare il suo
bicchiere di birra
mezzo vuoto.
Il barista, di chiara
origine ispanica, con coda di
capelli neri lunghi fino a metà schiena ed orecchini a
go-go, mi si avvicina,
mentre mi arrampico sullo sgabello ed adocchio gli addobbi di Halloween
appesi
un po’ ovunque: “Che ti porto,
bellezza?”, chiede, dando una passatina al
bancone con uno straccio unto e sfilacciato che ha visto fin troppe
passatine
sul bancone.
Mi schiarisco la voce,
arrossendo nuovamente. Erano
secoli che nessuno mi chiamava così: “Un-un
bicchiere di latte caldo…”
“Col
cioccolato?”
“N-no, no, va
bene anche senza…”, rispondo con un filo di
voce, mentre il barista va verso il frigorifero.
In realtà se
non stessi morendo congelata, da lì sarei
già fuggita a gambe levate, visto che mi sento in un
imbarazzo tremendo, ma
l’orologio sul muro segna le sette e mezza e io ho
l’autobus per tornare tra
oltre mezzora… posso stare qui ancora per un
po’… meno male che gli avventori
sono pochi… non c’è nessuno, nemmeno al
biliardo o ai giochi elettronici.
Solo della musica in
sottofondo che non sento bene e una
piccola TV accesa ma senza audio, dietro alle spalle del barista,
incastrata in
un mobile zeppo di bottiglie e bicchieri di tutte le fogge e colori.
E quell’uomo che
beve la sua birra, pensieroso e
sostenendosi la testa con una mano. Finché il barista mi
prepara il latte,
curiosamente mi metto a fissarlo: giacca nera di pelle, fazzoletto nero
a
fiorami attorno alla testa, capelli castani corti e spettinati, una
corporatura
robusta e prestante, un bell’uomo e…
Fermo i pensieri subito.
No, questo peccato si
chiama ‘Desiderio’.
Metto anche questo in coda
per la confessione?
No.
Meglio di
no.
Il barista mi porta il
latte bollente. Finalmente.
Appoggio subito le mani sul vetro caldo del bicchiere, sospirando.
Meno di mezzora e poi
sarò al sicuro dentro un autobus.
E questa trasferta
dall’altra parte della città potrò
archiviarla, nel reparto ‘uscite necessarie ma
inopportune’.
E questo unico pensiero mi
tranquillizza.
Il terzo bicchiere di birra
fresca mi scivola giù che è
un piacere e la mia mente si sta già annebbiando.
Finalmente. Sono stanco di
pensare ai miei guai. Anzi, sono stanco di pensare e basta.
Dove si preme il pulsante
per smettere di pensare? In
quale punto della testa si trova? Qualcuno me lo dica, accidenti!
“Serataccia,
stasera?”, mi chiede il barista, con un
sorrisino di sbieco.
Chissà quanti ne
ha visti, di tipi depressi come me
semisdraiati sul suo bancone: “Sì. Anche la tua,
vedo.”
Il barista si appoggia sul
lavello e si mette a lucidare
un bicchiere. Non gli par vero che qualcuno gli dia retta:
“Sì, pochi clienti,
stasera… tutti rintanati in casa per Halloween.”
“Sai cosa ti
dico, amico? “, lo guardo negli occhi,
alzando la birra come per brindare. “Che Halloween
è una festa di merda.”,
sogghigno.
Il barista si mette a
ridere: “Decisamente sì.”
“E poi tutta
questa gente in maschera… adulti
anche…”,
con la testa indico la ragazza seduta in fondo al bancone,
“Ma che cazzo… Chi
glielo farà fare?”
Il barista mi si avvicina
con il viso con aria complice,
l’occhio da uomo di mondo: “La bambola
dovrà rimorchiare a qualche festa,
stasera…”
Ci giriamo entrambi a
fissarla, ridacchiando da ebeti, ma
la bambola in questione sta ipnotizzando il bicchiere di latte caldo
che tiene
stretto tra le mani e non bada affatto a noi.
Mi metto a fissarla,
esaminandola. Beh, vorrà anche
rimorchiare, ma vestita così, non so se ci
riuscirà. Mi sposto un attimo per
osservarla meglio: una giacca nera cerata tipo impermeabile, una gonna
lunga
grigia scura oltre il ginocchio, calze nere spesse e strani sandali
aperti. Un
velo nero in testa a coprire dei capelli castano chiari, tagliati corti
e con
frangetta, una camicetta bianca candida di cui vedo il colletto e i
polsini,
abbottonata sul collo al limite del soffocamento.
