GENERE: Generale, Guerra, Drammatico, Sentimentale
AVVERTIMENTI: Alternative Universe, Shonen-ai, Het, Non betata
RATING: Arancione
FANDOM: Axis
Power Hetalia
PERSONAGGI:
Austria
(Roderich Edelstein), Prussia (Gilbert Weillschmidt),
Ungheria(Elizveta Hàdvari
Oltre a Germania (Ludwig Weillschmidt) e genderbend!Italia(Maria Vargas), Nuovi Personaggi
NOTE:
La fanfiction è ambientata nella Prima Guerra Mondiale. per il
primo capitolo interamente al fronte occidentale e per il secondo in
Austria.
In
gergo, veniva chiamato tommies
gli inglesi, fritz
i prussiani, franzmann
i francesi, unni
o jerrys
i tedeschi e ivan
i russi.
Non
credo che le descrizioni siano troppo macabre o crude, ma ho comunque
innalzato il raiting.
La threesome scelta Prussia/Austria/Ungheria, chiave di
interpretazione Avere
il piede in due scarpe.
Quarta classificata - a pari merito
Avviso numero uno: questa fanfiction ha provato la mia incapacità di scrivere threesome. Ed Het. Lettore avvisato, mezzo salvato.
Avviso numero due: POV di Prussia in Prima Persona.
Tranne
la scena di bendaggio poi presente, che ho inventato di sana pianta
causa mancanza di tempo, gli altri momenti riguardanti la vita al
fronte hanno riscontri storici, per la maggior parte.
Mi si è fatto presente, nel giudizio del contest, che ci sono dei
personaggi di Hetalia celati. Ecco...guardate là! Una scimmia
a tre teste!
INTRODUZIONE:
«Non
ricordo il tuo nome» dissi.
«Edelstein.
Roderich Edelstein»
Allungai
la mano destra «Gilbert Weillschmidt»
Sturm
und Drang
01.
Drang
Primo
movimento
[X]
[X] [X] [X][X] [X]
Di che reggimento siete, fratelli?
Gli
ficcai le due dita in gola, costringendolo ad aprire la bocca. Le
ritirai appena in tempo per evitare che mi mordesse, ma gli afferrai
subito la faccia, chiudendogli la mascella a forza, costringendolo a
masticare. E masticò. Ingoiò. Avrebbe masticato anche
le mie dita se avesse potuto,
Guarda
così i franzmann e non dovrai nemmeno sparare.
Lo lasciai andare, ridendo, e lui si voltò dall'altra parte, furioso. Tornò dagli altri austriaci senza dire una parola.
«Non
avresti dovuto, Berlino» commentò il Lucchese, girando
di nuovo la carcassa sul fuoco
«Perchè
cotta ha un sapore migliore?» risi.
Principessa
storse il naso ma non disse nulla; sapeva che nessuno ci avrebbe
impedito di continuare a cuocere quel ratto, e nemmeno di mangiarlo –
George stesso l'aveva preso dalle mani dell'austriaco, che l'aveva
infilzato quasi per sbaglio con la punta della baionetta, non appena
l'aveva visto muoversi. Principessa tese una mano, quando Muhlegg
estrasse dalle tasche una scatola di fiammiferi piena di sale e
cenere : poteva solo cercare di migliorarne il sapore.
«Per
essere rigorosi non dovremmo farne a meno?» commentò lo
Svevo indicando la scatola «Non ce l'avevamo mica, l'altra
volta.»
Principessa
sbiancò, e il Lucchese gli rifilò un calcio, che
accolse con la solita smorfia. C'era qualcosa nello Svevo che non si
poteva spezzare e che noi comunemente chiamavano idiozia. Quanto
bastava per buttarsi a terra a ogni granata ma non abbastanza da
riuscire a fare qualcosa di più raffinato del comprarsi una
belga con una pagnotta – e non abbastanza da capire che
Principessa era più credente del Papa, e che noi, sulla
carcassa di un ratto, avevamo giurato, quella volta. Principessa
ridiede la scatola a Muhlegg per avere la certezza che tutti i suoi
santi
1
non se lo portassero via.
Un'altra
volta avrei strappato io stesso la scatoletta a Muhlegg e cosparso
anche Principessa di sale; mi limitai a farmi il segno della croce.
Il
Lucchese mi imitò, mentre alzava gli occhi per vedere se
George si decideva a tornare. Io, che ero l'unico in piedi –
gli altri erano seduti nel fango intorno al fuoco – gli feci
cenno che stava arrivando. Riuscivo a distinguere anche un
rigonfiamento ai lati che George, piuttosto asciutto, non doveva aver
mai avuto.
Fece
un cenno agli austriaci, che camminavano avanti e indietro nelle loro
uniformi nuove, le sigarette tra le labbra. Gli avvicinò
estraendo dalla giacca un pacco di carta – salame,
probabilmente. Quelli agitarono le mani, con noncuranza, ma gli
accesero una sigaretta. Erano tre, e riconobbi subito quello che ci
aveva involontariamente procurato il nostro prezioso ratto; teneva la
sigaretta in mano, come se la fumasse solo per avere qualcosa da fare
– per scacciare un pensiero, una vita...un sapore forse.
Mi
leccai il sangue dalle dita mentre George si allontanava da loro
scrollando le spalle.
