NdA.
Sì, le NdA
all’inizio,perché vorrei
che le ultime parole che ho scritto per questa storia chiudessero
tutto. E’ una
storia terribilmente personale, composta da neanche due pagine di word
e un
mese di vita di merda che mi si riversa addosso. Se trovate che sia
offensiva,
o inserita nella sezione sbagliata, vi pregherei di non segnalarmi, e
di
conseguenza portare al ban del mio account, credo, ma di dirmelo in una
recensione e provvederò a rimuovere o spostare la storia da
me. Grazie. Il
titolo è una frase di ‘Gematria The Killing
Name’ degli Slipknot. Gli avvenimenti
descritti sono in parte realmente accaduti, nonostante i personaggi
siano
opportunamente inventati, oppure descritti in modo vago, senza dettagli
quali
nomi o recapiti.
Un’altra cosa: se non vi
piace, sono
fatti vostri. Non apprezzo le prese in giro, non rido di me stessa e
sono una
fierissima ‘scorfana brontolona’ come Marlin in
‘Alla Ricerca Di Nemo’, d’accordo?
*Frankie
La situazione
è
semplice da immaginare. C’è una donna, sulla
trentina, assolutamente anonima,
capelli castani e occhi chiari e vestiti poco pretenziosi.
È seduta
su un tappeto
persiano decisamente ereditato da qualche parente morto.
In braccio tiene una
bambina
di, quanti? Due, tre anni? Si, dev’essere così. La
bambina ha capelli castani
come lei e occhi di un azzurro spaventoso. Non hai sicuramente mai
visto degli
occhi di quel colore. La forma è perfettamente quella di una
mandorla, le
ciglia sono curvate dolcemente e la minuscola ruga al di sotto della
palpebra
inferiore le dà un tocco grazioso di umanità.
Perché non stiamo parlando della
bimba più bella del mondo, o di una specie di fata bambina,
è solo la figlia
della donna che la tiene in braccio. L’unica cosa bellissima
in lei sono quei
fottuti occhi. Il resto, come sua madre, è anonimo.
Ha le braccia
paffute
come tutti i bambini piccoli, le manine con le fossette in
corrispondenza delle
nocche e le guancie rotonde e rosee.
Ah, si e la bambina
–
con l’aiuto della mamma – tiene in mano un libro,
di quelli con le pagine coi
disegni prestampati da colorare coi pennarelli.
È aperto
a una pagina
con una principessa dal vestito ampio – di quelli che ti
immagini rosa confetto
– e dai lunghissimi capelli vagamente ondulati – di
quelli che ti immagini
biondo platino, in mezzo ad un paesaggio verdeggiante
– di quelli che ti
immagini nel mondo non esistano più da qualche secolo, ma
esistono, basta
cercarli.
E a fianco a loro
c’è
un astuccio di plastica trasparente dai bordi di stoffa plastificata
rosa, la
cerniera aperta, che è pieno di pennarelli finiti e matite
consumate.
Probabilmente ereditati dalla sorella o dal fratello maggiore che, al
liceo, o
all’università, non li usa più.
E la mamma con la
sua
voce anonima, alla sua bambina tutta anonima tranne gli occhi, dice: di
che
colore facciamo il sole?
E la bambina, ci
prova, dice, mmmh, iaiio, e pesca un minuscolo pastello giallo
dall’astuccio e
colora goffamente sbavando il sole in mezzo al cielo già
scarabocchiato di
azzurro pennarello.
E la mamma: oh, il
giallo. E di che colore lo facciamo questo fiorellino?, e prende un
pennarello
viola. Chiede: lo facciamo viola?
E la bambina: mmmh,
vioia.
E colora petali,
pistilli e gambo col pennarello che stride sulla carta lucida
riversandoci
sopra il poco colore sbiadito rimasto.
Quindi la mamma
dice:
coloriamo l’erba, adesso?, e prende un pastello verde e lo
mette nella mano
paffuta di sua figlia, e la guida dolcemente nel colorare il prato
sotto la
principessa stereotipata di un verde decisamente troppo acceso.
Avete presente
quella
sorella maggiore che possedeva quei colori una volta, quando era
piccola a sua
volta?
Immaginatevela
affacciata dalla porta della sua camera, incapace di chiudercisi
dentro. dateci
dentro con l’immaginazione, la scena comincia a diventare
complicata.
Quindi, questa
ragazza
– avrà sedici, diciassette anni, sì,
è al liceo, quindi – che origlia la
conversazione tra quella donna – non sperateci, non
è sua madre, questa non è
una famiglia felice, non si vede? – e la sua sorellina. Le
viene un nodo in
gola. Sua madre non aveva mai colorato con lei a quel modo. E mentre
sente la
mamma dire: e adesso coloriamo i capelli della bimba?, pensa
automaticamente:
E le bugie di che
colore le facciamo?.