Non vedo seni al vento,
cosce esposte, rossetti color del
fuoco o ciglia finte che possano attirare chissà che uomo,
anzi… la ragazza è
piuttosto insignificante e sciatta… chissà
perché si è vestita così… a
che
festa andrà? Quelle delle depresse della parrocchia?
Tenterà di concupire il
sacrestano, forse?
“Dolcetto o
scherzetto?”
Sento il barista che
scoppia a ridere alla vista dei tre
bambini vestiti da fantasmini che sono entrati nel bar e mi giro pure
io. Il
mio pensiero corre subito alla figlia di K.: come sarà
vestita quest’anno? E
starà anche lei facendo il giro delle case vicine?
Chissà…
Il barista offre caramelle
a manate e i bambini
entusiasti se ne vanno subito, di corsa, a caccia di altri a cui
estorcere
dolcezze.
Ritorno alla mia birra.
“Dolcetto o
scherzetto?”, ma il barista stavolta non ride
e si limita ad alzare le braccia al cielo. Mi giro verso la porta
lentamente.
Due uomini con un
passamontagna calato sul volto e
vestiti da scheletri ci puntano due pistole addosso.
Sempre meglio.
Odio Halloween ogni momento
di più.
L’ultima voce
non era affatto quella di un bambino e
aveva anche una strana intonazione.
Mollo il latte, mi giro
allarmata, scendo di scatto dallo
sgabello e mi ritrovo una canna di pistola contro. Carica.
“Ferma
lì, sorella. E alza le mani.” Uno dei banditi mi
si è avvicinato velocemente, mentre il secondo bandito
chiude a chiave la
porta, gira il cartello sulla scritta ‘CLOSED’ e
poi punta la pistola sulla
nuca del motociclista, chiedendo in malo modo al barista di svuotare la
cassa.
Ho la pistola puntata sul
petto: “Svuota le tasche,
sorella.”
“Io…
non ho nulla… solo… un dollaro.” E
glielo do subito.
Gli occhi del rapinatore
mi guardano male: “Cellulare?”
“No,
no…” Rovescio le tasche della giacca e poi la apro
e
ribalto anche le tasche del vestito grigio scuro da novizia che
indosso. “Non
ho niente. Noi… suore… noi suore non portiamo
niente.”
“Il crocefisso
che hai al collo?”
“O-ottone.”
Il bandito per fortuna si
convince che non ho nulla di
cui rapinarmi. Dalla voce sembra anche piuttosto giovane:
“Vabbè, sorella, mettiti
là in fondo, non ti muovere e non ti succederà
nulla.”
Obbedisco e mi appiattisco
contro la porta in fondo al
bar, quella che dà ai bagni, mentre il rapinatore si fa dare
dal motociclista
il portafogli e un cellulare, mentre l’altro sta svuotando la
cassa tenendo
sotto tiro il barista.
“E ora,
fratello, vai là in fondo con tua sorella.”,
ordina, ma il motociclista non si muove. E il rapinatore gli appoggia
la
pistola sul collo. “Muoviti, amico…”
E allora l’uomo
si alza lentamente e poi, di scatto, si
gira e tira un pugno sul braccio armato del rapinatore che perde la
pistola per
terra, per poi saltargli addosso.
Ma il secondo rapinatore
colpisce alla nuca il barista e
poi si avventa anche lui sul motociclista, con la pistola puntata. Lo
prendono
per le braccia mentre tenta di dibattersi e lo buttano a terra, davanti
a me.
Lui cade supino, semisvenuto ai miei piedi, battendo pesantemente la
schiena e
la testa a terra e il rapinatore gli punta la pistola contro.
“NO, NON
SPARARE!”, con uno scatto, mi metto davanti
all’uomo armato con le braccia alzate, “Non
sparare, per favore. Non
sparare! Noi… non ci muoviamo, promesso…
Vi prego…”
“Togliti da
davanti, sorella…”
Congiungo le mani, mi
inginocchio ai loro piedi: “No, vi
prego… avete avuto quel che volevate, per favore…
per amor di Dio, non uccidete
per pochi soldi… Non fatelo, vi prego…”
Il bandito mi punta la
pistola alla fronte, proprio al
centro: “Hai finito di prelevare i soldi?”, chiede
all’altro, scrutandomi negli
occhi come per leggermi la mente.
“Sì.”
L’uomo annuisce
e abbassa l’arma. “Bene. Allora andiamo
via. Ma prima sistemiamo i due piccioncini.”
I due ci legano le mani
dietro la schiena con una corda e
poi uno contro l’altro, dorso a dorso, come salami, come nei
cartoni animati,
con le nostre mani che si toccano. Poi ci chiudono a chiave nella
dispensa,
buttandoci sul pavimento gelato, al buio.