L'artiglieria
dei tommies sembrava un'unica esplosione che riecheggiava
all'infinito, invadeva la nostra aria e il nostro sangue, ci
attraversava come se risonasse dalla nostra stessa pelle - una
gigantesca mitragliatrice dalle mille bocche d'acciaio che continuava
a vomitarci addosso proiettili e granate e polvere e fango; correvamo
strisciando, cercando di non cadere sugli elmetti che affioravano dal
terreno. Riuscii a buttarmi in una buca abbastanza profonda; sentii
sotto di me quel misto di carne e acciaio che, avvolti nel tessuto,
una volta avevano fatto un soldato. Sembrava una fossa comune
2
,
Un
altro si buttò subito dopo di me, rotolando tra tutti quei
cadaveri.
«Dove
diavolo è Pri?» urlò il Lucchese, mettendosi a
quattro zampe, abbastanza per cercare di sbirciare aldilà
della fossa pur mantenendosi al sicuro. Non gli risposi nemmeno
mentre nella fossa ricadevano due uomini e mezzo. Cristo, era il
peggiore assalto notturno di tutta la mia vita.
Sentii
uno dei due uomini muoversi, probabilmente per ripararsi contro le
pareti della fossa. E intanto cominciarono i lamenti. Portai le mani
al fucile anche se era tutto inutile; era troppo buio, e l'unico modo
per zittirlo sarebbe stato strisciare per tutta la buca, cercando
quel corpo ululante per zittirlo con la vanga.
Intanto
uno dei due uomini era arrivato fino a noi, e sentivo il suo corpo
caldo.
«Elizveta»
mormorava «Elizveta, Elizveta...» riuscivo a sentirlo
piagnucolare, cercai di sentirlo con tutte le mie forze per ignorare
quelle urla strazianti poco lontano addirittura più forte di
tutto quello che i tommies ci stavano sparando addosso.
Cercai
la mano del Lucchese per stringerla e gli ululati di quella povera
carogna furono soffocati dall'urlo lacerante dell'uomo accanto a me;
lo afferrai per il colletto e lo sbattei a terra, la faccia sui
cadaveri per farlo stare zitto. Una granata era esplosa nella fossa e
noi eravamo stati ricoperti di fango, carne e viscere. Desideravo
strapparmi la pelle per non sentire i pezzi freschi dei miei
commilitoni bruciarmi addosso; e l'uomo che tenevo faccia a terra era
solo una recluta, che aveva piagnucolato perché si trovava in
una fossa in piena notte e l'unica cosa che riusciva a sentire era il
martellare incessante dell'artiglieria.
Gli
sollevai la testa e me la portai al petto, costringendolo a
nascondervisi, come avevo visto il Lucchese fare a Principessa la
prima volta.
«Sta
zitto. Zitto!»
Il
Lucchese era stato molto più gentile; ma Principessa non aveva
che diciassette anni.
Muhlegg
era andato. Il Lucchese gli aveva quasi calpestato il braccio mentre
arrancavamo verso la prima linea approfittando
dell'alzabandiera
3
.
Teneva stretta in mano la foto di sua moglie; gliela strappammo per
darla a uno dei sassoni, che si preoccupasse di portarla alla
famiglia alla prossima licenza: l'ennesimo caduto sulla Terra di
Nessuno, un colpo dritto al cuore, signora mi creda, è morto
senza nemmeno accorgersene. Come quell'altro sassone nella fossa. Ma
dove fosse il resto di Muhlegg, lo sapeva Dio.
L'attacco
a sorpresa notturno dell'altro ieri era stato calibrato
perfettamente, in modo da colpire solo noi che stavamo arrivando, e
George bestemmiò almeno un paio d'ore contro quei bavaresi di
merda che ci avevano quasi fatto ammazzare tutti per fare comunella
con i tommies; poi il Lucchese gli chiese se aveva tanta voglia di
farsi ammazzare e non tornare più nella sua fottuta Londra :
se i tommies avevano fatto un patto con i bavaresi ne avrebbero fatti
tre con i sassoni.
Io
non dissi nulla. Ero prussiano e non c'era inglese migliore di un
inglese morto: ma dovevo tornare a casa.
«Al
diavolo» sbottò George quella mattina, cercando di
stirarsi le gambe. Era il nostro secondo giorno in trincea e già
il rancio tardava a arrivare, il che era piuttosto strano «Ci
dovrebbe essere Bloem di turno.» Si girò per sistemarsi
meglio contro la parete di terra e legno; l'unica cosa che si
sentiva, per una volta, era la penna dello Svevo che scriveva a casa.
Anche lui teneva le orecchie tese, mentre inventava qualcosa da
raccontare ai suoi figli : aspettavamo di sentire qualche urlo, il
suono del metallo o il respiro affannoso di un uomo in corsa che ci
rassicurasse, che ci dicesse che il rancio sarebbe arrivato prima
della fine della tregua, che non dovevamo saltare i crateri delle
granate e i reticolati d'acciaio a stomaco vuoto.
«Chiedo
scusa»
Alzai gli occhi : era l'austriaco del primo giorno. La divisa verde della
fanteria austriaca gli stava alla perfezione, e non sembrava né
particolarmente magro né muscoloso. La carnagione era pallida,
e aveva un paio di occhiali sottili. I capelli scuri erano tirati
all'indietro tranne per un ciuffo ricurvo.
