Avvertenze:
i personaggi non sono miei ma appartengono ai rispettivi proprietari,
dal creatore dei personaggi, Arthur Conan Doyle, agli ideatori di
questa splendida serie, Mark Gatiss e Steven Moffat. Il testo riportato
non appartiene a me ma tutti i diritti spettano ai The Temper Trap.
Questa fanfiction non è scritta a scopo di lucro.
Science Of Fear
My ears,
my eyes,
my brain is slowly
bustin'[...]
There's a science to
fear,
it plagues my mind,
and it keeps us right
here.
[The Temper Trap
– Science Of Fear]
Il rumore della porta sbattuta ancora rimbombava
dentro la sua testa.
Era seduto sulla poltrona da due ore, sette minuti e ventuno secondi e
non aveva mai cambiato posizione, la gamba destra accavallata sulla
sinistra, mani giunte sotto il mento, lo sguardo concentrato sulla
maniglia della porta e il respiro regolare.
Sentiva un leggero formicolio dove le ginocchia si toccavano.
John era uscito di casa con un borsone.
Un borsone nero, sportivo, mediamente pieno, fatto in pochi minuti.
John era uscito di casa furioso.
Portando dentro di se' qualcosa di istintivo, primordiale.
Semplicemente rabbia.
John era uscito di casa da due ore, tredici minuti e quindici secondi,
senza meta.
Diciassette secondi.
Sherlock stava ancora guardando la porta dell'appartamento.
Nemmeno un pensiero attraversava la sua mente.
La sua testa era sempre stata troppo affollata, ma da quando aveva
conosciuto John non sentiva più il peso di tutte quelle
informazioni che convivevano in un'unica scatola cranica. Lui era
capace di governare quella meticolosa confusione grazie alla presenza
di colui che se ne era andato.
Ora di tutta quella folla non c'era rimasto più niente, si
sentiva totalmente svuotato.
Infatti, nonostante annusasse l'aria consumata della stanza lievemente
polverosa, nonostante sentisse Miss Hudson che usciva alla solita ora
per andare a fare spesa, nonostante sapesse che il violino davanti a
se' doveva essere accordato, non riusciva a trarne qualche conclusione
di sorta.
La cosa più inusuale era che non si sentiva annoiato.
Era immerso nell'apatia totale da due ore, diciannove minuti e
trentatré secondi e non si annoiava.
Non si stava divertendo, non stava lavorando, non stava pensando, stava
soltanto calcolando i secondi, i minuti e le ore che passavano da
quando il suo amante, il suo amico, il suo coinquilino se ne era andato.
Non ricordava l'inizio della discussione, la conseguente rabbia e
disappunto di John, però aveva impressa l'immagine della
schiena dell'altro avvolta nel giubbino nero mentre scendeva le scale.
Non era fondamentale sapere perché John se ne fosse andato.
Era indispensabile che tornasse.
Sherlock, quasi impaurito da quei pochi pensieri che vagavano solitari
e incoerenti nella sua testa, continuava a contare gli attimi che
passavano restando fermo nella sua posizione, immobile sulla poltrona.
Terrorizzato dal fatto che la noia tardava ad arrivare cominciava a
sentirsi perso.
Se sei annoiato, sei comunque in qualche stato d'animo; lui, ora, non
era niente.
Due ore, quarantasette minuti e undici secondi.
Chiuse le palpebre e continuò a contare aiutandosi con il
ritmo del proprio diaframma che si alzava e si abbassava ad ogni
respiro.
Non udì i passi che salivano le scale, ma avvertì
una presenza all'interno della stanza.
Tre ore, zero minuti, zero secondi.
Sollevò lentamente le palpebre.
Come poteva un ex soldato non spaccare il secondo?
Smise di contare, guardò l'uomo di fronte a lui, bagnato
dalla testa ai piedi, con le maniglie del borsone ancora strette tra le
dita dalle nocche bianche e non disse una parola.
«Sono tornato, Sherlock. Sì, sono tornato, sai
perché? Lo sai già il perché, vero,
Sherlock?» la sua voce era spezzata, «Sono tornato
perché nonostante il disordine in giro per la casa, le
provette in cucina, le teste nel frigorifero, la litigata di prima sul
fatto che dovresti impegnarti di più nel tuo lavoro se ci
sono delle vite in gioco, nonostante tutto questo io non riesco ad
allontanarmi da te. Okay?»
Sherlock, il quale non aveva mai abbandonato la sua posizione,
continuava a squadrare il suo coinquilino che stava spiegando il motivo
del suo ritorno repentino e non riusciva a staccare gli occhi da lui.
«Ho passato tre ore in strada. Non ho camminato e non ho
nemmeno preso un taxi, Sherlock. Ho trascorso queste tre ore qui sotto,
di fronte alla porta, seduto sul marciapiede sperando che tu prima o
poi saresti uscito per venire a cercarmi.»
Sherlock guardava gli occhi del suo amico ma non sentiva le sue parole,
le capiva dal suo sguardo.
«Ma non l'hai fatto. E questo mi ha fatto tornare
perché tu non ti smentisci mai. Dopo tutto quello che ti
accade, tu rimani sempre te stesso. E' questo che mi manda fuori di
testa. Ed è questo che mi fa tornare da te.»
Sherlock osservava i lineamenti del viso del suo amante e sentiva piano
piano la sua testa ritrovare la sua energia, lentamente la sua mente
tornava a riempirsi di tutto quello che considerava, fino a poco prima,
perduto.
Si alzò in piedi e si trovò di fronte all'altro,
si chinò sul suo viso e sulle labbra madide di pioggia vi
lasciò un bacio.
«Grazie, John.»
Sì, era indispensabile che tornasse.
Fine
Non sapevo se
postarla o meno, volevo postarla perché mi piaceva
condividerla ma al tempo stesso non volevo farlo perché
scrivere dal punto di vista di Sherlock mi è sembrata
un'impresa epica.
Non mi sono fatta
più viva, ma tra università, esami, studio,
problemi vari, concerti e tante altre cosette avevo lasciato la
scrittura da parte, nonostante che la prima bozza di questa storia
risalga al 5 Marzo. xD
Ringrazio: il mio
beta e tutti coloro che hanno letto; a coloro che hanno recensito e che
mi hanno accolto in questo fandom va un ringraziamento speciale. ^^
Bene, spero che
questo piccolo esperimento vi sia piaciuto e ringrazio in anticipo
tutti coloro che leggeranno e recensiranno.
Campagna
pro-recensioni promossa dalla sottoscritta e il suo odio verso i social
network:
Dona l'1% del
tempo che spendi sui social network per recensire!
Alla prossima!
free
|