Stringo gli occhi, facendo
finta di non sentire male al
gomito sul quale sono caduta, e comincio mentalmente a pregare.
Grazie a Dio non ci hanno
fatto nulla.
Ma temo che
perderò il mio autobus.
Sono caduto su una spalla
con violenza e domani avrò
sicuramente un grandioso ematoma viola. E se questa cosa mi
impedirà di
suonare, sarò furioso, lo so.
Ma per fortuna, e grazie
alla ragazza, sono vivo.
Soffoco una bestemmia e
tento subito di alzarmi,
mettendomi seduto, ma non mi riesce di piegare le gambe a sufficienza e
quello
che ottengo è soltanto di schiacciare con il mio peso,
doppio del suo, mi sa,
la ragazza legata a me.
“Ahia.”
Sbuffo, infastidito.
“Mi dispiace, honey. Ma se fai forza
anche tu sulle gambe ci alziamo, sennò restiamo qui sdraiati
fino a domani.” Il
buio è rischiarato soltanto dalla debole luce proveniente da
una minuscola
finestrella di nemmeno mezzo metro di lato da cui passa solo la luce
lattea
della luna. “Al mio tre, spingi con la schiena, va bene?
Piega le gambe, fai
forza e vediamo di alzarci…”
“Sì.
Ho capito.”
Inizio il conto alla
rovescia, la ragazza ubbidisce e in
un attimo siamo in piedi, diretti verso un presunto interruttore vicino
alla
porta, che trovo e accendo con un gomito, anche se con
difficoltà.
La luce proiettata dalla
lampadina sporca è poca e
arancione, ma sufficiente per capire dove siamo.
Mi guardo un attimo
intorno: una stanzetta di un paio di
metri per lato, foderata di scaffali pieni in ogni ordine e grado di
scatole,
barattoli, lattine più o meno grandi di cibo e bevande. Una
dispensa. “Beh,
almeno non muoriamo di fame e sete…”, commento,
puntando gli occhi su una
cassetta di birra
rossa doppio malto
olandese.
“Ehm…
e adesso?”, sento che chiede lei.
“Hai un coltello,
qualcosa per tagliare le corde?”
“No.
Però… Aspetta…”
Sento che comincia a
muovere le mani e gli avambracci e i
tre giri di corda con cui siamo avvolti iniziano a scivolare verso
l’alto. Ho
capito cosa vuole fare: dalla fretta non siamo poi stati legati
così stretti e
lei lo ha capito. In un attimo ho la corda attorno al collo e siamo
liberi. Poi
è un gioco da ragazzi slegarci uno con l’altro le
mani, sciogliendo i nodi.
E finalmente,
massaggiandomi i polsi, mi giro e la posso
guardare in faccia.
Nessun filo di trucco,
pelle tanto bianca da essere
diafana, ciglia nere lunghe e arcuate, espressione tranquilla, serena.
Lei mi
sorride un attimo ma poi abbassa subito gli occhi, due stupendi occhi
azzurro
chiaro.
“Tutto a
posto?”, le chiedo.
Annuisce:
“Sì-sì.”
“Mi dispiace che
tu non riesca ad andare al tuo party di
Halloween, sweetie…”, le dico, per rompere il
ghiaccio. Ma stranamente la sua
espressione tranquilla mi innervosisce, mi mette sul chi vive e mi
intimidisce
in un qualche strano modo. Io, che non sono timido con nessuna donna e
ci provo
con tutte. A priori.
La ragazza mi guarda in
modo interrogativo: “Scusa, non
capisco…”
Cos’è?
Una mezza scema? “Ma… non hai preso il tuo vestito
per Halloween dal set di ‘Sister Act’? ”
Lei scuote la testa:
“No… ehm… no…
perché dovrei?”
Mi viene il dubbio: o forse
il mezzo scemo sono io? “Ma…
non sei vestita in maschera?”
“No. Veramente
io…
beh… io… sono una suora per davvero.
Una suora delle sorelle di San Francesco,
una… una novizia.”
SUORA?!?!?!?!?
Mi batto una mano sulla
fronte, strappandomi il foulard
ormai ridotto ad un cencio e ficcandomelo nella tasca del giubbotto:
“Per la
madonna, adesso non posso nemmeno bestemmiare in pace!”
Non mi tappo gli orecchi
con le mani solo perché un tempo
bestemmiavo più di quanto faccia lui, credo. Certe cose
escono di bocca senza
pensare, dannata e compromessa natura umana, e questo ragazzo mi sembra
proprio
nervoso: “No, è meglio di no. Non è
bestemmiando che usciremo di qui.”, gli
dico, tanto per dirgli qualcosa.