«Ehi!»
ghignai.
«Vengo
da parte della mia compagnia: non è ancora arrivata la
colazione?»
Colazione.
Come se stesse aspettando il suo cameriere.
«Non
è meglio così? Sei senza mutande
4
, mangiare quella roba
non ti farà bene»
Si morse le labbra e continuò a ignorarmi, guardando il Lucchese,
ma io avevo riconosciuto la voce della recluta nella fossa.
«Dico davvero! Una cosa è la diarrea con le mutande, ma senza...»
«Sta zitto, Fritz» disse George secco. Aveva detto “Fritz”, anche se da quel leccainglesi che era, e per un prussiano non poteva
esserci offesa.
«Tommies»
ringhiai a bassa voce: George era di Hannover. Se non fosse stato per
l'austriaco e per il braccio del Lucchese, mi sarebbe saltato alla
gola.
Invece mi ignorò, limitandosi a scostare il braccio del Lucchese, che
guardava l'austriaco con lo sguardo fraterno e cameratesco che
riservava alle reclute «Il bombardamento dell'altro giorno ha
danneggiato le retrovie, e con la pioggia dell'altra notte può
essere franata qualche trincea» disse, tranquillizzante
«Succede prima o poi» aggiunse, ambiguo.
L'austriaco ringraziò e fece per tornare dai suoi compagni, ma il Lucchese
mi indicò «Si chiama Weillschmidt, è prussiano ed
un'imbecille. Te lo manderò se entro mezz'ora non sarà
arrivato niente»
L'altro
esitò, come se non sapesse bene cosa dire; alla fine fece un
cenno col capo e strisciando contro il muro sparì nella
sezione vicina.
«Fottiti,
Franz» scattai, appoggiandomi sulle gambe posteriori in quello
che è l'unico modo in prima linea per stare in piedi «Che
ti salta in mente?»
Il Lucchese alzò le spalle e si appoggiò di nuovo alla
terra; con un braccio tirò a sé George, ancora
irritato, e Principessa, gli occhi famelici: Principessa aveva solo
diciotto anni e veniva da un piccolo villaggio non troppo lontano
dalla Galizia, dove aveva dieci fratelli ma era figlio del
capo-fattore; prima di venire in trincea di mangiare pane di rape con
carne di rape e sugo di rape in mezzo piatto non se l'era mai
sognato.
«Mi
salta
in mente»
disse, tranquillo «che quelle sono delle reclute e tu sei un
veterano, ecco che mi salta in mente»
Ringhiai,
e mi lascia cadere sul muro di terra, sbirciando la lettera che lo
Svevo continuava a scrivere:
...Mi manchi tanto mio amore, cosa studiano i bambini? Romano ha
passato il compito?...mangia
di più mio tesoro, se tu ti sciupi chi baderà ai
bambini?
Di
bene in meglio. Anche se non era un granché, guardai il cielo.
Non era arrivato nessuno dalla sera prima. Il Lucchese si avvicinò
alla sezione dell'altra squadra di sassoni, poi, dopo aver scambiato
un paio di cenni, tornò da noi.
«Pare che Bloem sia stato sostituito» disse, prima di passarsi una
mano tra i capelli biondi. Noi non reagimmo; solo Principessa ebbe la
forza per specchiare sul volto quello che tutti pensavamo; gli occhi
dilatati, sporchi di terra e polvere, le armi al fianco, erano stati
tre notti senza dormire e quasi due senza mangiare. E Bloem, Bloem
che era diventato famoso per aver portato il rancio agli uomini di
Compiegnè agitando una mano oltre il parapetto per chiedere ai
Franzmann di non sparare, Bloem che ci aveva raggiunto la prima
mattina attraverso la trincea martoriata colma di fango con fagioli
bianchi e pane, perchè sapeva che quel giorno ci toccava
scavare, Bloem era stato sostituito e ora nella cucina del reggimento
c'era qualcuno che se ne stava al sicuro tra i fornelli.
«Ed
è scaduta l'ora» aggiunse, amaro.
L'ora per la colazione era finita, la tregua non scritta tra noi e i
tommies era appena cessata : ogni minuto poteva arrivare l'ordine di
sparare. E se era a noi che quell'ordine arrivava non bastava
sparare, bisognava correre, oltrepassare il filo spinato i cadaveri e
i crateri di acqua melmosa, aperti dalle granate nelle terra di
nessuno, per arrivare fino ai tommies e spaccargli la testa.
«Vaffanculo»
I
soldati imprecano, bestemmiano e urlano, ma noi non eravamo proprio
soldati qualsiasi: George una volta insegnava letteratura tedesca a
Londra. «Vaffanculo» ripeté : e aveva detto tutto
Il Lucchese si morse le labbra, guardandoci. «Berlino» disse
poi «Va' dagli austriaci. Digli di stare calmi. Ci penso io»
«Che
cazzo fai?» sbottò George; il Lucchese mi fece cenno di
andare, poi saltò in piedi.
«Frederick!»
«Don't
shoot! Don't shoot!» teneva le braccia alzate e sorrideva
5
.
«Muoviti,
prussiano» sibilò. «Don't shot!» urlò
di nuovo. Si issò sul parapetto. George era sbiancato,
Continuavamo a guardare il Lucchese, seduto sul parapetto con aria
tranquilla, che con una mano toglieva i capelli biondi dalla faccia
come per pettinarsi.