Sì, sai,
quelle bugie
che consistono nel tenere qualcosa nascosto a tua figlia per anni.
Quelle le
facciamo di rosso, rosso sangue eh? Ti va? Prendi il pennarello rosso.
Colora
le labbra della principessa: ricoprile per bene di rossetto e bugie.
E invece, queste
altre, queste che invece sono bugie spudorate perché non hai
voglia di spiegare
tutt’altro? O, molto simili, quelle che fai spontaneamente
nascere dicendo:
‘non sono cose che ti riguardano, torna in camera
tua’?
Queste le facciamo
di
verde, va bene? Verde come la nausea che ti viene al solo pensiero del
rifiuto
di quella semplice spiegazione. In fondo lei voleva solo sapere
perché stavi
piangendo. Allora è deciso che queste sono verdi? Mi passi
il pastello verde
per favore? Si queste le coloro io, grazie, ecco, vedi, questi sono gli
occhi
della principessa. Gli occhi che assassinano duramente qualsiasi
sguardo
indagatore, qualsiasi timida domanda: ‘è successo
qualcosa?’.
E dimmi, invece, le
rivelazioni di che colore le facciamo? Il dolore derivato da queste di
che
colore lo facciamo?
Sai – no,
non lo sai,
lei non ha mai avuto il coraggio di dirtelo – suo padre parla
troppo con lei,
beh, troppo per i tuoi gusti. Avere un rapporto di dibattito e
discussione coi
tuoi figli è un’anomalia nella società
odierna, pare.
No ma –
prima che te
ne vai, per favore – vedi suo padre le ha detto queste cose.
Suo padre glielo
ha detto, non voleva farlo, ha sbagliato, ma le ha detto, che tu non
avevi mai
voluto avere figli. Poi si è corretto: ma non è
corsa ad abortire. E lei, a
quel punto allora ha pensato, vai a fare in culo, papà.
Lo so che non ha
abortito.
Doveva farmela
proprio
vivere, questa vita di merda, quindi mi ha tenuta. Lo so. Me
l’ha detto anche
lei.
Ma lui ha
continuato,
perché non ha sentito quello che lei ha pensato,
perché lei sperava che lo
sentisse ma non l’ha fatto. E ha detto: e poi ha avuto una
depressione post
parto – e a questo punto lei ha smesso di ascoltare, qualche
parole o sintagma
che le arrivava distrattamente alle orecchie mentre sbriciolava il pane
e lo
spargeva sulla tovaglia, guardando la propria lenta forza distruttiva.
E sentiva, ogni
tanto:
nostra relazione.
Ogni tanto:
lasciati.
Ogni tanto: colpa
sua.
Ogni tanto: la sua
scelta.
E poi ancora:
discutere.
E ancora: decisione.
E lei intanto
canticchiava mentalmente una canzone concentrandosi sul testo concitato
per
riuscire a non ascoltare.
E mentre suo padre
–
si, il tuo ex, in fondo, puoi non parlarci mai, ma ci sei stata
insieme,
nonostante quello che hai deciso dopo la tua fottuta depressione post
parto del
cazzo – Dio mio, potevi abortire! – le raccontava
con parole più schiette e
dolorose del solito una storia in realtà già
sentita, a lei tornavano in mente
i momenti in cui teneva in braccio la sua sorellina tutta anonima,
tranne gli
occhi, che piangeva e urlava e lei la consolava, chiedendosi perché non ho anche io solo tre anni?.
E le torna in mente
lui, suo padre, che le dice: non è ammissibile.
Comportamento. Relazione.
Lasciati. Colpa. Scelta. Discutere. Non è ammissibile.
Le ronzano in testa
centinaia di migliaia di frasi e immagini che i suoi neuroni le sparano
alla
velocità della luce su dal subconscio. Tutte diverse.
L’unica cosa che hanno in
comune, è che adesso sono tutte colorate di verde e di
rosso.
Tutte balle.
Artificiose
bugie che ti sono andate comode per anni.
Ricordati
però che
stiamo parlando della ragazza affacciata dalla sua camera che guarda
quella
donna e sua sorella che colorano una principessa.
E, ah si, ti
ricordi,
anche, che questa è solo un’immagine della tua
mente?
Se quella ragazza
non
urla, chi potrebbe sentirla? Nessuno.
E
se lei urlasse solo
nella tua mente – si, immaginala piegata a terra ad urlare.
Non ti senti a
disagio anche tu, a vederla contorcersi urlando sul pavimento?
– tu, saresti
capace di sentirla?
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