Perché quello
che voglio fare adesso, è uscire e sparire
nella nebbia e non certo fare conversazione. Devo tornare al convento
di corsa
e poi scordare questa brutta e strana avventura. E allora comincio con
il
provare a tirare la maniglia della porta. Niente, è chiusa a
chiave. E quindi
provo a bussare forte alla porta chiamando il barista, ma temo che sia
ancora
svenuto dietro il bancone, visto che non risponde e al di là
della porta non si
sente alcun rumore.
Sospiro e mi appoggio
all’uscio, girandomi a guardare il
motociclista: “Niente. Che si fa?”
“Come ti
chiami?”
Certo che altre domande
più inutili non poteva farmene,
vero? “Ehm… Suor Francesca.”
“Ma il tuo vero
nome qual è?”
Non lo direi per nessun
motivo al mondo: “Non importa…”
Ma lui insiste:
“Voglio saperlo.”
“No, non
è importante. Il mio vero nome non esiste più. E
il tuo, invece?”
“Shannon.”
Bello.
Ma è un nome da
donna, per lui che è uomo al diecimila
per cento. Scaccio quel pensiero subito e cerco di non accorgermi di
quanto
siano belli quei suoi occhi e quelle sue labbra perfette:
“Ah, OK… ma… ehm…
Shannon… come usciamo da qui?”
“Hai una
forcina? Proverei a fare come MacGyver.”
Quasi mi verrebbe da
ridere all’idea di Shannon che
costruisce una bomba con un barattolo di sottaceti. “Oh,
sì… Sì,
sì…” Me la
tolgo dalla testa e il velo mi scivola e così lo faccio
scivolare e lo metto in
tasca, mentre gliela porgo e lui la infila nella serratura e si mette
ad
armeggiare.
Ma la porta non si apre e
allora Shannon comincia a
guardarsi attorno, buttando la forcina per terra e cominciando ad
innervosirsi,
ancora di più: “Ma vuoi che non ci sia niente qui
che può servire? Un piede di
porco, una lima, una leva? Niente di utile in mezzo a tutte queste
cose?”
Ci mettiamo a cercare, ma
non c’è nulla se non cibi in
scatola, e anche l’assalto di Shannon alla finestrella
coperta da una grata non
dà alcun esito. Mi siedo abbattuta su una cassa di legno
sotto la stessa
finestrella.
Tutto mi sarei aspettata
ma non di restare chiusa in una
dispensa con un motociclista tatuato.
Sospiro e prendo il mio
rosario di tasca.
Prima o poi qualcuno
entrerà in questo bar e capirà
cos’è
successo, chiamerà la polizia e ci apriranno la porta.
Non
c’è nulla che possa fare, al momento.
Sì, una cosa
c’è.
Mi faccio il segno della
croce e sospiro: non mi resta
che attendere.
E pregare.
Francesca.
E ovviamente
avrà preso il nome da San Francesco, no?
Sicuramente. Ovviamente ovvio. Banale, direi…
Mi metto a fissarla: la
ragazza ora ha anche preso il
rosario e si è messa a pregare e devo dire che il suo
atteggiamento mi irrita
alquanto. Mettersi a pregare a che serve? Quando mai mi è
servito a qualcosa?
Cazzate.
Vado verso il mobile sulla
destra e prendo una
bottiglietta di quella birra che avevo visto prima, aprendone il
coperchietto
sul bordo di metallo del ripiano, e ne prendo un lungo sorso,
passeggiando per
la dispensa.
Avessi almeno il cellulare,
accidenti. E invece ho perso
anche quello e tutti i numeri delle groupies che ci avevo registrato
dentro.
Mannaggia!
Mi giro verso di lei:
“Perché preghi?”
La ragazza fa spallucce:
“Non possiamo fare nulla…”
Le sogghigno: “Se
bestemmiare non serve ad uscire, pensi
che pregando si apra la porta? Pensi che Dio, con tutte le cose che ha
da fare,
si preoccupi di me e di te rapinati e chiusi in una dispensa,
stanotte?”,
scoppio a ridere, “Deve far girare il cielo, la terra e
l’intero universo, non
ha tempo per noi… non ha tempo per le sue
creature…”, lo dico con rabbia e come
se quell’ultima parola fosse tra virgolette.
La ragazza abbassa gli
occhi e guarda il rosario,
indifferente: “Pensa quello che vuoi, Shannon. Non devi
convincermi di nulla,
come io non sto cercando di convincere te. Io non faccio proselitismo.