«We
have not breakfast!» Il suo accento era pessimo, le parole
storpiate si comprendevano a fatica. George fece per alzarsi, ma lo
Svevo gli tirò il braccio facendolo rovinare a terra. «We
can't eat!» continuò il Lucchese. Non si sentì
nulla; era come se l'intero fronte trattenesse il respiro.
«Fool
Jerrys!» urlò uno degli inglesi dall'altra parte. Ma non
successe nient'altro. Il Lucchese fece un cenno e saltò giù,
tornando a accucciarsi tra di noi.
«Se
Dio vuole...»
«Vaffanculo,
Frederick» sbottò George dandomi un calcio; lo Svevo
tornò alla sua lettera.
«Vaffanculo»
Il Lucchese trattenne una smorfia, mentre George ritirava il pugno
dal suo stomaco. Principessa rise, debolmente, poi si accucciò
contro una delle pareti di terra. Gli scompigliai i capelli, poi
cominciai a cercare una copia del bollettino che lo Svevo aveva
infilato da qualche parte nello zaino.
E
poi mi colpì in testa. Un barattolo di latta che rotolò
nel fango davanti a noi e si fermò sotto i nostri occhi con
assoluta calma.
«Kamerade!»
Il
George l'afferrò e balzò in piedi, mentre lo Svevo
faceva in tempo a schivarne un'altra; mi alzai anch'io. Vidi uno dei
jerreis, dall'altra parte, che sventolava una lattina in aria. Un suo
compagno accanto ci faceva segno di non sparare.
«Kamerade!»
urlò ancora, ed era evidente che tutta la sua conoscenza del
tedesco era ferma a quel Kamerade:
avanzò cautamente sulla terra di Nessuno, che tra di noi non
era che di una ventina scarsa di metri; aveva una specie di sacco tra
le braccia. Ce lo lanciò oltre il parapetto senza avvicinarsi
troppo; si sentiva ancora il rumore della latta. Era il corned beef
degli inglesi.
«Wait!»
George si sporse sul parapetto, e gli lanciò un pacco di
sigarette; l'inglese lo prese volentieri, poi lo Svevo, che ancora
non si fidava a uscire, gli lanciò uno di quei salami che era
la nostra scorta d'emergenza. A quella vista gli occhi dell'inglese
brillarono: qualcos'altro volò oltre il parapetto, e lui si
affrettò a raccoglierlo.
«Kamerade!»
disse ancora prima di tornarsene in trincea. Il Lucchese contava già
le scatole, dividendole; io guardai il tommies che tornava in trincea
più in fretta che poteva, il suo compagno che continuava a
agitare le braccia per rassicurarci.
Aveva
i capelli di un rosso sporco di terra, gli occhi di un verde fango;
camminava sulla terra di nessuno con i nostri ringraziamenti tra le
braccia, e il suo compagno dai capelli neri che continuava a
rassicurarci mentre seguiva ansioso con gli occhi i passi dell'altro
sul fango e i detriti, mentre lo guardava rischiare di scivolare su
un elmetto che una volta era di un soldato che chissà da quale
parte stava.
«Dieci»
il Lucchese aveva allineato tutte le latte davanti a sé,
mentre l'inglese saltava nella sua trincea. Sicuramente i suoi
compagni l'attendevano, e lui ora spartiva con loro le sigarette,
cercava un coltellino per tagliare il salame, mostrava una di quelle
pipe che per noi aveva benedetto il principe in persona; magari
qualcuno gli avrebbe dato un calcio e urlato “Vaffanculo”.
«Tre
sono di mermellata» disse George, separandole quelle lattine
dalle altre.
Kamerade;
chissà dove quel tommies aveva imparato quella parola.
Gli
austriaci ringraziarono quasi in coro, e si distribuirono le lattine
in poche minuti: io rimasi lì, perchè se fossi tornato
subito dalla mia squadra il Lucchese mi ci avrebbe rimandato con
un'altra scusa. Aveva uno strano modo di intestardirsi, il Lucchese.
Al mio austriaco era toccata la mermellata di prugne e pere: la
mangiava con assoluta calma, facendo finta che io non esistessi.
Ci
mise mezz'ora, ma io mi ero accomodato per potermi godere lo
spettacolo: quando ormai anche il cucchiaio era lucido e splendente
mi guardò con le sopracciglia aggrottate, mordendosi un
labbro, lottando contro sé stesso.
Alla
fine la buona educazione ebbe la meglio.
«Non
credo che ci siamo presentati» disse con voce controllata, un
viso freddamente cordiale, abbassando il cucchiaio «Sono
Roderich Edelstein, settima compagnia, quarto reggimento»
«Berlino»
risposi. Aggrottò di nuovo le sopracciglia «Sarebbe il
tuo soprannome?»
Lo
avevo già infastidito.
«No,
quello è il Magnifico»
Si
morse le labbra un'altra volta e appoggiò la scatola di latta
accanto a sé.
«Tranquillo,
puoi chiamarmi così. Tutte le reclute lo fanno. Gli inglesi mi
chiamano La Magnifica Bestia Sanguinaria, ovviamente.»
Aprì
bocca, poi scosse la testa e la richiuse, come riflettendo. Infine
disse «Ringrazia il tuo compagno da parte mia. Se c'è
qualcosa che posso fare che non esiti a chiederlo»
Lassù
in cielo non sapevano se far piovere o meno.
«Sai,
io starei attento a fare certe offerte» lo guardai «Possono
essere prese alla lettera.»
Mi
guardò perplesso.
«Sei
carino, sai» aggiunsi.
Divenne
livido, e sbarrò gli occhi, per un attimo totalmente
stravolto: si sistemò gli occhiali, portandoli alla cima del
naso.
«Succede»
continuai io, guardandolo «Lo capirai»
«No»
disse secco «Non credo»
Mi
misi a sedere: l'austriaco aveva l'aria aristocratica, capelli
piuttosto scuri che ricadevano leggeri sulla fronte e una bella linea
del volto, facile da percorrere con un dito.
«Vogliamo
scommettere?» sussurrai dopo averlo fatto girare verso di me:
mi sporsi e lui trasalì ma non si mosse subito: fu quando mi
avvicinai di più con un ghigno che scacciò via la mano,
livido, arretrò. Risi.
«Tutto
bene, Roderich?»
Uno
dei suoi compagni, con in mano una scatola di latta e nell'altra un
coltello, ci si sedette accanto.
«Io
sono Malchik. Tu sei amico di quello che ci ha garantito questi,
vero?» mostrò il corned beef «Ringrazialo da parte
mia»
«Stavamo
parlando delle modalità del ringraziamento» dissi io,
facendo un cenno alla sezione «Ma non importa»
Il
soldato aggrottò le sopracciglia «È quello che
penso io?»
«Bravo»
dissi «Il tuo amico qui non ci arrivava»
L'austriaco
si morse le labbra, e stava per dire qualcosa, furioso, quando
l'altro scosse la testa «Con un uomo...ma dico io»
cacciò
una mano nella divisa «Possiamo avere creature meravigliose e
quelli vanno con gli uomini. Che schifo» ne estrasse una foto e
me la mise sotto il naso «Non è splendida?» gli
occhi verdi brillavano d'orgoglio.
La
ragazza doveva essere molto carina quando sorrideva: nella foto aveva
un'aria a metà tra l'imbronciato e l'assente, i capelli lisci
che le cadevano su un abito di pizzi e trine molto elegante, un
grembiule ricamato e un grosso fiocco blu sulla testa. Assomigliava a
una bambola, nonostante il coltello da torta che teneva graziosamente
in grembo.
«Fa
la governante» disse lui sorridendo «Spero di poterla
rivedere presto»
«Auguri
per il matrimonio» dissi restituendogliela: rise, di una risata
tonante quasi forzata, ma per un attimo parve altrove.
«E
tu non avevi una Elizbeta?» chiesi all'austriaco, che aveva
seguito la scena come irritato.
«Elizveta»
mi corresse, secco «È mia moglie»
«Tu
hai una moglie?» lui parve innervosirsi mentre lo guardavo «E
che ci fai, ci giochi a carte?»
«Non
vedo come la cosa ti riguardi» scattò, e finalmente
sembrava furioso. L'altro soldato inarcò un sopracciglio, una
ciocca di capelli castani che gli cadeva sul volto, arricciandosi:
aveva l'aria tranquilla, ma non rassicurante. Guardai l'austriaco
un'ultima volta, il volto che finalmente mostrava qualche emozione:
feci un cenno svagato di saluto prima di andarmene, ma non era un
addio.
Lo
Svevo sciacquò l'elmetto con l'acqua della pozzanghera,
ripulendolo dalla polvere: io, il Lucchese e George cercavamo di
accenderci una sigaretta, proteggendola con il colletto rialzato per
evitare che si spegnesse. Principessa guardava il cielo e la pioggia
cadere con uno strano sorriso, canticchiando. Probabilmente pensava a
casa sua, ai campi arati e a tutta la verdura che ci cresceva. Erano
strani i contadini. Perfettamente sereni tra acqua e fango incuranti
del fatto che tutta quella schifezza ci arrivava alle caviglie.
Era
il quinto giorno, e non avremmo dovuto essere ancora lì, in
prima linea, ma nelle retrovie, con un piatto caldo, a contarci per
l'ennesima volta e a scambiarci tabacco e sigarette. Se solo non
avesse piovuto e i piani alti non si stessero ancora torcendo le mani
per la preoccupazione di un altro assalto inglese durante il
trasferimento.
«Cosa
porterai a tua moglie, Antonio?» chiese il Lucchese, riuscendo
finalmente a fare un tiro: George premette la sigaretta contro la
sua, infilandosi i pochi fiammiferi in tasca..
«Non
lo so» rispose lo Svevo, infilandosi l'elmo «Forse della
cioccolata» la sigaretta di George si accese, e lui fece un
bell'anello bianco, perfettamente tondo.