Tanto
meno chiusa in una dispensa.”
Ah, no? Ma io sono
irritato, incazzato nero di essere
chiuso qui dentro, furioso, di cattivo umore già da prima e
devo pur
prendermela con qualcuno: “E perché?”,
le ringhio contro.
Francesca guarda la luna
dalla finestrella: “Perché penso
che ognuno trovi la sua fede in qualcuno o qualcosa soltanto quando
è il
momento… né un minuto prima, né un
minuto dopo… il proselitismo non serve.”
Ecco, brava. Mi ha tappato
la bocca e questa cosa mi
irrita ancora di più. Finisco di bere la birra e poi, con
rabbia, getto la bottiglietta
contro il muro di mattoni, mandandola in frantumi, vicino a lei. Ma la
ragazza
non si scompone un attimo. “Perché sei
così arrabbiato, Shannon? Perché sei in
guerra con il mondo intero?”
Mi giro verso di lei con i
pugni chiusi: “NON SONO IN GUERRA
CON NESSUNO, PORCO***!”
Ecco! Mi sono saltati i
nervi.
Mi alzo di scatto dalla
cassa e lui viene contro di me.
E’ imbestialito e non capisco perché. E la domanda
che mi fa la capisco ancora
meno.
“Perché
ti sei fatta suora?”
Resto un attimo interdetta
ma poi alzo le mani per
tranquillizzarlo. E’ quasi ubriaco e si sa che gli ubriachi
sono poco propensi
al ragionamento. Ci provo lo stesso. “Shannon, stai
calmo… arriverà qualcuno
presto, OK? Non ti agitare…”
“Rispondi.”
E il tono in cui lo dice
mi fa quasi paura. Dopo tutto
sono sola, indifesa, chiusa in una dispensa con un uomo sconosciuto che
si è
scolato birra come fosse acqua e che potrebbe essere un maniaco o un
assassino:
“Ehm… ascolta… non… non mi
pare il caso. Né il momento. Stai tranquillo,
dai…”
Ma lui si avvicina ancora
di più e mi prende per un
polso, gli occhi color dell’inferno e i denti stretti:
“DIMMELO. ORA!”
Cerco di divincolarmi, ma
ottengo solo che lui stringa di
più: “Ma… perché…
perchè ti interessa?”
“VOGLIO
SAPERLO!!!”
Mi divincolo di nuovo, il
polso mi fa un male tremendo,
ma non riesco a liberarmi e l’espressione di Shannon
è sempre più rabbiosa. Va
bene. Mi arrendo ma… “Lasciami il braccio,
allora…!!!”, gli urlo addosso. Lui
ubbidisce, si allontana di un passo e io mi risiedo sulla cassa di
legno.
Prendo un lungo fiato tremolante. Magari raccontando il tempo passa ed
arriva
qualcuno, ma... fa male. Fa molto male. “Sei… sei
sicuro che vuoi saperlo?”
Shannon annuisce:
“Certo che sì.”
“OK.”
Prendo fiato nuovamente, respiro col diaframma,
cerco un bandolo da cui partire, un inizio da cui raccontare la
vicenda. Il mio
peccato. Quello per il quale il mio inferno ultraterreno si
spalancherà,
nonostante sia una suora. Già lo so.
“Io… io ho ucciso delle persone.” E mi
fermo subito.
“Cosa?”,
la voce di Shannon è un sibilo. Si accuccia
subito davanti a me, incredulo come se qualcuno lo avesse colpito sulle
gambe,
una mano appoggiata sulla cassa, gli occhi spalancati. “Cosa
hai detto?”
Smetto di guardarlo e
abbasso il volto, mi guardo le mani
alla luce della luna. “Sì.”
“Ma,
ma… Cristo! Sei una suora!!!”, quasi urla.
“Io…
non sono sempre stata una suora, io… io sono stata
in Iraq, come soldato, tre anni fa. Guidavo un elicottero e…
ho bombardato
villaggi, ucciso uomini e donne e bambini… E… ne
ho viste talmente tante che…
beh… odio questo mondo e, non voglio averne più
nulla a che fare, ecco…” Mi
guardo fisse le mani, senza avere il coraggio di guardarlo in viso,
terrorizzata dall’idea della sua espressione, gli occhi che
mi si riempiono di lacrime.
“Anche se non potrò mai riportare in vita in
nessun modo chi ho ucciso.