«Un
mazzo di rose» disse dolcemente il Lucchese, la voce
carezzevole di quando si perdeva nei ricordi. L''ultima licenza del
Lucchese era
durata solo cinque giorni, e si era chiuso nell'osteria a qualche
chilometro dal fronte: poi il capitano l'aveva richiamato, e lui era
tornato, odorando vagamente di vino e vernice, e di profumo da
quattro soldi. Aveva recuperato poi i dieci giorni con George, che se
l'era
trascinato a Hannover, dove oltre a trovare sua madre doveva
incontrare quella di Seeger, una pallottola nel cuore e via anche
lui. Dalla valanga di chiacchiere del Lucchese si era capito che
dalla madre di George non erano stati che pochi giorni: e d'altronde,
Quello
era cominciato dopo quella licenza, quindi non era poi così
sorprendente. In compenso, la moglie di George riceveva molte più
lettere di quanto avesse dovuto.
«Ti
stai sentendo a casa, George?» chiesi, scostandomi appena nel
caso avesse deciso di spegnermi la sigaretta in faccia: invece un
altro anello di fumo, più piccolo, seguì il secondo.
«Non
piove così tanto, a Hannover» disse poi.
Soddisfatto
tesi una mano, ma George ci fece cadere solo un po' di cenere; dato
che me l'ero meritato, dovetti cercare una sigaretta per conto mio
tra le tasche della divisa. Ne trovai una un po' ammaccata, e un
fiammifero spezzato a metà: bastava.
Se
mio padre avesse visto uno dei suoi figli fumare una sigaretta...feci
un tiro e non ci pensai. L'unico ricordo che volevo di mio padre era
la croce prussiana che il maggiore Frederick Hermann Weillschmidt si
era guadagnato a Sedan nel 1841; e al momento, stava sotto la mia
divisa. Distrattamente mi chiesi come stava: lascia cadere la
sigaretta e la spensi, schiacciandola assieme al ricordo del sorriso
di mia cognata, umido di lacrime prima che partissi anch'io, prima
che la lasciassi come aveva fatto mio fratello.
Per
dimenticare mio fratello non potevo fare nulla: George borbottò
qualcosa sul modo in cui avevo sprecato una sigaretta e il suo
borbottio si fece più astioso quando mi vide cercare da bere.
Il Lucchese, che mi conosceva bene e sapeva cosa ne pensavo di solito
della grappa, passò un braccio intorno a George e fece un
altro tiro.
«Sarà
una giornata lunga» commentò lo Svevo mentre George
trasformava il borbottio in un sibilio su cosa ne pensava della gente
che si comportava da idiota.
Era sempre una
giornata lunga.
Sfrecciavano
attorno a noi i proiettili, come insetti, fischiando: lo Svevo agitò
il braccio sinistro, come a gettar via qualcosa e io scartai verso
destra, evitando uno dei crateri che continuava a riempirsi d'acqua.
George mi imitò a agitò il braccio a sua volta.
«Oi!»
urlò il Lucchese dietro di noi, in risposta. Continuammo a
correre, e il fuoco cominciava a diminuire, lo sciame di proiettili
che lentamente si ritraeva, tornando verso le trincee inglesi: lo
Svevo fu il primo di noi a saltare nella trincea, lo vedemmo in
lontananza. Dopo poco il fucile fece capolino sul parapetto, e
cominciò a sparare verso i tommies. Il Lucchese e Principessa
ora ci affiancavano, e accelerammo; allora cominciarono le granate,
sassi lanciati in un mare di fango e cadaveri.
«Giù!»
urlò: la terra sotto di me sparì, e vi stavo per
franare quando George mi tirò per un braccio e Principessa
urlò. Ci girammo e aveva uno dei frammenti di acciaio e
plastica infilati nella gamba. Ma il Lucchese aveva uno di quei
frammenti a attraversargli il torace.
Afferrai
George, e il Lucchese ci spinse addosso Principessa: era esile e me
lo caricai addosso, George si liberò e prese il braccio del
Lucchese intorno alle spalle. Cercai di correre di nuovo, e
Principessa saltellava come un fenicottero sbilenco: lo Svevo apparve
d'improvviso e gli prese le gambe, urlò qualcosa che venne
soffocato da una granata, ma indicò: mi girai e vidi che
George e il Lucchese erano ancora qualche metro più in là,
e George era stato preso al braccio, forse di striscio: in cielo
sembrava rimbombare il tuono che precede il lampo, le cariche si
intensificavano.
Fu
allora che il Lucchese sorrise, d'un sorriso pallido con il volto
sporco di terra e polvere, con il sangue che gli colava dalle labbra.
Sorrise e si sporse, sfiorò il volto di George: e poi lo
spinse via. Cadde come un giglio nel fango di un cratere colmo
d'acqua, sporca di sangue. Urlai e corsi: George fece per tuffarsi
dietro di lui ma uno dei bavaresi lo fermò e quando lo
raggiunsi mi diede una mano a tenerlo.
Gettammo
anche lui nel fango della nostra trincea, lo tenemmo fermo mentre
urlava, prendemmo i suoi pugni e i suoi morsi, le minacce di morte,
le maledizioni eterne. Non cercammo nemmeno di ripulire il sangue che
aveva ancora sulle labbra,
Lo
Svevo cercava di tranquillizzare Principessa che singhiozzava e
piangeva. Dal Paradiso ci gettavano secchi d'acqua.
George
mi forse la mano, tirò calci e si sporse sul parapetto: lo
presi per la divisa, mentre anche lo Svevo scattava afferrandogli i
capelli biondi e in quel momento lanciò un urlo, uno strazio
disumano: là, dove avevamo lasciato il Lucchese, avevano
gettato una granata.
Era
un urlo disperato e finì così com'era venuto: si
lasciò cadere nel fango in silenzio. Rannicchiato, si toccava
le labbra ridendo.
Dopo
un'ora avevano smesso e gli inglesi non sembravano rispondere: c'era
di nuovo silenzio.
Principessa
gemeva, mentre Malchik gli esaminava la gamba. Lo guardammo tendere
la gamba di Principessa con misto di bende e garze attorno alle
gambe, esaminando la ferita che nessuno di noi aveva osato toccare.
L'altro
austriaco era dritto accanto a George, che non diceva una parola. Era
pieno di polvere e schizzato di sangue.
«Sedalo»
risolse Malchik infine, come rasserenandosi: George finalmente ci
guardò mentre imbevevamo il fazzoletto nella grappa. Lo
afferrò quando cercai di passarlo allo Svevo: guardò
Principessa gemere, e poi gli stampò in faccia il fazzoletto:
lo tenemmo fermo per qualche istante, poi lo sentimmo rilassarsi. Era
sera.
Malchik
ci fece segno di non lasciarlo, e si passò un po' di grappa
sulle dita: poi afferrò con attenzione, e tirò. George
soffocò un urlo di Principessa, mentre Malchik strappava via i
pantaloni sopra al laccio che aveva stretto prima a monte della
ferita e cominciava a togliere, ricucire e bendare. Alla fine disse:
«E speriamo che non si infetti»
Malchik
si sedette tra noi, bevve un sorso di grappa tenendo d'occhio
Principessa, agitando la mano per scacciare sigarette, cioccolata e
prosciutto.
«Non
è niente» disse bruscamente: George scoppiò in
una risata stentata, mentre lo Svevo sorrise. Dopo qualche parola
gettata a caso, lui e Malchik finirono a discutere animatamente di
nastri e fiori, pizzi e merletti e quant'altro si può portare
in dono a una donna. L'austriaco interveniva ogni tanto, tagliando
idee sul nascere. Io e George guardavamo Principessa, che sembrava
dormire. George tuttavia vedeva tutt'altro, e scattava a ogni rumore
e a ogni gemito.
Sapevo
che stava aspettando di sentire il rumore di qualcuno che strisciava
fino al parapetto, o le urla di un uomo in agonia dopo che una
granata gli ha fatto esplodere lo stomaco. Nessuno di noi aveva visto
il Lucchese morire: poteva benissimo agonizzare. troppo debole per un
vero urlo, nella Terra di Nessuno.
L'austriaco
se ne andò un'ora dopo, più bianco di quanto fosse mai
stato, forse incapace di sopportarlo un minuto di più
Cercai
di farlo inciampare, senza troppa convinzione: se fosse caduto il
gentile rimprovero del Lucchese mi sarebbe rimbombato in testa.
Mi
strinsi nella divisa e ci guardammo senza parlare, seduti nella
trincea che, solo qualche giorno fa, era ancora inglese
6
.
Poi
si alzò una voce maschile, chiara e dolce: potevamo vederla
stagliarsi contro il cielo. Intonava solo note: dopo poco si unì
un'altra voce che poteva sembrare di donna, e una più vecchia
e cupa ma ancora bella. Poi la voce maschile più profonda si
scostò, intrecciandosi con quella maschile più dolce:
Requiem
aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Te decet
hymnus, Deus, in Sion,
et tibi reddetur votum in Jerusalem.
Exaudi
orationem meam;
ad te omnis caro veniet.
Requiem aeternam dona
eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
L'eterno
riposo dona loro, Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.
Si
innalzi un inno a te, o Dio, in Sion,
a te si sciolga il voto in
Gerusalemme.
Esaudisci la mia preghiera,
a te venga ogni
mortale.
L'eterno riposo dona loro, Signore,
e splenda ad essi
la luce perpetua.
Il canto si spense in silenzio, la voce maschile più chiara
sfumava perdendosi nel cielo.
Poi
George chiese: «Conoscete l'Inno alla Gioia?»
E la voce rispose: «Lo conosco»
Era la voce dell'austriaco, la sentivo vibrante e viva sotto la pelle.
«Anch'io» disse la voce più cupa, e entrambe cominciarono a intonare:
O Freunde, nicht diese Töne!
Sondern laßt uns angenehmere
anstimmen und freudenvollere.
Freude! Freude!
O amici, non questi suoni!
ma intoniamone altri
più piacevoli, e più gioiosi.
Gioia! Gioia!
Cominciai a cantare, come tutti gli
altri: poi venne quell''unica, ultima strofa:
Seid umschlungen, Millionen!
Diesen Kuß der ganzen Welt!
Brüder, über'm Sternenzelt
Mußein lieber Vater wohnen.
Ihr stürzt nieder, Millionen?
Ahnest du den Schöpfer, Welt?
Such' ihn über'm Sternenzelt!
Über Sternen muß er wohnen.
Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero Fratelli,
sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
Vi inginocchiate, moltitudini?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Cercalo sopra il cielo stellato!
Sopra le stelle deve abitare!
E tutto si spense.
[X]
[X] [ ] [X] [X] [X]
NOTE:
[1]
tutti i suoi santi non se lo portassero via : Principessa è
polacco e cattolico, tutti gli altri sono protestanti.