Nessuno. Nessuno di loro. E… beh… l’ho
fatto soltanto per avere i soldi,
soltanto perché i soldati volontari vengono pagati
abbastanza e io all’epoca
non avevo un dollaro, ero orfana e...” Mi passo una mano sul
viso. “Alla fine
ho ucciso per denaro. E ora non voglio più nemmeno quello.
Ho fatto voto di
povertà.”
Alzo gli occhi: Shannon
è lì accucciato davanti a me e mi
scruta ad occhi spalancati, con un’espressione che non
capisco del tutto.
Sorpresa, rammarico, dolore, non so… non capisco…
Ma forse non dovevo dirgli
queste cose, non dovevo fargliele pesare: “Io…
scusami, non… non dovevo
raccontarti niente, non…”
Sembra quasi che la
sbronza gli sia anche passata. Sembra
più calmo e lucido. “Scusami tu. Non avevo diritto
di chiedertelo. Non erano
affari miei, in fondo… Io… Non volevo farti
ricordare… Ma…”
Scuoto la testa, ormai
è tardi. E’ tardi per tutto. La
mia vita è cambiata troppe volte perché non sia
tardi. “Non ha importanza,
Shannon… Io, non sono più quella, quella ragazza
è morta. Ora sono Suor
Francesca. E basta. Il tenente dell’esercito americano Susan
Baker, esperta di
arti marziali, con tanto di tatuaggio fatto a teschio sul braccio, che
scorrazzava per il deserto iracheno sparando a tutto e a tutti, drogata
fino al
midollo per sopportare quello che faceva, ora… ora non
esiste più...”, dico,
con amarezza e un dolore radicato nel profondo, sordo e forse
totalmente
inutile.
Shannon si siede sulla
cassa vicino a me. “Ed è per
questo che l’hai fatto?”, chiede, sporgendosi verso
di me, vicinissimo, a
cercare i miei occhi, costringendomi ad appoggiarmi alla parete.
Non capisco cosa dice:
“C-cosa?”
“Tu…
tu… per questo prima ti sei messa davanti a me? Mi
hai salvato dai banditi? Per questo? Per espiare le tue
colpe?”
Spalanco gli occhi, non ci
avevo nemmeno pensato, non
avevo pensato razionalmente di averlo fatto per quello:
“Io… non so… l’ho fatto
senza pensarci… mi è venuto spontaneo, non
so…”
“Ma tu se avessi
voluto, avresti potuto…”
Abbasso lo sguardo, ho
capito cosa vuole sapere: “Sì…
Io…
io avrei potuto spezzar il collo ai banditi in due secondi. A tutti e
due.”
Mi passo una mano sulla
fronte. Sono sconcertato.
E una miriade di pensieri
mi passano per la mente in un
attimo. Luoghi comuni, forse, ma assolutamente veri.
E’ vero che
niente è come sembra.
E’ vero che tutto
può accadere in un attimo.
E’ vero che la
vita è fatta di secondi diversi uno
dall’altro.
E’ vero che in
questo momento potrei essere morto.
E che Francesca faceva
parte di un mondo di morti,
portatori di morte.
Io… non avrei
mai creduto di entrare nel suo mondo in
questo modo. In questa sera assurda, squallida e desolata per me.
Non ci avevo mai pensato,
nemmeno quando con mio fratello
giravo il video di “This is war”.
Perché la mia
vita scorre in modo completamente diverso.
Musica.
Party.
Groupies.
Droga.
Alcool.
Divertimento.
Ma al mondo
c’è il resto.
Guerra.
Armi.
Disperazione.
Odio.
Soldati.
Morti.
Paesi lontani nello spazio
e nel tempo, per i quali le situazioni
che vivo io sono così disgiunte da essere assurde,
inesistenti, incredibili.
“Oddio…”,
non mi viene niente di meglio da dire,
sicuramente non da bestemmiare. Mi metto una mano sulla fronte,
sconvolto.
“Io…
Shannon… questa cosa che ti ho detto…
beh…”
La voce di Francesca
è un sussurro e lei abbassa
nuovamente gli occhi mentre io mi porto le mani al petto. Come per
giurare. “Sì
sì… io… non dirò
niente… lo giuro… io…”
La ragazza scuote la testa
e mi appoggia una mano su un
braccio: “No, non è quello…
è che… non sentirti in qualche modo colpevole,
ecco… Non sentirti in colpa se la tua vita, qualsiasi sia,
è diversa da quella
che ho avuto io… quando lo racconto la gente pensa
che… insomma… pensa che
sentirsi in colpa significhi giustificarsi in qualche modo per avere
una vita
migliore di quella di altri… io… so come ci si
sente… e non voglio che tu…”
Francesca ha colpito nel
segno. E’ vero. In questo
momento mi sento un peso addosso che tutto quello che credevo fosse
importante
prima, mentre mi piangevo addosso al bancone del bar, è
niente. Perché quelle
erano solo cazzate, in confronto a quello che deve avere passato lei. E
i suoi
compagni.