[2]
Sembrava una fossa comune: Poteva succedere, vista la
precarietà dei fronti, dai confini ballerini, che una fossa
comune – magari scavata per ripulire frettolosamente il campo
di battaglia - fosse situata in mezzo alla Terra di Nessuno, e che
venisse scoperchiata dai bombardamenti.
[3]
era passata l'alzabandiera : una delle regole non scritte
prevedeva che non si sparasse nell'ora vicino all'alba, o in quella
subito dopo il tramonto: in ogni caso, nessuno si fidava fino in
fondo, e si sorvegliava comunque. C'erano tregue non scritte anche
per l'orario dei pasti – in particolare colazione e cena.
[4]
sei senza mutande : come raccontato in Niente di nuovo sul
fronte occidentale, era normale, per le reclute, venire colti da
diarrea durante il loro primo assalto; il consiglio dei veterani era
di sbarazzarsi delle mutande perchè impicciavano, per farsene
dare di nuove al campo.
[5]
Don't shoot, don't shoot! : comunicazioni tra fronti
nemici avvennero sopratutto durante le prime fasi della guerra –
e sfociarono infatti nel Christmas Truce – ma anche dopo che
questo fu proibito, i soldati di entrambi i fronti tirarono avanti
lo stesso; si sentivano molto più vicini ai soldati nemici
che ai propri superiori, lontani dalla prima linea e al caldo,
Questo portava a vari episodi, quali lo sparare in aria per
avvertire i nemici dell'attacco imminente, lo scambio di viveri in
caso la linea nemica non ne ricevesse, addirittura il semplice
baratto, a seconda di quanto i due fronti avessero legato. Questo
avveniva sopratutto - sul fronte occidentale - tra inglesi e
tedeschi – purchè non prussiani, i quali erano gli
unici a credere fermamente nella guerra e ad attenersi rigidamente
alle regole. Gilbert è un'eccezione, ma il suo comportamento
più rilassato è dovuto anche al fatto che si trova in
un reggimento misto, composto sopratutto da sassoni, che con gli
inglesi andava a braccetto. Essere prussiano fino in fondo non gli
avrebbe giovato.
[6 ]
era ancora inglese : sì, sono riusciti a prendere la
trincea inglese. Sì, quella da cui venivano i due tommies che
gli hanno lanciato da mangiare. Sì, molto probabilmente quei
due sono morti.
Le
canzoni cantate sono la Messa da Requiem di Mozart e parte dell'Inno
alla Gioia di Bethoveen - che è un brano che io lego
sistematicamente a Prussia ed Austria in generale, per contenuti e
storia. In questo caso loro due non c'entrano niente: George lo
richiede perchè al Lucchese piaceva molto. Era amatissimo, e
faceva sempre successo in opere e teatri.
Spero di essermi spiegata bene, ma comunque Roderich e i due commilitoni
eseguono il solfeggio cantato, poi Malchik prosegue con il solfeggio
cantato, e gli altri cantano. Non era proibito farlo, ma era a
proprio rischio e pericolo – così come era pericoloso
fumare – in particolare, era proibito accendere tre sigarette.
Il motivo è sempre lo stesso: cecchini. In questo caso va a
tutti di lusso, perchè avendo preso la trincea adesso, gli
inglesi hanno dovuto ricomporsi – allo stesso modo,
Principessa non viene curato come si deve subito dopo essersi messi
al sicuro perchè la trincea deve venire sistemata; inoltre,
se Malchik non fosse venuto di sua spontanea volontà a
curarlo, non lo sarebbe stato affatto. I medici militari erano
troppo preziosi per stare in prima linea continuamente, e i soldati
semplici spesso erano costretti ad arrangiarsi.
Sì.
Dunque.
...guardate
il bannerino!
Lo
amo. Detto questo, non ho altro da aggiungere. Spero apprezziate, e
spero mi prenderete a calci nel caso io avessi sbagliato qualcosa.
La scena del bendaggio l'ho inventata di sana pianta, ma mi dicono
che è plausibile. Magari me lo dice lo stesso che ha detto a
Shore “Operarsi di tumore nella vasca da bagno! Vai
tranquillo!”, ma comunque...
Scrivere
questa fanfiction è stata una faticaccia. Non tanto per la
documentazione – amo documentarmi – ma per cercare di
rendere quello che volevo rendere. Ho dato spazio ai commilitoni di
Gilbert e Roderich, perchè è impensabile scrivere su
una guerra senza dare spazio ai commilitoni. Sopratutto, non sulla
Prima Guerra Mondiale. Davvero, vi prego, informatevi di più
sulla Prima Guerra Mondiale. E' DAVVERO la Grande Guerra.
Vi
ringrazio per aver letto, e per il tempo che mi avete dedicato. Vi
ringrazio altresì in anticipo per eventuali recensioni.
La
fanfiction prevedeva due capitoli – uno dal punto di vista di
Gilbert e uno da quello di Roderich – per un totale di almeno
undici pagine a testa. Per evitare di risultare pesante, il capitolo
di Gilbert è stato diviso in due parti. Il capitolo di
Roderich, dopo la lettura de “La cripta dei cappuccini”
è in riscrittura – quindi penso di dividere anche
questo in due parti - magari pubblicate contemporaneamente.
Bene,
questo è tutto.
Grazie
ancora.