Gettati per soldi in una
cosa più grande di loro, orrenda
e disumana solo come può essere una guerra.
Una guerra vera.
La ragazza si sposta la
frangetta da un occhio e
continua: “Una volta un mio compagno d’armi mi ha
detto che ognuno nasce con un
percorso già in parte segnato e che è solo suo.
Lui era induista e mi diceva
che i tre guna della prakriti, la materia di cui siamo fatti, generano
il tuo
karma e il tuo comportamento nella vita. E che i klesah, i tuoi
difetti,
influenzano il tuo karma e ne sono influenzati…
insomma… che in fondo nessuno è
colpevole del destino assegnato al momento in cui nasce, ma nello
stesso tempo
lo diventa. Un peccato originale da espiare e da correggere. Per
cui… non
sentirti in colpa per la mia vita. Pensa solo alla tua. Solo quella
è
importante.”
La guardo ad occhi
spalancati ed improvvisamente capisco
molte cose.
Di lei.
E di me.
Dei molti miei errori
ripetuti.
Sempre quelli.
Giorno dopo giorno.
Anno dopo anno.
E che probabilmente si
ripeteranno ancora.
E per sempre.
Perché sono
fatto così. E non è una giustificazione, ma
solo un dato di fatto da cui non si sfugge.
E se voglio migliorare li
devo accettare.
Ripartire da essi.
Quasi smetto di respirare.
Le stringo la mano che mi
ha appoggiato sul braccio e lei
ricambia la stretta, un leggero sorriso.
La guardo fissa negli occhi.
E il tempo si ferma.
E’ bella.
E’ bella la
serenità che traspare dai suoi occhi.
E’ bella la
certezza di avere trovato una risposta ai
propri errori.
La vorrei anch’io.
E sono certo che la
troverò.
Non so quanto tempo passi.
Ma Shannon mi fissa e mi
stringe la mano e nessuno di noi
si accorge subito che la porta si è aperta e sono entrati
due poliziotti.
Ci alziamo di scatto solo
quando ci puntano le pile
addosso, e loro ci identificano, ci interrogano, eseguono tutta la
procedura
prevista per il reato di “rapina ed affini”. Sembra
che abbiano anche già
catturato i rapinatori, chiamato l’ambulanza per il barista,
svolto tutte le
pratiche… ed in breve ci ritroviamo fuori, liberi anche se
frastornati, mentre
sto andando verso la fermata del bus con Shannon vicino che mi
accompagna,
tenendo la sua Ducati per mano.
“Posso darti un
passaggio?”, mi chiede, sollecito.
Sorrido: “No,
grazie, io… vado in autobus.”
“Dove devi
andare?”
“Al convento di
San Francesco, in Golden Gate Avenue…”
Insiste: “Ma
davvero non vuoi salire e…”
Mi metto a ridere
apertamente: “No, Shannon. Se mi
vedessero arrivare in moto con te, la madre superiora chiamerebbe
l’esorcista e
una fila di frati, dai…”
Shannon scoppia a ridere
anche lui e non posso fare a
meno di pensare a tutte le donne che smanierebbero per vederlo ridere
con loro
come adesso ride con me. Mi fermo davanti al cartello della fermata e
mi giro a
guardarlo, mentre dal fondo della via vedo comparire il mio autobus.
E mentre guardo quei suoi
occhi un po’ persi, metto una
mano in tasca e prendo una cosa. Perché mi è
venuto in mente di fare questo non
so, ma sento che è così. Poi gli prendo una mano
e gli metto attorno al polso
il mio rosario, un filo di elastico con perline di legno blu e marroni
e una
croce, che subito si confonde in mezzo agli altri bracciali che ha.
Se lo tocca, come a
contare le perline: “Ma… é…
il tuo…”
“Sì,
un rosario… Viene… viene da Medjugorie. Dal
Santuario della Regina della Pace. E… ti auguro di trovare
la tua pace,
Shannon.”
Poi salgo in autobus e lo
saluto con la mano dal
finestrino.
(30 Novembre 2010)
Il convento delle Sorelle
di San Francesco non dista poi
molto da casa mia, ma non credo di esserci mai passato davanti,
altrimenti mi
ricorderei la sua facciata bianca, il giardino con le siepi basse e
quella
chiesa di mattoni rossi sulla sinistra che fa a pugni con il resto
dell’architettura della via.
Parcheggio la Ducati sul
marciapiede lì davanti e, con
circospezione, mi avvio verso la porta, mentre mi tolgo il casco e gli
occhiali.
Solo due ore fa scendevo
dall’aereo che atterrava e ora
sono qui.
Perrchè devo
restituire a Francesca il suo rosario.
In teoria.
In pratica è
solo una scusa.
Una scusa per rivederla e
parlare con lei, dopo un mese
da quanto successo la sera di Halloween.
Non so perché lo
faccio, ma, tornato dalla tournee ne ho
sentito il bisogno. Perché devo raccontarle che ho capito
quello che voleva
dirmi… che ho capito tutto e…
E allora suono il
campanello, convinto.
E la suora che mi apre la
porta non è poi tanto diversa
da una di quelle del film di “Sister Act”, ma non
ha la stessa espressione
simpatica, visto che questa mi guarda in modo piuttosto circospetto,
per non
dire in cagnesco.
“Buonasera,
desidera?”
“Buonasera,
io… cercavo…”, mi blocco subito.
Cercavo chi?
Come posso dire? Una ragazza, una donna, una signorina? Che diavolo
dico?
“Cercavo… ehm… suor
Francesca…”
Lo sguardo della
suora/custode/portiere si fa ancora più
sospetto e penso che, se potesse, imbraccerebbe volentieri un fucile a
canne
mozze e mi sparerebbe altezza ginocchia per farmi allontanare:
“Suor
Francesca?”
“Ehm…
sì…”
Scuote la testa, uscendo di
più dalla porta: “Qui non c’è
nessuna suora di nome Francesca.”, proclama, sicura.
Sono forse nel convento
sbagliato? Non sono pratico di
queste cose, di night club, forse, ma di conventi no…
“Ma… è questo il convento
delle Suore di San Francesco di Golden Gate Avenue, giusto?”
“Sì.”
“E allora
qui…”
La suora non mi lascia
nemmeno finire: “No. Non c’è
attualmente una suora con quel nome, le ripeto…”
“Ma…
è giovane, castana, con gli occhi azzurri
e…”
Scuote la testa nuovamente:
“No, mi dispiace. Non c’è
nessuno che corrisponde alla descrizione.”
Non capisco più
niente, ma insisto. “E’ una
novizia…”
“No, mi dispiace,
signore. Arrivederci.”
E mi chiude la porta in
faccia.
Dopo un attimo, mi giro e
ritorno verso la moto.
Sono frastornato.
Ma… non
può essere… non può essere…
io…
Francesca mi aveva detto
che era questo il suo convento e
poi l’ho anche vista prendere l’autobus che porta
qui, per cui…
Le suore non mentono, no?
Non possono! E’ peccato!
Ma perché lei
qui non c’è?
Mi fermo vicino alla moto e
guardo il mio polso sinistro:
il rosario di legno di Francesca è qui ed è la
prova che lei esiste e che la
sera di Halloween è stato tutto reale e…
Improvviso mi sorge il
sospetto che la suora custode non
mi dica la verità. Decido di tornare sui miei passi ed
interrogarla di nuovo,
magari con più veemenza, ma una inconsueta nebbia
è calata attorno a me, non
vedo più la porta del convento e le luci della strada sono
diventate
lattiginose. Vedo soltanto una strana luna crescente in un cielo
azzurro scuro,
il cielo del tramonto, esattamente come la sera che ho incontrato lei.
E capisco tutto.
E allora prendo la moto e
me ne vado.
A combattere la mia guerra.
Per trovare la mia pace.
Scosto lentamente le tende
della portineria e, tra i fantasmi
di nebbia, lo vedo salire in moto.
“Come facevi a
sapere che sarebbe venuto?”. Suor Maria,
la madre superiora, è una donna di mondo.
Scuoto la testa:
“Non so. Ma me lo sentivo. Gli avete
detto…”
Annuisce e mi si avvicina:
“Sì, Francesca. Come
concordato…”
“Grazie,
madre.”
“Ho detto una
bugia per te. Sai che non dovrei…”
“Mi dispiace,
madre. Ma era a fin di bene.”
“Sì,
lo so, ma sei sicura di aver…”
“Fatto la scelta
giusta? Sì, sono sicura. Ognuno deve
trovare la sua pace. E Shannon deve farlo da solo. Non posso farlo io
per lui.
Nessuno può farlo. Lui deve combattere la sua guerra, per
trovare la sua pace.”
Senza pensarci, gli mando
un bacio con la mano.
E chiudo la
tenda, mentre le luci posteriori della sua
moto spariscono in fondo alla strada.
FINE
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